Il Corriere della Sera - 05.05.98
ROMA - E Bettino Craxi? «Lo andai a trovare al Raphael, fu sbrigativo. Mi parlò degli ultimi tentativi, dell'ipotesi di graziare un paio di brigatisti malati, del Quirinale che non si sarebbe opposto... In realtà mi sembrò già appagato». Cosa vuol dire, che a quel punto non gli importava tanto che Moro tornasse vivo o morto? «Questo forse no, umanamente forse gli importava.
Ma politicamente quel che voleva, uscire dalla morsa tra la Dc e il Pci, l'aveva avuto. Era riuscito a mettersi alla guida di un movimento trasversale molto più largo di quel 7% che aveva il Psi. Insomma, aveva incassato i dividendi. Politicamente per lui l'operazione era già chiusa».
Venti anni dopo quel tragico 9 maggio, Lanfranco Pace è uscito infine da un tormentone giudiziario durato fino all'anno scorso, fa il giornalista al «Foglio» di Giuliano Ferrara, dice di sentirsi ancora di sinistra anche se sulla giustizia («Cosa sia il garantismo l'ho vissuto sulla mia pelle, questa vicenda mi è costata un anno di galera, più 10 di esilio, più uno di arresti domiciliari, più un via vai di processi: un po' troppo») si ritrova spesso al fianco di esponenti della destra, riesce a rileggere il passato, nonostante le troppe spine, con un pizzico di ironia. La risposta alla domanda centrale (Moro poteva o no essere salvato?), però, non l'ha ancora trovata. Eppure a distanza di due decenni pare confermato che fu lui, durante quei 55 giorni, l'unico contatto diretto tra il mondo della politica e le Br.
Come mai i socialisti vennero da lei?
«Non vennero direttamente da me. Arrivarono a me sondando nell'area grigia del "movimento" in cui tanti giornalisti di sinistra venivano di solito a cercare informazioni. Diciamo che avevo una conoscenza del "movimento", anche quello del '77 che era stato l'alveo di tutte le formazioni armate, superiore a quella che aveva lo stesso Piperno, che spesso era in Calabria. Sapevo più o meno "chi era chi"».
Cioè sapeva chi era rimasto di qua e chi aveva fatto il salto nella lotta armata?
«Chi era pas- sato nelle diverse formazioni dell'epoca. Perché non c'erano solo le Br. Erano cose che facevano parte del "si dice" del movimento e che si venivano a sapere».
Quando avvenne il primo contatto?
«Coi socialisti? Verso metà aprile. Spiegai loro che trovare un collegamento con le Br era una cosa molto complicata. Che i brigatisti avevano una "morale rivoluzionaria" per la quale non si sarebbero mai prestati a giochetti sotto il tavolo. Che bisognava tener conto di quanto dicevano pubblicamente. Ero perplesso a imbarcarmi in questa storia, ma siccome la mia prima reazione alla notizia del 16 marzo era stata di panico...».
Non brindò, come tanti all'estrema sinistra?
«No. Mi si bloccò lo stomaco. Capivo che era una cosa che in qualche modo ci avrebbe travolti tutti. Che avrebbe spazzato via tutti quelli che stavano nello spazio di nessuno, stretti tra il partito armato e lo Stato».
Lei stava in mezzo?
«Come tanti. A partire da Sciascia. Fu una fase molto particolare».
Però lei era stato sul filo di entrare nelle Br, no?
«C'erano state delle riunioni al collettivo dell'Università, alla fine del '77, in cui si era discusso delle varie forme d'illegalità armata. Ma gli spazi per una riflessione non c'erano. I compagni entrati nelle Br si erano in qualche modo "brigatistizzati". Non mi pareva che valesse la pena...».
Una volta deciso di provare a cercare un contatto cosa fece?
«Sondai un po' di persone che più o meno sapevo essere fiancheggiatrici delle Br come Bruno Seghetti (che all'epoca non era neppure latitante), presi degli appuntamenti, feci girar la voce: se vedete Valerio e Adriana ditegli che ho bisogno urgente di parlare con loro».
Quindi puntò subito su Morucci e la Faranda?
«Sì, sapevo che erano entrati nelle Br. Erano stati tutti e due di Potere operaio, li conoscevo da anni. Di Adriana ero stato anche testimone alle nozze, ero amico del primo marito, sapevo che aveva lasciato la figlia e la casa con grande angoscia delle famiglie...».
E Bruno Seghetti?
«Dopo due giorni mi fece avere un appuntamento. E incontrai Morucci e la Faranda in un ristorante di via dei Cerchi».
A cena?
«Mai a cena. I brigatisti la sera non uscivano. Coprifuoco alle 8. Tutti in casa».
C'è chi dice che lei non ci entrò anche per questo.
«Anche. Facevano una vita lontanissima in tutto da me. Mi piacevano John Ford, il cinema americano, giocare a poker, tirar tardi la notte... Quando ne parlavo dicevo che per me la lotta armata era una stronzata, ma se proprio uno la voleva fare tanto valeva andare coi più seri. Le Br. Io però non avrei potuto entrarci mai».
Quanti contatti ci furono, tra lei, Morucci e la Faranda?
«Diversi. All'epoca, vorrei far notare, Morucci aveva solo un problema di renitenza alla leva... Molti br se n'erano andati di casa senza lasciar detto dove andavano, ma non erano affatto ricercati. Il massimo dell'"intelligence" che lo Stato riuscì a mettere in campo fu di incrociare i nomi di quelli che erano spariti dalla circolazione con quelli di presunti brigatisti».
E quei due cosa le dicevano?
«Sembrava, all'inizio, che avessero già vinto la partita. Come se il solo fatto di aver rapito Moro li avesse appagati. All'inizio. Ma poco alla volta parevano sempre più coscienti che fosse necessario trovare una soluzione politica».
L'ultimo incontro quando avvenne?
«Poco dopo la mia visita a Craxi al Raphael. Quando lui mi spiegò, come dicevo, dell'ipotesi di una grazia per la Besuschio. Risposi che, avendo parlato con le Br, mi pareva pochino. Lui disse che voleva un biglietto autografo di Moro, per avere la certezza che fosse vivo, con su scritto le parole "misura per misura". Lì capii che era finita. Che gli spazi tra le due parti, nonostante la buona volontà di qualcuno, si stavano chiudendo».
Eppure lui ed altri pensano che se fosse stata liberata comunque la Besuschio, Moro sarebbe tornato vivo.
«Non credo. Ma certo le Br sarebbero state messe in grande difficoltà. Anche loro un po' si sentivano come chi, comunque vada, ha già incassato quel che voleva. Ma un'apertura li avrebbe costretti a riaprire i giochi».
Se lei andò dritto da Seghetti e in due giorni ebbe un appuntamento con chi aveva nelle sue mani Moro, non doveva poi essere così impossibile: perché non la seguirono?
«Non credo che sarebbe cambiato qualcosa. Morucci e la Faranda mi davano gli appuntamenti volta per volta, facendomi girare a vuoto con itinerari incasinatissimi attraverso budelli di strade finché non erano sicuri che non fossi seguito. Senza contatti telefonici né di altro tipo».
Ma ci provarono almeno, a seguirla?
«No. Mai. Che io avessi un contatto con loro, però, non è che lo sapessero tanti. E poi lo Stato non era preparato. La città, contrariamente a quanto si dice, era del tutto sgombra. Non ne ricordo uno che sia stato fermato a un posto di blocco».
Craxi dice che non la prese sul serio perché, vestito in giacca e cravatta e con un anellone da due etti al dito, lei gli sembrò uno sbirro.
«Non vorrei polemizzare, ma di anelloni non ne ho mai portati in vita mia. Giacca e cravatta sì, è vero. Non sopportavo la "divisa" del sessantottino: l'eskimo, i maglioni lunghi, i jeans... Tra l'altro la giacca e la cravatta mi aiutavano, in qualche scontro di piazza, a passare in mezzo ai poliziotti. Bastava un "buongiorno commissario"».
E allora come fu che Craxi...
«Non lo so. Sono così tante le cose strane... So solo che se avesse avuto il sospetto che io fossi stato uno sbirro avrebbe dovuto incuriosirsi di più. O no?».