DAL NOSTRO INVIATO
PARMA - Andranno a teatro, se il giudice vorrà. Al botteghino, con il biglietto, presenteranno allora quel «permesso speciale» che il semidetenuto, di regola fuori di giorno e dentro di notte, deve obbligatoriamente portare con sé. Si siederanno nelle poltroncine per guardare un attore bravo e conosciuto, Sergio Fantoni, recitare una storia e una tragedia di 20 anni fa. Che Mario Moretti e Prospero Gallinari costruirono. E vissero. Il caso Moro. Erano dall'altra parte, erano sul palcoscenico, il 16 marzo 1978. Protagonisti di un dramma e di una pazza illusione rivoluzionaria. Armata. Sciaguratamente armata. Sono scesi dal luogo della scena. Si accomoderanno in platea. E osserveranno i «fantasmi», le copie non replicabili, del loro passato. Forse, Mario Moretti e Prospero Gallinari saranno assieme nel buio del teatro di Parma. «L'idea è quella». Erano assieme in via Fani, a Roma. Erano assieme in via Montalcini. Erano assieme il 9 maggio, nel buio che chiuse gli ultimi secondi di speranza del prigioniero Aldo Moro. Non diranno quando e non diranno perché si ritroveranno di nuovo assieme nel buio del teatro di Parma. Mario Moretti e Prospero Gallinari si presenteranno senza rumori di fanfare e risponderanno all'invito della compagnia. Un tempo era quella della Br. Oggi è del regista, degli interpreti e dell'autore di una pièce che per la prima assoluta sceglie la settimana di vigilia dell'anniversario e del ricordo. Ieri sera l'attesa rappresentazione.
Mario Moretti e Prospero Gallinari hanno scritto i capitoli del caso Moro, il vero caso Moro. Lo hanno segnato con le parole e con le azioni devastanti e lo hanno consegnato con tutta la sua crudezza a chi poi, negli anni, lo ha piegato inevitabilmente a interpretazioni e ricostruzioni piene di suggestioni ma, in taluni passaggi, assai poco realistiche. Alla porta di questi due «attori» di venti anni fa la regista Cristina Pezzoli, l'autore Roberto Buffagni e Sergio Fantoni hanno bussato. Per capire. Per ragioni di spettacolo, il «caso Moro» da teatro. Per ragioni di storia e di cronaca che, entrambe, sono anima violenta di un dramma da palcoscenico. «Sì, li ho incontrati qualche mese fa. Sono stati loro a prendere contatti con me, volevano conoscere anche il nostro punto di vista. È stato uno scambio di idee lungo e disorganico ma forse proprio per tale motivo denso di contenuti».
Mario Moretti non ha raccontato, per il teatro, inediti o clamorosi retroscena tali da arricchire il pettegolezzo politico. «Mi hanno detto che cosa pensavano di allestire e io che cosa significarono per me e per noi quei giorni». L'irrompere di una tragedia. Attori veri e attori chiamati alla recita si sono scrutati. Si sono parlati. Si sono sfiorati nell'ansia di ritrovare nella memoria di ieri e nella ricorrenza dell'oggi qualcosa che le immagini televisive o i discorsi da guerra civile del 16 marzo 1978 non avessero già freddamente o retoricamente, ma comprensibilmente, proposto. Il dolore sopravvissuto all'attimo della strage in via Fani, al momento dei cinque uomini di scorta lasciati sulla strada, ai 55 giorni del rapimento.
«È emerso ciò che fu, per me, il sequestro. L'irrompere appunto della tragedia come scontro tra due o più ragioni». Difficile o magari impossibile da rappresentare con la sua piatta oggettività nelle pagine di un fascicolo giudiziario. Più facile da rappresentare «attraverso la poetica teatrale» che restituisce pietà e che è capace di regalare commossi turbamenti, venti anni dopo, sia a coloro che vittime furono sia a coloro che colpirono in forza di una logica che non ammetteva e non permetteva «inquinamenti» suggeriti dai sentimenti. C'erano «due o più ragioni». Era la politica che non conosceva pietà e dolore. Immensa tragedia della ragione. E della rabbia. Moretti e Gallinari hanno letto in anticipo gran parte del lavoro teatrale. A Moretti è arrivato per posta elettronica. Via Internet, spedito da chi sul palcoscenico è diventato il suo fantasma. E che una di queste sere andrà, in incognito, a conoscere.