Il Corriere della Sera - 13.05.98
Maurizio Caprara
ROMA - Con Scalfaro c'è «piena sintonia», informa il procuratore capo della Repubblica di Roma Salvatore Vecchione. Mentre due suoi sostituti indagano sugli enigmi del lago della Duchessa, sui servizi e la base brigatista di via Gradoli, il numero uno dei pubblici ministeri romani smentisce di aver screditato la tesi in base alla quale sul sequestro di Aldo Moro restano da individuare altri colpevoli, i più alti. Eppure su quella tesi, rilanciata sabato dal presidente della Repubblica, non sembrano destinati a chiudersi i contrasti tra ex democristiani.
«Non vorrei parlarne, mi costa molto. Per me il rapimento Moro è una ferita ancora aperta», premette Giuseppe Pisanu.
Dopo un giorno di insistenze, il capogruppo dei deputati di Forza Italia accetta di mettere tra parentesi il suo incarico attuale per tornare con la mente a quando, vent'anni fa, era capo della segreteria particolare di Benigno Zaccagnini. Dal 1978 ha evitato interviste e commenti su quanto passò sotto i suoi occhi a fianco del segretario della Dc. Ma adesso Pisanu parla. Riconosce che la pericolosità delle Br per la vita dello Stato, non la loro crudeltà, fu sopravvalutata. Che i democristiani sbagliarono nel liquidare le lettere di Moro come frutto di un crollo psicologico. E sottolinea di non aver mai avuto sentore del colloquio fra Zaccagnini e Scalfaro riferito sabato dal capo dello Stato.
Il presidente della Repubblica ha affermato che andò da Zaccagnini e gli disse: «Se fossi stato sequestrato e fossimo qui a discutere con Moro, lui proporrebbe di trattare?». La risposta «fu il silenzio». Ricorda l'incontro?
«No. Credo di conoscere molto di quei 55 giorni perché non mi sono mai mosso dagli uffici del partito per tutto il tempo. Di questo non so assolutamente nulla».
Scalfaro ha riferito che nella stanza c'erano «tante persone».
«C'erano riunioni continue, nelle ore più impensate. Ma non confuse, perché Zaccagnini non si fece mai travolgere dalla forza degli avvenimenti. E quindi è probabile che Scalfaro sia capitato lì in una di quelle occasioni».
Quale significato dà a quel silenzio?
«Se Zaccagnini tacque lo fece sicuramente per fondate e nobili ragioni. Era uomo di grande onestà e coraggio, ma anche di grande prudenza. Certamente aveva un assillo: quello di "non lasciare nulla di intentato" per salvare Moro».
Nulla di intentato. L'espressione che comparve in molte dichiarazioni.
«Fu dettata a me da Zaccagnini nel primo comunicato della segreteria dopo il rapimento di Moro e non fu mai disattesa né con le parole né con i fatti da Zaccagnini».
Però lei stesso, sabato, osservava che ci fu una «generale inadeguatezza» dello Stato.
«Mi riferivo alla innegabile impreparazione che lo Stato manifestò nel fronteggiare una simile, imprevista, e per molto tempo imprevedibile, evenienza».
Scalfaro si è domandato se restino impunite «le intelligenze criminali» che mirarono su Moro. Il dubbio può far spaziare dalla teoria del Grande vecchio ai paraggi dello Stato. Non trova?
«Scalfaro, che è stato anche a lungo ministro degli Interni, avrà certamente avuto le sue ragioni. Sarebbe meglio se le manifestasse. Altrimenti si rischia di alimentare sospetti e congetture senza costrutto che possono arrecare a molti superfluo dolore».
Cossiga le giudica «miserevoli speculazioni».
«Condivido integralmente le cose dette da Cossiga, che visse quella vicenda con lo stesso coraggio e lo stesso strazio umano di Zaccagnini».
Cossiga scrive di aver «concorso sul piano dei fatti alla morte di Moro». Nel 1991 lo riconobbe ancora più apertamente: «Io ho, nel senso materiale del termine, contribuito a lasciar uccidere quest'uomo». Nasceva da una sensazione simile la sua ritrosìa a parlare del caso in questi anni?
«Quella di Cossiga mi sembra una valutazione oggettiva e generosa».
Alla famiglia Moro non può bastare. Lo sa?
«La famiglia di Moro ha pagato il prezzo più alto che poteva pagare e ha diritto a essere esigente».
A uccidere Moro furono le Br. Ma per salvarlo davvero non si fece tutto.
«Credo che ci sia stata allora una sopravvalutazione delle dimensioni, della reale pericolosità delle Br che ha contribuito ad alimentare la linea della fermezza».
E le lettere che molti presentarono come quelle di un uomo fuori di sé?
«C'è stata una inadeguata valutazione, almeno in taluni casi, delle lettere di Moro. Ed è causa di un dolore che si ravviva. Ma posso ribadire con tranquilla coscienza che Zaccagnini non lasciò nulla di intentato per salvarlo. Col senno di poi dico che nelle sue parole avremmo dovuto riconoscere in modo più compiuto l'altezza morale e intellettuale di Moro». Una pausa. Poi: «Questo comunque non avrebbe risolto il problema. Purtroppo la vita di Moro era posta in alternativa agli interessi supremi dello Stato».
Intende dire che non è pentito della scelta politica della «fermezza», ma ne porta i rimorsi?
«Questo rinnova lo strazio, ma riconosco che è così».