Antonio Troiano,
MILANO - «Per salvare Aldo Moro sarebbe bastato poco. Molto poco. Probabilmente anche una libertà provvisoria a uno dei brigatisti detenuti avrebbe evitato la morte dello statista democristiano. Ricordo il caso di Paola Besuschio, condannata a 15 anni. Era in carcere a Messina. Malata. Sarebbe stato sufficiente l'atto di un magistrato. Ma anche lì non accadde nulla. Prevalse la linea del rifiuto».
Sono trascorsi vent'anni dal rapimento-esecuzione di Aldo Moro, ma nella voce dell'avvocato Giannino Guiso si sentono ancora la rabbia e l'amarezza di un uomo che si porta dietro il peso di quell'esperienza terribile. Giannino Guiso fu uno dei mediatori più convinti della possibile salvezza di Moro. Il suo ingresso in scena avvenne tra la fine di marzo e l'inizio di aprile di quell'anno. A Torino si celebrava il processo al gruppo storico delle Br, da Renato Curcio ad Alberto Franceschini a Prospero Gallinari, «io ero il loro difensore», ricorda Guiso. «Contemporaneamente in città c'era un congresso del Partito socialista. Io conoscevo Craxi. Mi fu chiesto da Maria Magnani Noja se pensavo che ci fosse uno spiraglio per salvare il presidente dc. Parlai con i miei assistiti e mi resi conto che la trattativa era senz'altro possibile. Purché si cedesse un po'. Almeno un po'».
Queste sono cose, aggiunge l'avvocato Guiso, «che dissi allora e che scrissi in un libro uscito poco dopo la morte dello statista», (La condanna di Aldo Moro, Sugarco), «ma allora pochi erano diposti a seguire la linea del dialogo. Sarebbe stato sufficiente condurre una trattiva seria, senza ipocrisie, senza nascondersi dietro la montatura di uno Stato che non poteva cedere. Il paradosso fu che la salvezza di un uomo veniva vista come una sconfitta».
Chi voleva salvare Aldo Moro «restò sempre più solo. Quando Craxi mi mostrò la lettera di Paolo VI capii che anche la Chiesa si era schierata con il partito della fermezza». «Vi prego in ginocchio - scriveva il Pontefice ai sequestratori - liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni». «Semplicemente, senza condizioni», ripete l'avvocato Giannino Guiso. «Fu un segnale preciso».
«Dopo il primo maggio - continua l'avvocato Guiso - Renato Curcio mi disse che dovevamo stringere i tempi, che non potevamo perdere altri giorni preziosi. I brigatisti avevano chiesto in un primo momento la liberazione dei 12 condannati del gruppo "22 ottobre". Il no fu perentorio. Faticosamente si continuò a tenere un filo di collegamento. Dopo trenta, quaranta giorni dal sequestro, i vertici Br non aspettavano che un segnale di apertura. Lì mi resi conto che un gesto simbolico avrebbe smosso la situazione. La libertà provvisoria di Paola Besuschio, che avevo difeso in altri processi, poteva salvare la vita di Aldo Moro». La ragazza, ex militante comunista, laureata a Trento alla facoltà di sociologia, «era in carcere malata. Non aveva commesso reati di sangue, era una donna, l'unica inserita nella lista delle persone da liberare. Fu una delle ultime trattative possibili.
«Non mi stancherò mai di ripetere che sarebbe bastato l'atto discrezionale di un magistrato. Niente di più. Altro che crollo dello Stato. La morte di Moro - attacca l'avvocato Guiso - divenne funzionale alla salvezza di una classe politica corrotta. Basta sfogliare le raccolte dei giornali di quel periodo. Erano gli anni del processo Lockheed, degli ex ministri sul banco degli imputati, dell'Antelope Cobbler, degli scandali del petrolio, delle bustarelle» insomma, quella che stava scoppiando era una vera e propria Tangentopoli, come quella scoppiata 15 anni dopo. La morte di Moro riaggregò e cancellò tutto».
Oggi restano ancora molti, troppi lati oscuri di quella vicenda, «così come resterà un mistero la rapidità con la quale, dopo quel tragico 9 maggio, i brigatisti vennero individuati. Il sospetto terribile è che i vertici dello Stato sapessero molto di più di quello che fecero intendere. È questa la verità storica che abbiamo il diritto di conoscere».