Il Corriere della Sera - 16.03.98

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A vent'anni dal rapimento di Aldo Moro

IL SEQUESTRO DELLA MEMORIA

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

L'uccisione di Aldo Moro e della sua scorta è uno dei pochi casi al mondo in cui la storia rischia di non essere scritta né dai vincitori né dai vinti ma da una terza categoria di persone: dai colpevoli. Sono 20 anni, infatti, che, soprattutto sugli assassini del leader democristiano, sulle loro parole, la società italiana sembra voler fare affidamento per sapere che cosa hanno significato la strage di via Fani e il delitto Moro, e perché sono stati commessi. Benevolenti, gli uomini e le donne delle Brigate rosse forniscono ciò che viene loro richiesto: centinaia di articoli, di libri, di interviste, sui propri stati d'animo, su ciò che essi si prefiggevano dedicandosi all'omicidio a sangue freddo, nonché, per rendere la pietanza più piccante, il resoconto ripetuto ormai mille volte delle ultime ore della loro illustre vittima, ben consci della torbida curiosità che suscita sempre un tal genere di narrazioni.

I riflettori accesi così pervicacemente e così incessantemente sui brigatisti, la continua sete delle loro parole sembrano testimoniare una profonda e perdurante incertezza della società italiana circa il terrorismo rosso: come se essa non fosse ancora convinta di quale analisi e di quale giudizio darne. Come se fosse incerta.

È proprio così. C'è tuttora una parte considerevole e culturalmente assai influente della società italiana che continua a credere che non solo il terrorismo delle Br non fu ciò che sembrava - e cioè una propaggine della tradizione comunista -, o perlomeno non fu principalmente questo, ma soprattutto che il rapimento e l'omicidio di Moro nascondano misteri e segreti tali da cambiarne radicalmente il significato apparente.

L'ormai nota teoria generale del «doppio Stato», mezze verità e mezze bugie, coincidenze inevitabilmente presenti in ogni vicenda complessa, particolari insignificanti, circostanze casuali: tutto viene mobilitato per suffragare le ipotesi di cui sopra, nonostante che in tutto questo periodo non sia venuto mai fuori un solo vero documento, una sola prova vera, circa i presunti retroscena di quel 16 marzo. Non importa.

Da vent'anni tutto viene mischiato ed emulsionato a dovere per suggerire una duplice verità, alternativa a quella del buonsenso e cioè: a) che l'operazione di via Fani e la morte del leader Dc obbedissero in realtà ad un disegno i cui fili sarebbero stati tirati da entità internazionali (leggi servizi segreti Usa o loro settori) ostili alla politica del «compromesso storico» tra Democrazia cristiana e Partito comunista, e, b) che la morte di Moro avrebbe goduto della segreta complicità del «potere», ed in particolare della Dc, dal momento che solo così si spiegherebbe come mai essa «non avrebbe fatto nulla per salvarlo» e perché, in particolare, si sarebbe rifiutata a quel «segnale di apertura», a quel «gesto simbolico» che - si dice - avrebbe salvato la vita del prigioniero.

In tanti anni però non mi è mai capitato, neppure una volta, di vedere i sostenitori di queste idee tentare di rispondere in modo convincente alle due principali obiezioni che si possono loro muovere e cioè: non basta forse, a spiegare la paralisi di tutti gli attori sul piano della trattativa e della «clemenza», la convinzione che una volta realizzatasi una trattativa a favore di Moro diventasse impossibile a partire dall'indomani non fare lo stesso per l'eventuale rapimento anche dell'ultimo e più insignificante cittadino catturato dalle Br? Perché per Moro sì, e per chiunque altro no? Ma quali conseguenze avrebbe innescato una simile prospettiva?

Quanto all'idea del complotto internazionale: se l'interesse di chi tirava realmente i fili era quello di eliminare Moro, perché non ucciderlo direttamente in via Fani? Perché tenerlo in vita per cinquantacinque giorni? Perché l'inaudita complicazione della prigione, degli spostamenti, dei comunicati e così via? E se lo scopo invece non era quello di ucciderlo, come mai i potenti burattinai permisero che al contrario proprio questo fosse l'esito della vicenda?

Ma piuttosto che darsi pensiero di rispondere a queste ragionevolissime e pesantissime obiezioni, la dietrologia di turno preferisce divenire intellettualmente complice di fatto delle Br.

In due modi: il primo consiste nell'avallare tutti i tentativi degli stessi brigatisti di tirare in ballo altre responsabilità oltre la propria ricorrendo anch'essi alla teoria del «doppio Stato», di cui sono naturalmente ardenti sostenitori, e raffigurandosi quasi come sprovvedute creature, non già manovrate ma sicuramente strumentalizzate da quei ben noti criminali che sedevano nella direzione della Dc e nel Consiglio dei ministri della Repubblica italiana.

Il secondo tipo di complicità intellettuale consiste invece nell'interpretare tutti i silenzi e le omertà di cui molti brigatisti ancora avvolgono aspetti importanti della loro attività criminosa, non già come la prova della loro perdurante, colpevole, reticenza, bensì come la semplice proiezione dentro le Br di silenzi e omertà che rimanderebbero alla condotta di altri attori, a cominciare naturalmente dallo Stato italiano e dalle sue forze politiche. Con una specie di gioco di prestigio i misteri ed i silenzi delle Br su sé medesime diventano, in tal modo, i misteri ed i silenzi allusivi di chissà quali inconfessabili protagonisti, naturalmente sempre annidati nello Stato a riprova della sua criminale doppiezza.

Per rendersi conto che non si tratta di esagerazioni basta leggere quanto sosteneva appena ieri in un'intervista all'Unità uno storico, consulente ufficiale della Commissione stragi del Parlamento, secondo il quale la morte di Moro sarebbe stata decisa da un non meglio precisato «partito non brigatista dell'omicidio», espressione di «forze eterogenee, parte dei servizi segreti piduisti, settori della criminalità organizzata, e forze politiche tradizionali, peraltro di destra» che - testuale - «avrebbe stretto d'assedio le Brigate rosse accerchiandole fino a costringerle all'atto estremo». Povere Brigate rosse, viene da commentare.

In realtà, sono anni che anche il delitto Moro è adoperato con la più spregiudicata indifferenza verso i fatti e verso il buonsenso per quella maliziosa, generale riscrittura della storia repubblicana che si propone di consegnare alla damnatio memoriae la Prima Repubblica, e in particolare la Democrazia cristiana. E' per servire a simile fine politico che nella vulgata di questa storiografia l'assassinio di un capo della Dc, ad opera di terroristi che si proclamavano comunisti, diviene, con un colpo di bacchetta magica, la insopportabile «panzana» (così l'ha chiamata giustamente Gad Lerner sulla Stampa di ieri) di un complotto della destra nazionale e internazionale, padrona del «doppio Stato» democristiano, per impedire al Partito comunista di andare al governo!

Oltretutto, se davvero questo fosse stato l'obiettivo e il senso dell'agguato di via Fani, allora bisognerebbe concludere tristemente che il delitto pagò, che il suo movente effettivo si tramutò in un risultato reale. E invece non fu così. Nel ventesimo anniversario di quell'orribile gesto di sangue, esso continua ad apparirci ciò che apparve a quasi tutti subito, già allora: il tragico e inutile, inutilissimo, risultato di un cupo impazzimento ideologico nemico della nostra libertà.

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