Gian Antonio Stella
DAL NOSTRO INVIATO
HAMMAMET - «Se avrei voglia di fare ancora politica? Non credo proprio. Mi ha bruciato la vita... La vita ormai se n'è andata...». Pausa. «La vita se n'è andata». Allungato in avanti, la testa posata nel palmo della mano, il gomito piantato sul tavolo, la tuta verde bottiglia un po' sdrucita, la scarpa destra da ginnastica ritagliata con la forbice per consentire al piede malandato per via del diabete di dare al suo padrone qualche sofferenza in meno, Bettino Craxi, il Male Supremo della Prima Repubblica, deglutisce un'altra giornata che se ne va. Alle sue spalle, dietro la vetrata, passa adagio una luna immensa.
E ti racconta che sì, vengono giù di continuo da Roma e da Milano e da tutta la Penisola a fargli visita: «E' tutto un via vai di gente, qualcuno magari è imbarazzato a farlo sapere e ci viene di nascosto, però ci viene». E ti spiega che tutte le mattine gli mandano per fax la rassegna stampa e che il suo computer è collegato con Internet e che sul tetto ha piazzato una parabola che gli permette di vedere tutti i canali: «Insomma l'Italia ce l'ho sempre in casa, è come se ci stessi». E ti rivela che gli capita di andare su un promontorio più a Nord da dove nelle giornate di sole si vede Pantelleria e che se ne resta lì assorto. Come forse faceva il suo amatissimo Garibaldi, che «si fece lui pure un anno di esilio a Tunisi dopo essere stato condannato a morte da quel vigliacco di Carlo Alberto».
Un anno. Lui va già verso il quinto. Minato dalla malattia, deluso dagli ex amici («neanche tanto, però: capitò anche al Cristo di essere tradito da tutti. Quando cantò il gallo, la mattina, ciao!, non c'era più manco Pietro!»), intenerito da qualche rara parola di umano rispetto come quelle di Armando Cossutta («con gli anni ho rinsaldato i rapporti con alcuni vecchi comunisti, che certo si sarebbero comportati meglio con me di tanti socialisti»), rassegnato: «Non credo che mi faranno tornare in Italia vivo». Peccato, dice, perché «ho girato tutto il mondo, tutto, prima come capo del governo, poi in missione per l'Onu ma mi accorgo ogni giorno, guardando la tivù, di non conoscere quel paese, quella cittadina, quell'altopiano...».
Eppure non si schioda. E anche se ammette che «De Michelis ha esagerato dicendo che Tangentopoli è stata un complotto dei disonesti per far fuori gli onesti», non molla di un millimetro sulla sua tesi di sempre: «Hanno fatto commissioni parlamentari su tutto. L'unica che non hanno voluto (l'unica!) è stata sul più grave scandalo politico della storia repubblicana. Perché? Perché tanti papaveri ne sarebbero usciti con le ossa rotte. Nel finanziamento illecito c'erano dentro tutti». Ma se l'era mai posto il problema morale? «Mi sono posto il problema della degenerazione di un sistema, causata da una certa demagogia che impediva un serio finanziamento pubblico. In Germania i partiti prendevano dieci volte più di noi!».
Guai a parlargli di miliardi: «Quali miliardi? Per tenere in vita un partito che garantiva libertà e progresso spendevamo quanto spende in pubblicità un'azienda che fa duemila miliardi di fatturato! E c'eravamo dentro tutti!». E guai a ricordargli i Mario Chiesa finiti in massa nel Psi... «Guardi: io avevo in casa Chiesa, ma se permette non avevo i soldi della Cia e del Kgb». Azzanna: «Non c'è un Paese europeo che si sognerebbe di concedere l'estradizione per me». E allora perché se ne sta in Tunisia invece che in Francia? «Perché qui per me è come stare al paese. Conosco tutti. E' qui che ho la casa».
Una masseria fortificata, dove è insieme libero e carcerato: «Mi sento una belva in gabbia. Una vecchia belva malmessa». Costruita alle pendici del monte che domina Hammamet, su un terreno pagato all'epoca mille lire al metro («e scoprii pure, più tardi, che mi avevano bidonato»), circondata da un muro di cinta, vigilata da un posto di blocco all'ingresso dove ti chiedono il passaporto, anche se sei accompagnato da Bobo, custodita da una decina di guardie («ho cercato di spiegare che forse sono troppe, ma i tunisini preferiscono così...») che giorno e notte pattugliano la piccola tenuta, dove l'autista dell'ex presidente ha pazientemente dato vita a un orto lussureggiante, la villa è una casa bassa circondata da una manciata di dépendance dove un tempo i campioni di una certa Italietta avrebbero dato qualsiasi cifra per essere invitati a tagliare un cocomero insieme con la Real Famiglia.
Ricordate i racconti di Marina Ripa di Meana? Arsenico: il ciccione Mohammed che arrivava la mattina da Tunisi con un'auto dell'ambasciata per portare i giornali italiani, la maestosa poltrona destinata al padrone di casa che «sembrava una specie di trono», le passeggiate sulla spiaggia con «i ragazzotti tunisini smaniosi di vedere il mio seno», le cene all'aperto coi Mach di Palmestein e i Massimo Pini, e Anna che verso le 5 «convocava le ospiti ancelle: una le faceva la messa in piega, l'altra le dava lo smalto alle unghie dei piedi»?
Il trono, se mai c'è stato, non c'è più. E con quello se n'è andata quell'aria di strapotere un po' ebbro che si respirava ai tempi in cui il segretario socialista diceva: «Se De Mita vuol durare deve servirci il caffelatte a letto tutte le mattine». Ai lati delle porte arabesche troneggiano dei leoni di pietra, nel patio svettano quattro palme altissime piantate da Bettino, grandi e luminosissime vetrate danno su una fuga di saloni ampi ed eleganti stracolmi di divani, poltrone, pouf, cuscini, cuscinoni, cuscinetti. Posato a una parete un mosaico che rappresenta Craxi e il presidente tunisino Ben Alì. Ovunque statuette votive e busti e bassorilievi e reperti archeologici romani tra souvenir di viaggio.
E' stato preso d'assalto, in questi giorni, Bettino Craxi. Tema: Moro. A tutti, come sempre, ha chiesto domande scritte e dato risposte scritte. Spiegando che no, lui che prese le redini del partito trattativista non si tormenta più davanti alla domanda se Moro poteva o no essere salvato: «Forse». Alla fine di un attento esame, dice, avevano deciso di liberare Paola Besuschio: «Era nell'elenco dei 13 indicati dalle Br. Non si era macchiata di delitti di sangue. Se fosse stata liberata con un atto di grazia, senza trattativa di sorta, chi aveva in mano la vita di Moro e chiedeva una contropartita si sarebbe trovato in grande difficoltà».
Vent'anni dopo, spiega, gli sono rimasti un sacco di dubbi: «Tanti diversi episodi fanno pensare che nel campo Br gli infiltrati fossero più di uno. Di quale servizio italiano si sarebbe trattato? E chi fu questo infiltrato? E' mai possibile che in tanti anni nessuno se ne sia accorto o che avendolo saputo abbia tenuta nascosta la cosa? I brigatisti che tennero prigioniero Moro negano qualsiasi infiltrazione come negano qualsiasi inquinamento straniero. Ma tante cose portano a chiedere sino a che punto la mano destra sapeva realmente quello che faceva la sinistra».
Ancora dubbi: «Ho letto di operazioni di polizia che interessavano persone ben conosciute nell'ambiente eversivo. Leggo che la più nota fu quella del 3 aprile. Nella lista si trovavano: Morucci, Faranda, Bruschi, Piperno. Su di loro non c'erano indizi? Molto strano perché sarebbe dovuto risultare che la Faranda, sin dal 17 marzo, era stata riconosciuta "come persona che facendo shopping aveva acquistato il berretto da aviatore poi indossato da uno degli attentatori di via Fani". E via Gradoli? La dobbiamo davvero alle anime buone di La Pira e di Don Sturzo interrogati da Prodi e dai suoi amici nel corso di una seduta spiritica?».
Rivelazioni: «Eravamo ormai agli sgoccioli della vicenda e, una sera, tardi, mi chiama al Raphael padre Davide Maria Turoldo. Io non lo conoscevo se non di nome. Mi da del tu e mi dice: "Ascolta, tu adesso devi dire al Vaticano di chiedere un silenzio stampa per tre giorni". Chiedo: perché, tu hai qualche... Dice: "Ti dico di fare così". La mattina dopo mandai Acquaviva in Vaticano, l'ascoltarono gentilmente, gli dissero "grazie", fine. Dal che dedussi...». Cosa? «Che Turoldo aveva un contatto diretto con le Br o pensava di poterlo avere. Cosa che più tardi mi venne in qualche modo confermata da Dalla Chiesa, che mi rivelò come il centro di padre Turoldo a Milano era stato frequentato da estremisti e brigatisti».
Era l'astro nascente della politica italiana, allora. Vent'anni e un terremoto dopo, confessa che i nuovi li conosce pochissimo: «Di Buttiglione non sapevo neanche che esistesse, Mastella lo vedevo dietro a De Mita, lo stesso D'Alema... Me ne parlò per prima la Iotti. Dice: "andiamo su Occhetto ma ci sarebbe un ragazzo che, quello sì!" Chiedo: di chi parli? E lei: "del giovane D'Alema". Non l'avevo mai sentito nominare. Dal che ero sempre stato convinto che lui, figlio del vecchio Pci e così diverso da Akel, andasse bene alla vecchia guardia. Anzi, ero convinto perfino che uno come Cossutta fosse un suo alleato naturale. E invece leggo che gli dà certe legnate... Mi pare fragile. Un timido che diventa aggressivo».
Allora è identico... «A me? Io non sono fragile. E neanche insicuro». Dice che da qui, da Hammamet, vede per le riforme tempi duri: «Questi arrivano al '99, gli scade il mandato di Scalfaro, non riescono a trovare la maggioranza dei due terzi per dargli la proroga e così eleggono un altro presidente col sistema vecchio. E se va così (e andrà così!) il prossimo Capo dello Stato (e scommetto che vincerà a mani basse) sarà Romano Prodi. Perché è l'unico che può dare qualosa in cambio. Lo chiamavano "mortadella" ma è il più duro di tutti».
Dice che a star lontano dalla politica ha riscoperto i libri: «Ormai non leggevo più niente». Che passa le giornate a scrivere. Che, scoperta una vena artistica, ha fatto fare a Moknine decine di vasi di ceramica. Sullo sfondo bianco, grandi lacrimoni verdi e rossi sgocciolano giù: «E' l'Italia che piange».