Il Corriere della Sera - 18.03.98

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L'INTERVISTA

Folena: Pci troppo lento nel capire i cambiamenti

«La linea della fermezza non si discute.

Poi però l'emergenza terroristica schiacciò il partito»

Felice Saulino

ROMA - Vent'anni dopo. La memoria del rapimento e della tragica fine di Aldo Moro rinvia inevitabilmente, come in uno specchio, a un'altra memoria e a un'altra storia. Quella di Enrico Berlinguer: il segretario comunista che con il leader democristiano stava portando il Pci al governo. Con il rapimento di Moro, le Br «cambiarono la storia d'Italia», ha ricordato Massimo D'Alema intervistato l'altro ieri dal «Tg3». E qui la critica dalemiana a Berlinguer si fa esplicita: il Pci al «massimo della sua potenza» si adattò a «sostenere» un monocolore democristiano. E ancora: «In pochi attimi fu decisa la linea della fiducia al governo e poi si discusse anche della famosa linea della fermezza...». Walter Veltroni, vicepresidente del Consiglio, è andato anche oltre. In un'intervista all'Unità ha sostenuto: «Con la linea della fermezza difendemmo uno Stato già marcio». E Pietro Folena? Che cosa ne pensa lui che al leader comunista ha dedicato un libro: «I ragazzi di Berlinguer»?

«La linea della fermezza non si discute. Credo che la scelta così netta del Pci e della Fgci contro la lotta armata sia stata decisiva per sconfiggere il terrorismo. Il punto non è la "fermezza" mostrata nei 55 giorni del rapimento Moro, perché un'alternativa non esisteva. Piuttosto...».

Piuttosto che cosa?

«Gli errori erano stati commessi prima. Troppo lento il distacco da Mosca che pure era iniziato all'indomani dell'invasione sovietica di Praga. L'incapacità di capire i cambiamenti della società. Soprattutto l'evoluzione del mondo giovanile dopo il '68. L'arrivo del terrorismo rosso finì per schiacciare il partito. Ero segretario regionale della Fgci a Padova nel 1977 e ricordo perfettamente quel dramma: Autonomia operaia aveva dato il via alle gambizzazioni dei professori e alle notti dei fuochi. Quando Moro fu rapito scendemmo in piazza con i giovani Dc mescolando bandiere rosse e bandiere bianche».

Eppure D'Alema dice che il paradosso del Pci del dopo-Moro fu la testimonianza della sua impotenza a rappresentare un'alternativa di governo alla Dc.

«Insisto. L'emergenza terroristica impedì al Pci di comprendere il cambiamento della società italiana. La necessità di riformare le istituzioni. Il fatto che stava nascendo un bisogno di bipolarismo che non capiva e non poteva capire il richiamo all'unità nazionale. Se non come una fase di transizione in vista dell'alternanza di governo. Ma Berlinguer era così. Un uomo di transizione, troppo avanti in molte sue idee rispetto al suo tempo, ma anche troppo figlio di una cultura politica che si stava già esaurendo».

Insomma anche lei è critico.

«L'ho scritto nel libro: "Cancellare Berlinguer o santificare Berlinguer è un bivio tra due vicoli ciechi". L'importante è cercare di capire la sua grandezza e il suo limite. C'era l'umanità. La sua tensione morale. Una tensione - bisogna sottolinearlo - che mise al riparo il Pci dalla corruzione e dagli abusi degli altri partiti. Noi giovani avevamo il sentimento e la consapevolezza di essere entrati in un flusso storico. Ma non fu una cavalcata...».

Sarebbe a dire?

«Che poi vennero le durissime lotte contro la violenza e il terrorismo rosso e venne un'estenuante serie d'insuccessi elettorali. Una serie praticamente continua dal '76 al '93. Noi ragazzi invecchiavamo e sembravamo portarci addosso una maledizione: la sconfitta, l'opposizione, la caduta delle idee e dei valori della sinistra. Fu Achille Occhetto, bisogna dargliene atto, a trovare il coraggio di completare il distacco. Con la trasformazione del Pci in Pds».

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