Il Corriere della Sera - 19.03.98

WB01343_.gif (599 bytes)


IL COMMENTO

Basta con le tesi ignobili. Moro fu ucciso dalle Br. Il resto fa ancora soffrire

di ARRIGO LEVI,

Una robusta alleanza di ex Bierre e di ex simpatizzanti Bierre, tutti ben piazzati nell'indulgente società italiana, e di cultori di dietrologia, sta diffondendo la tesi che Moro sia stato «condannato a morte dalle Br e dalla Dc», egualmente colpevoli. Questa tesi, che propone un'immagine ignobile di un capitolo di storia tragico ma non ignobile, non si fonda sui fatti ma su un'idea fissa: e cioè che l'Italia fosse un paese spregevole per il quale non meritava di farsi ammazzare. Ciò giustificherebbe gli appelli disperati di Moro, rendendo «oscena» l'opinione che egli abbia umanamente peccato di poco coraggio. Nessuno sa se avrebbe avuto più coraggio di lui. Ma poiché ci furono amici, che non erano né stupidi né complici del «potere», che per quell'Italia si fecero ammazzare, non è lecito tacere.

Dei sei uomini che allora più di tutti sostennero e vinsero la prova di forza con le Bierre, anche se questo voleva dire non cedere alle implorazioni di Moro, rischiando di farlo uccidere, quattro - Paolo VI, Berlinguer, Zaccagnini e Lama - sono morti. I due ancora vivi, Andreotti e Cossiga, continuano a ripetere pazientemente la ragione, allora a tutti evidente, che impediva di cedere. Ho in mente la voce stessa di Cossiga quando mi disse, nel suo ufficio al Viminale: «Se rimettessimo in libertà dei terroristi per salvare la vita a uno di noi, non potrei più rispondere dell'operato delle forze dell'ordine, dopo che hanno ammazzato cinque uomini per rapire Moro».

Noi tutti che allora ci ritrovammo bersaglio dei terroristi sapevamo che cedere voleva dire la resa dello Stato: poi Dio sa che sarebbe successo. La resistenza alle Bierre, che durava da anni (ricordo quando scrissi, su «La Stampa», che non si potevano liberare dei terroristi per salvare la vita a Sossi, il primo sequestrato); i tenaci rifiuti di «riconoscerli» se non per quel che erano, dei terroristi; la scelta di combatterli con la legge e non con lo stato d'assedio (per aver scritto questo fu ucciso Casalegno), i pericoli che tanti correvano per raccontare i fatti sul terrorismo (come i miei fedeli cronisti della «Stampa», che ricevevano minacce di morte); tutto ciò sarebbe stato invano. Le Bierre, che certo «non erano il Terzo Reich» ma erano i nipotini di Lenin e Stalin, cosa non molto diversa, avrebbero sconfitto lo Stato italiano. Questo era intollerabile.

Forse questo Stato non era «candido come la Resistenza», ma era pur sempre, come diceva la rubrica settimanale di Casalegno su «La Stampa», «il nostro stato», costruito lottando contro il fascismo. Era imperfetto, e noi lo criticavamo ogni giorno; ma eravamo decisi a difenderlo; ed erano d'accordo i comunisti con in testa Berlinguer, il quale disse un giorno al «Corriere» che «era più facile costruire il socialismo di qua che di là». Non a caso quei sei uomini che ho menzionato avevano tutti radici antifasciste. E le Bierre, nonostante il loro pseudo-leninismo, per noi erano dei fascisti, e la resistenza alle Bierre era la continuazione della Resistenza. Per chi aveva sconfitto il totalitarismo l'idea di cedere ai suoi tardi nipoti era assurda.

Quello che durante la prigionia di Moro non riuscivamo a comprendere è come potesse non capirlo lui, che tanto aveva fatto per «allargare le basi della democrazia». È vero: non potevamo credere che quelle lettere di Moro esprimessero il suo vero pensiero. E sono ancora convinto che avevamo ragione noi e che ha torto chi gliele rivendica oggi come prova di abilità politica: un'accusa assai peggiore di quella di soffrire di umana debolezza, essendo un condannato a morte in barbara prigionia. Per questo dicemmo allora ai nostri familiari: se mi sequestrano dovrete ignorare qualsiasi cosa possa dire o fare. Solo tenendo presente la sua prigionia potevamo spiegarci come mai Moro consigliasse una politica che avrebbe distrutto la democrazia che aveva aiutato a costruire. O come mai sembrasse ignorare il fatto che cinque uomini che erano degli amici («loro, le loro famiglie - ricorda Giovanni Moro - stavano spesso con noi, la domenica in vacanza...») erano stati massacrati per prendere lui.

Come poteva parlare con i massacratori? Non lo capivamo. Quello non era il Moro che avevamo conosciuto: era un uomo avvilito e spezzato. Ricordo la disperazione di Zaccagnini, che gli era devoto, in un colloquio di quei giorni: Zaccagnini ex uomo della Resistenza, ferito dalle terribili accuse di Moro, ma che non poteva cedere a quegli assassini perché prima veniva lo Stato. Se Paolo VI, con tutto il bene che voleva a Moro, scongiurò «gli uomini delle Bierre» a liberarlo «senza condizioni», lo fece perché era figlio dell'onorevole Montini, popolare e antifascista, e sentiva che per salvare la democrazia non si poteva cedere.

Andreotti e Cossiga e gli altri non cedettero, non perché «non volessero affatto svellere la radice velenosa» delle Bierre, come qualcuno è arrivato a scrivere, ma perché difendevano lo Stato contro le Bierre. E anche se la morte di Moro fu una battaglia perduta, con l'inutile assassinio di Moro le Bierre subirono una sconfitta fatale da cui discese una totale disfatta. Questi furono i fatti. Tutto il resto - l'impreparazione delle forze di polizia, gli errori, i fallimenti delle indagini - sono cose che fanno ancora soffrire. Ma Moro lo uccisero le Bierre.

E la democrazia italiana la salvarono coloro che pagarono con la loro vita, o con le gambe spezzate, la resistenza ai terroristi, inclusi quei giornalisti che non ricevevano «ordini dal potere in carica», come è stato scritto un po' ignobilmente, ma che si fecero sparare per le loro idee; e gli statisti che ebbero la forza di non cedere al terrorismo, per salvare il futuro di quelli che allora erano soltanto «dei ragazzi».

WB01343_.gif (599 bytes)