Il Messaggero - 10.05.98

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Solenne ricordo dello statista alla Camera vent’anni dopo l’assassinio

di FABIO ISMAN

ROMA I dubbi del Capo dello Stato che su quell’assassinio non sia stata fatta completa chiarezza, che le ”menti” si siano sottratte alla giustizia, e una sua indicazione che forse, per salvare l’ostaggio, si poteva tentare di più; tutti gli spezzoni di quella che fu la Dc, ora contrapposti, che per una volta (tranne Cossiga) si ritrovano assieme; le due Messe distinte: una per i politici a piazza del Gesù, e un’altra, privata ma con i famigliari di Moro, al Quirinale: come Scalfaro vuole ogni anno, da quando è Presidente; i discorsi di tutti i gruppi a Montecitorio, amici e avversari d’accordo nel rivalutarne la figura, nel sottolineare i ”buchi neri” del sequestro, e nell’accusare i terroristi di un eccessivo, quasi impudico protagonismo: i 20 anni dall’omicidio di Aldo Moro si sono consumati così.

Alla Camera, nel bel mezzo d’un ricordo che alla fine lascia Giovanni ed Agnese Moro ad asciugarsi le lacrime, Scalfaro prorompe. Dice: «Ma le intelligenze criminose che scelsero, mirarono e centrarono il bersaglio, in quel momento politico essenziale, sono comprese» nei processi fin qui celebrati? «E se no, a quale giudice risponderanno?». Dunque dubita. Non solo; ma ritiene anche che, pur senza deflettere dalla fermezza («lo Stato non tratta con l’antistato»), forse per Moro si poteva fare di più: raccogliere il suo appello al dialogo. Infatti, rivela che «dopo la seconda lettera» dal carcere, «andai, di mia iniziativa, a piazza del Gesù; non avevo responsabilità», dice quasi per prendere un distacco, «e quindi ci restai poco». Ma descrive la confusione nella stanza di Zaccagnini, e soprattutto un dialogo inedito: «A Zaccagnini dissi: ”Perché tanta meraviglia alla domanda di Moro di cercare un incontro? Se fossi stato sequestrato tu, e noi fossimo qui a discutere con Moro, lui proporrebbe di non trattare?”. Come risposta, fu silenzio».

In aula, ci sono deputati, senatori, rappresentanti degli Enti locali, i parenti delle vittime. Scalfaro, una volta tanto, non parla ”a braccio”: legge degli appunti. «Era da parecchio che ci pensava», rivela Giovanni Moro; «me li ha letti ieri sera, e non mi parevano così commoventi», dice Gaetano Gifuni, il collaboratore più vicino. Il Capo dello Stato parla per mezz’ora dell’”uomo” Moro. Racconta la loro grande intimità e confidenza, pur se «non gli nascondevo il mio non raro dissenso sulla sua politica»; era l’unica «voce che poteva aver ascolto ben oltre la sua parte politica», la chiave di volta di qualsiasi riforma. «Uomo di dialogo»; con «senso del dovere e dello Stato». Evoca le terribili parole di Paolo VI «al suo Dio, perché la fede mai lo abbandonò: ”Signore, tu non hai esaudito la nostra supplica”». Di Moro, Scalfaro recupera perfino l’autenticità dei messaggi dal carcere: «La sofferenza inimmaginabile gli fece perdere il dono della riservatezza, che gli era peculiare».

Insomma, un’abbondante ”rilettura” dell’intera vicenda: lo riconoscono anche gli stessi figli di Moro. Del resto, già nei discorsi precedenti molte erano state le rivalutazioni; e per svariati gruppi, avevano parlato degli ex dc: Marini, Casini, Mastella; ma anche Pisanu (Forza Italia) e Selva (An). Violante: bisogna «restituire a Moro la sua dimensione di statista»; D’Alema: la sua fine fu una «cesura», «fermò un’evoluzione verso una più compiuta democrazia»; Salvato: «Raccogliamone l’assillo sulla centralità del Parlamento». Una generale levata di scudi contro i brigatisti: «Tutti liberi, pretendono comprensione dallo Stato, con un fragore eccessivo» (Pisanu); dicono solo «parole vuote e reticenti» (Casini); «si attengano almeno al riserbo» (Marini). E tanti dubbi: «Tutta la verità non s’è mai saputa» (ancora Marini); «si mossero forze diverse», le Br «ma anche violenze d’altro colore e le resistenze profondamente annidate negli apparati dello Stato» (D’Alema). E sguardi fugaci sulla situazione odierna: tre esigenze per Marini («la stabilità di governo, il cittadino arbitro del leader della coalizione e il ricambio fisiologico alla guida del Paese»); per D’Alema «il rischio di una democrazia fragile, se non si sviluppa un campo di regole comuni, un reciproco riconoscimento tra le forze in campo»; oggi bisogna «vincere le sfide che gli uomini della I Repubblica videro, senza poterle vincere per l’invalicabile vincolo della guerra fredda: saremo capaci? Che il ricordo di Moro ci aiuti».

In mattinata, tante corone a via Caetani (la prima, quella di Prodi); il pellegrinaggio di Mancino e Violante; la messa al Gesù con il sottosegretario Micheli per conto di Prodi, gli ex sindaci dc di Roma (Darida, Signorello, Giubilo), le varie anime in cui s’è frantumata l’ex Dc: Casini, Mastella, Marini, Buttiglione, Rosy Bindi, Bianco, Mattarella (oltre a tanti altri), e una corona per tutti: «Gli amici di Moro». Ognuno rende omaggio come può: e Craxi, da Hammamet, scrive sull’Avanti! i suoi «dieci interrogativi» sulla vicenda; riprende i molti dubbi enunciati dall’ex comunista Flamigni. Mentre in Transatlantico Nilde Iotti critica Scalfaro: «Trattare con le Br significava arrendersi», e Gerardo Bianco rivela: «Pensavamo d’avere più tempo».

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