E ANCORA NON SI SA PER CHI LAVORAVANO LE BRIGATE ROSSE
di GIOVANNI SABBATUCCI
VENTANNI sono tanti. E sembrano
ancora di più se si pensa a quante cose sono successe e a quante
ne sono cambiate dal 16 marzo 1978 a oggi. Eppure, agli occhi di
chi ha più di quarantanni, il caso Moro continua a
rappresentare una ferita aperta della nostra storia, un caso
appunto politico, giudiziario, umano prima di tutto più che un
oggetto di riflessione, o magari di controversia, storiografica.
Questo accade soprattutto perché sono in molti a pensare che la
morte dello statista rientri nella categoria, purtroppo assai
nutrita, dei misteri dItalia. E a
pensarlo sono esponenti o eredi di entrambi gli schieramenti
trasversali che si fronteggiarono durante i cinquantacinque
giorni del sequestro: il partito della
fermezza e il partito della
trattativa. Se fra i trattativisti di allora è
ancora vivo il sospetto che le autorità dello Stato abbiano
colpevolmente trascurato alcune concrete possibilità di salvare
il Moro già prigioniero, nellopposto schieramento è
tuttora diffusa la convinzione che lo stesso rapimento non si
possa spiegare senza lintervento di poteri più o meno
occulti, nazionali o stranieri, comunque interessati
alleliminazione di un uomo politico non omogeneo ai loro
disegni. Può anche accadere che i due ordini di argomentazione
si sovrappongano e si confondano, come nella lunga e durissima
intervista rilasciata a Repubblica di
sabato scorso dal figlio di Aldo Moro, Giovanni.
Ora è innegabile che la versione
ufficiale degli avvenimenti (Moro fu
rapito e ucciso dalle Br e solo da loro, lo Stato rifiutò di
trattare perché altrimenti tutto si sarebbe sfasciato) lascia
aperti problemi di non piccolo rilievo e rivela, se presa per
buona, un abisso di inefficienze difficilmente scusabile nei
vertici dello Stato. Ma è anche vero che le interpretazioni
alternative dellintero affare
appaiono a un esame spassionato assai più incredibili e
contraddittorie.
Secondo la più diffusa tra queste interpretazioni, Moro fu
rapito e ucciso in quanto artefice e perno insostituibile
delloperazione politica che aveva portato i comunisti nella
maggioranza e presumibilmente li avrebbe portati al governo:
operazione che i poteri occulti interni ed esterni allo Stato (i
servizi segreti, la P2, gli americani e quantaltro:
insomma, tutto ciò che oggi è duso riassumere
nellespressione doppio Stato)
fermamente avversavano. Le Brigate rosse sarebbero state solo lo
strumento, forse inconsapevole, di questa operazione. Se le cose
stessero così, non si capirebbe però come mai neanche uno dei
brigatisti (tutti arrestati e tutti condannati a lunghe pene
detentive) si sia risolto ad ammettere, sia pur in via ipotetica,
la possibilità di strumentalizzazioni o di infiltrazioni. Non si
capirebbe, soprattutto, perché gli agenti dei poteri occulti
presenti, secondo questa ricostruzione, nello stesso agguato di
via Fani, di cui soli avrebbero reso possibile il successo non
abbiano scelto la via più semplice e per loro più redditizia:
luccisione immediata dello statista. Se la morte di Moro
era il loro obiettivo, perché consentire ai terroristi di
costruire la macchina del sequestro, della prigionia e degli
interrogatori, di lanciare allo Stato una sfida dagli esiti
imprevedibili? Questi erano in realtà gli obiettivi dei
brigatisti: i quali, come hanno mille volte raccontato, scelsero
Moro non perché volevano bloccare loperazione solidarietà
nazionale (che andò comunque in porto proprio allindomani
del sequestro), ma perché vedevano in lui uno degli
uomini-simbolo dellesecrato regime democristiano, il
terminale di chissà quale viluppo di poteri e interessi nascosti
(alla teoria del doppio Stato, loro ci credevano davvero, anzi
furono loro a formularla per primi).
Più insidiosa, e apparentemente meglio fondata, è
largomentazione dei trattativisti. In effetti, non è
assurdo pensare che, con qualche concessione anche di semplice
facciata, la vita di Moro si potesse salvare. Ma qui interviene
un altro ordine di problemi. Fermo restando il dovere delle
autorità di adoperarsi in ogni modo per la liberazione
dellostaggio e ferma restando dunque lesigenza di
condannare chi, per incapacità o per dolo, si sia eventualmente
sottratto a questo dovere si tratta di capire se lo Stato
disponesse davvero dei margini per trattare, se la classe
dirigente potesse permettersi, al cospetto dellopinione
pubblica, di intavolare un negoziato coi terroristi per salvare
la vita a un suo esponente di altissimo livello. Personalmente,
sono sempre stato e resto convinto che questa strada non fosse
praticabile e che la via della fermezza fosse quella giusta. Da
un successo, anche solo simbolico, nella trattativa con lo Stato,
le Br sarebbero uscite trionfanti: il che avrebbe prolungato per
qualche anno la vita del terrorismo rosso, rendendolo forse un
fenomeno cronico, e avrebbe bloccato o rinviato la valanga dei
pentimenti.
Certo, non mi sentirei di escludere che nella gestione del
sequestro da parte delle autorità abbiano agito anche
motivazioni meno nobili; che, a rapimento avvenuto, e
soprattutto dopo la pubblicazione delle lettere del prigioniero
dal carcere brigatista, qualche uomo delle istituzioni non saprei
dire a quale livello abbia davvero pensato con terrore a un
ritorno di Moro sulla scena; e che questa paura si sia riflessa,
più o meno consciamente, sullefficacia delle indagini
volte a liberarlo. Attenzione, però: questa ipotesi, peraltro
tutta da provare, non è sovrapponibile alla prima (quella che
vuole lo statista vittima del suo impegno in direzione della
solidarietà nazionale). Se Moro fosse tornato vivo dalla
prigionia, assai difficili sarebbero stati i suoi rapporti con
gli uomini del fronte della fermezza (che comprendeva non solo
Andreotti e Cossiga, ma anche gli Zaccagnini, i Berlinguer, i La
Malfa). I suoi naturali interlocutori sarebbero stati piuttosto i
trattativisti, con in testa il leader del Psi Bettino Craxi. E
lesperienza della solidarietà nazionale avrebbe avuto vita
ancora più breve di quella che effettivamente ebbe.