Il Messaggero - 16.03.98

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E ANCORA NON SI SA PER CHI LAVORAVANO LE BRIGATE ROSSE

di GIOVANNI SABBATUCCI

VENT’ANNI sono tanti. E sembrano ancora di più se si pensa a quante cose sono successe e a quante ne sono cambiate dal 16 marzo 1978 a oggi. Eppure, agli occhi di chi ha più di quarant’anni, il caso Moro continua a rappresentare una ferita aperta della nostra storia, un caso appunto politico, giudiziario, umano prima di tutto più che un oggetto di riflessione, o magari di controversia, storiografica. Questo accade soprattutto perché sono in molti a pensare che la morte dello statista rientri nella categoria, purtroppo assai nutrita, dei ’’misteri d’Italia’’. E a pensarlo sono esponenti o eredi di entrambi gli schieramenti trasversali che si fronteggiarono durante i cinquantacinque giorni del sequestro: il ’’partito della fermezza’’ e il ’’partito della trattativa’’. Se fra i trattativisti di allora è ancora vivo il sospetto che le autorità dello Stato abbiano colpevolmente trascurato alcune concrete possibilità di salvare il Moro già prigioniero, nell’opposto schieramento è tuttora diffusa la convinzione che lo stesso rapimento non si possa spiegare senza l’intervento di poteri più o meno occulti, nazionali o stranieri, comunque interessati all’eliminazione di un uomo politico non omogeneo ai loro disegni. Può anche accadere che i due ordini di argomentazione si sovrappongano e si confondano, come nella lunga e durissima intervista rilasciata a ’’Repubblica’’ di sabato scorso dal figlio di Aldo Moro, Giovanni.
Ora è innegabile che la versione ’’ufficiale’’ degli avvenimenti (Moro fu rapito e ucciso dalle Br e solo da loro, lo Stato rifiutò di trattare perché altrimenti tutto si sarebbe sfasciato) lascia aperti problemi di non piccolo rilievo e rivela, se presa per buona, un abisso di inefficienze difficilmente scusabile nei vertici dello Stato. Ma è anche vero che le interpretazioni ’’alternative’’ dell’intero affare appaiono a un esame spassionato assai più incredibili e contraddittorie.
Secondo la più diffusa tra queste interpretazioni, Moro fu rapito e ucciso in quanto artefice e perno insostituibile dell’operazione politica che aveva portato i comunisti nella maggioranza e presumibilmente li avrebbe portati al governo: operazione che i poteri occulti interni ed esterni allo Stato (i servizi segreti, la P2, gli americani e quant’altro: insomma, tutto ciò che oggi è d’uso riassumere nell’espressione ’’doppio Stato’’) fermamente avversavano. Le Brigate rosse sarebbero state solo lo strumento, forse inconsapevole, di questa operazione. Se le cose stessero così, non si capirebbe però come mai neanche uno dei brigatisti (tutti arrestati e tutti condannati a lunghe pene detentive) si sia risolto ad ammettere, sia pur in via ipotetica, la possibilità di strumentalizzazioni o di infiltrazioni. Non si capirebbe, soprattutto, perché gli agenti dei poteri occulti presenti, secondo questa ricostruzione, nello stesso agguato di via Fani, di cui soli avrebbero reso possibile il successo non abbiano scelto la via più semplice e per loro più redditizia: l’uccisione immediata dello statista. Se la morte di Moro era il loro obiettivo, perché consentire ai terroristi di costruire la macchina del sequestro, della prigionia e degli interrogatori, di lanciare allo Stato una sfida dagli esiti imprevedibili? Questi erano in realtà gli obiettivi dei brigatisti: i quali, come hanno mille volte raccontato, scelsero Moro non perché volevano bloccare l’operazione solidarietà nazionale (che andò comunque in porto proprio all’indomani del sequestro), ma perché vedevano in lui uno degli uomini-simbolo dell’esecrato regime democristiano, il terminale di chissà quale viluppo di poteri e interessi nascosti (alla teoria del doppio Stato, loro ci credevano davvero, anzi furono loro a formularla per primi).
Più insidiosa, e apparentemente meglio fondata, è l’argomentazione dei trattativisti. In effetti, non è assurdo pensare che, con qualche concessione anche di semplice facciata, la vita di Moro si potesse salvare. Ma qui interviene un altro ordine di problemi. Fermo restando il dovere delle autorità di adoperarsi in ogni modo per la liberazione dell’ostaggio e ferma restando dunque l’esigenza di condannare chi, per incapacità o per dolo, si sia eventualmente sottratto a questo dovere si tratta di capire se lo Stato disponesse davvero dei margini per trattare, se la classe dirigente potesse permettersi, al cospetto dell’opinione pubblica, di intavolare un negoziato coi terroristi per salvare la vita a un suo esponente di altissimo livello. Personalmente, sono sempre stato e resto convinto che questa strada non fosse praticabile e che la via della fermezza fosse quella giusta. Da un successo, anche solo simbolico, nella trattativa con lo Stato, le Br sarebbero uscite trionfanti: il che avrebbe prolungato per qualche anno la vita del terrorismo rosso, rendendolo forse un fenomeno cronico, e avrebbe bloccato o rinviato la valanga dei pentimenti.
Certo, non mi sentirei di escludere che nella gestione del sequestro da parte delle autorità abbiano agito anche motivazioni meno nobili; che, a rapimento avvenuto, e soprattutto dopo la pubblicazione delle lettere del prigioniero dal carcere brigatista, qualche uomo delle istituzioni non saprei dire a quale livello abbia davvero pensato con terrore a un ritorno di Moro sulla scena; e che questa paura si sia riflessa, più o meno consciamente, sull’efficacia delle indagini volte a liberarlo. Attenzione, però: questa ipotesi, peraltro tutta da provare, non è sovrapponibile alla prima (quella che vuole lo statista vittima del suo impegno in direzione della solidarietà nazionale). Se Moro fosse tornato vivo dalla prigionia, assai difficili sarebbero stati i suoi rapporti con gli uomini del fronte della fermezza (che comprendeva non solo Andreotti e Cossiga, ma anche gli Zaccagnini, i Berlinguer, i La Malfa). I suoi naturali interlocutori sarebbero stati piuttosto i trattativisti, con in testa il leader del Psi Bettino Craxi. E l’esperienza della solidarietà nazionale avrebbe avuto vita ancora più breve di quella che effettivamente ebbe.

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