Il Messaggero - 16.03.98

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MA E’ OGGI CHE TRIONFA IN ITALIA LA FORMULA CHIAMATA MOROTEISMO

di MARCELLO VENEZIANI

SE VOGLIAMO capire l’Italia di oggi dobbiamo recuperare la scatola nera di vent’anni fa, il 16 marzo 1978. In quel giorno non fu solo rapito Aldo Moro ma fu colpita al cuore la filosofia politica del nostro Paese, il consociativismo, il suo totem, la corruzione, e il suo tabù, il terrorismo. E’ quello il triangolo della nostra memoria che cerchiamo faticosamente di rimuovere e che poi torna a galla.

Cerchiamo di spiegare. Cosa rappresentava Moro agli occhi di coloro che lo eliminarono? Rappresentava il Grande Corruttore in due sensi. Il primo, più evidente, era di tipo politico: Moro era visto dalle Brigate rosse, e non solo da quelle, come il corruttore della rivoluzione, della sinistra antiborghese e antimoderata, come colui che stava spingendo il Pci al tradimento della classe operaia e degli ideali del socialismo e al compromesso col nemico di classe e con gli amici degli americani. Ma Moro era considerato il Grande Corruttore anche in un altro senso morale: era stato lui, nel ’76 con l’affare Lockheed, a teorizzare il costo della politica e a respingere l’idea di ”processare” il partito della corruzione, che allora veniva identificato principalmente nella Dc. Se vogliamo, il processo a Moro, idealmente istituito da Pasolini alcuni anni prima, è stato il primo processo rivoluzionario che ha aperto Tangentopoli, il primo caso di Mani pulite. Non suoni offesa l’accostamento tra il pool di Milano e le Brigate rosse che non riguarda sicuramente né gli uomini né i metodi o le finalità; ma riguarda lo spirito giacobino che sorge sempre per spontanea controindicazione davanti allo spirito del compromesso. E l’Italia non riesce ancora a liberarsi da entrambi, oscillando paurosamente tra giacobinismo e compromessi, tra la caccia al nemico e la sua consociazione in affari. Demonizzazione o Inciucio.

L’affare Moro dimostrò il nesso che c’era alle origini tra corruzione e violenza. L’una diventava giustificazione dell’altra, e viceversa. Meglio i ladri che gli assassini, fu l’alibi del sistema consociativo e corrotto, per tanti anni. Meglio pagare le tangenti che correre avventure totalitarie, meglio il centrismo eterno della democrazia bloccata che gli opposti estremismi. Era questa la legittimazione di fondo del vecchio centro-sinistra. Rispetto a cui lo stesso terrorismo diventava un utile alibi: infatti, il terrorismo in Italia è servito più a stabilizzare che a destabilizzare il potere.

Dall’altra parte, qual era l’alibi ideologico della violenza? Era l’inamovibilità degli assetti politici, la democrazia bloccata, le opposizioni delegittimate a governare, l’impossibilità di alternanza, il dilagare della corruzione. L’unico rimedio sembrava quello di uscire dalla mediazione parlamentare, uscire dalla democrazia, colpire con l’azione diretta, spezzare la ragnatela.

Come la Tangente diventava per i partitocrati il costo inevitabile per mantenere la politica, così la Violenza diventava per il partito armato il costo inevitabile per cambiare la politica. Perciò l’affare Moro fu il crocevia di queste due opposte e complementari ragioni, fu il momento in cui avvenne lo scontro decisivo tra le due Italie. Chi vinse? Non vinse l’Italia della legalità ma almeno vinse l’Italia della democrazia (in semilibertà). E vinse l’Italia dei compromessi sacrificando il suo principale teorico alla linea della fermezza. Fu quello il paradosso di Moro: a difendere la sua vita chiedendo di trattare con le Br, furono coloro che sarebbero stati schiacciati dal compromesso tra Dc e Pci, a cominciare da Craxi. A difendere la linea della fermezza furono invece coloro che stavano dando vita al compromesso da lui rappresentato. Le sue vittime cercarono di salvarlo, i suoi affini no.

Il suo assassinio parve la vittoria del terrorismo e la sconfitta del compromesso; invece alla lunga fu il contrario. Il compromesso non fu mai portato alle estreme conseguenze, ma continuò sotto traccia e a fianco dei governi, restò la filosofia politica del paese, insieme con la corruzione. E il terrorismo cominciò il suo declino. Proprio l’anno dell’assassinio Moro passò agli annali come l’anno del riflusso, in cui le grandi passioni collettive cedevano il passo al grande disincanto e al ritorno del privato. Il ’78 segnò l’apice del terrorismo; gli anni seguenti furono il declino.

Sul piano internazionale, probabilmente, il delitto Moro fu visto come un evento provvidenziale perché rimetteva a posto gli equilibri; furono rassicurati gli americani che i comunisti non sarebbero entrati nel governo ma solo nelle periferie del potere e che un poco affidabile leader, per giunta un po’ filoarabo, era stato tolto di mezzo. Ma veniva rassicurato anche l’establishment sovietico, perché il Pci non compiva il passo fatidico verso l’Occidente. In sostanza la morte di Moro ripristinava gli accordi di Yalta sul nostro paese, seppure accettando lo statuto di paese di confine, dove sono possibili alcuni incroci.

Tre Italie sono finite nel nostro secolo con tre parricidi. La prima fu l’Italia umbertina che si concluse con il regicidio di Umberto I agli albori del nostro Novecento. La seconda fu l’Italia fascista che finì con l’assassinio di Mussolini il 28 aprile del ’45. La terza fu l’Italia del compromesso storico che celebrò il suo rito di sangue il 9 maggio del ’78 con l’assassinio di Aldo Moro. Altri parricidi figurati hanno poi accompagnato Tangentopoli con la fuga e l’esilio di Craxi o il processo ad Andreotti, interminabile, obliquo e contorto, come l’andreottismo medesimo. Ma con quei parricidi non abbiamo mai fatto veramente i conti: li abbiamo vissuti come incubi o abbiamo preferito la rimozione e l’amnesia. Viviamo un presente astorico, ma popolato di fantasmi. E il fantasma di Moro, in fondo, aleggia anche sull’Ulivo, che sembra essere l’applicazione del moroteismo a babbo morto; non solo perché postuma a Moro medesimo e al bipolarismo mondiale, ma anche ai due grandi attori, la Dc e il Pci, e alla loro cerniera laica, ieri rappresentata dal Pri e oggi da Ciampi, Maccanico e Dini. Un compromesso non più storico per un moroteismo senza Moro.

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