Il Messaggero - 17.03.98

WB01343_.gif (599 bytes)


Moro divide ancora il Centro

di PAOLO GAMBESCIA

ALDO MORO e la sua tragica fine continuano a dividere. A distanza di vent’anni si torna a discutere sulla linea della fermezza, sulle Brigate rosse, sul loro ricatto, sul significato politico di quella morte. Il Paese, è evidente, non si è liberato di quel macigno. Non se n’è liberato perché la verità non è completa, perché restano punti oscuri, perché, soprattutto, è forte il condizionamento politico. Sono troppi i protagonisti di quei cinquantacinque giorni angosciosi, che calcano ancora le scene della vita pubblica italiana e quindi fatalmente la difesa che ognuno fa delle posizioni che assunse all’epoca finisce per inquinare l’analisi.

Non solo: al di là delle dichiarazioni ufficiali e spesso di maniera, si leggono negli interventi di questi giorni avvertimenti e richiami. Le discettazioni sulla trattativa, sullo Stato forte, sul ruolo dei dirigenti democristiani, sull’opera del governo, sui misteri irrisolti e soprattutto sul disegno che stava dietro l’assassinio dello statista, hanno ben poco dello spessore storiografico.

Apparentemente si confrontano due tesi di fondo: da una parte coloro i quali sostengono che ormai è tutto chiarito, nel senso che non bisogna ricercare mandanti per quel delitto che fu e rimane opera di un gruppo autonomo terroristico; dall’altra coloro i quali credono che le Brigate rosse fossero eterodirette, gestite, forse anche senza che lo sospettassero, da strateghi raffinati, in Italia o oltre confine, impegnati a far fallire il disegno di Aldo Moro,

Apparentemente questa è la divisione. Contribuiscono ad alimentarla i silenzi dei brigatisti, gli interrogativi non sciolti e sui quali indagano ancora la magistratura e la commissione parlamentare, la risonanza che i mass media danno alle dichiarazioni dei brigatisti i quali sembrano essere diventati dei commentatori politici ai quali affidare la ricostruzione degli anni di piombo. Così ci tocca vedere in Tv Mario Moretti che discetta sullo stato imperialista delle multinazionali e addirittura rivendica la bontà delle deliranti analisi che erano contenute nei proclami delle Brigate rosse. E poi una caterva di interviste, ricostruzioni, interpretazioni. Tutte legittime se non fosse per il fatto che a parlare sono spesso uomini e donne che hanno ucciso scientificamente e tengono per sé segreti non secondari. Quei segreti, appunto, che vengono fatti pesare nel dibattito politico di questi giorni. Non è un caso che i discorsi sul terrorismo, sul progetto politico di Aldo Moro intersechino in continuazione il confronto sulle grandi manovre in corso, i tentativi di ricostruire un grande centro, la prospettiva del bipolarismo. Fino a mettere in discussione la legittimità che alcuni antichi colleghi di partito di Aldo Moro, protagonisti di quelle tragiche giornate di vent’anni fa, costretti a volte a difendersi da sospetti, ritornino sulla scena. Ma soprattutto che ritorni il passato, quel passato che proprio Moro aveva cominciato a sgretolare ponendo il problema dell’alternanza. Per chi avesse dubbi sul valore politico, sul tema reale e attuale di questa celebrazione del ventennale dell’uccisione del leader democristiano, basta che legga che cosa ha dichiarato ieri D’Alema: «Moro fu moderno nell’intravvedere la necessità dell’alternanza e quelli che oggi vogliono ricostruire il centro alla vecchia maniera non c’entrano nulla con lui».

Non è solo la sinistra a porre nel nome di Moro la questione del governo e delle alleanze che lo sostengono. Romano Prodi concorda che «Moro fu colui che più di tutti comprese che il futuro non poteva essere nelle mani di una parte sola».

Si capisce allora il vero significato della discussione a proposito dei buchi neri del sequestro, della incapacità dello Stato ad affrontare la sfida, dei dubbi sul comportamento di chi avversava l’idea politica di Moro. Ha detto ieri il presidente della Camera Luciano Violante durante un incontro con un gruppo di ragazzi: «L’incapacità dello Stato di fronte a quell’evento fu così evidente che sorprendeva. Dopo il 1974, i servizi di sicurezza, che fino ad allora sull’eversione di destra erano stati efficientissimi, sul terrorismo di sinistra ci inviavano soltanto rassegne stampa. Vuol dire che probabilmente c’era l’idea di farli crescere. Quando ero responsabile dell’ufficio legislativo del ministero di Grazia e giustizia che si occupava di coordinare l’azione di contrasto al terrorismo, un superiore mi disse:” Perché vi accanite così contro le Brigate rosse, e se poi vincono?”»

Violante va oltre il dibattito sulla trattativa, sostiene che non è questo il punto, che la vita di Moro poteva essere salvata senza cedere al ricatto dei brigatisti. Dice dei tanti misteri, delle illogicità delle indagini e poi aggiunge a proposito del comitato di crisi costituito presso il Viminale all’epoca del sequestro: «Quasi tutti i componenti erano iscritti alla P2 e i suoi vertici non volevano che Moro fosse trovato. I verbali di quel comitato facevano ridere, o piangere. Non mi sento comunque di affermare che ci fu una diretta responsabilità della Dc nella morte di Moro se non nel senso di non aver attrezzato adeguatamente le forze di polizia e di aver messo ai vertici degli apparati dello Stato uomini corrotti e infedeli».

Violante dà un giudizio durissimo della classe di governo dell’epoca, anche se riconosce a Cossiga di essersi dimesso dopo la morte di Moro. Però aggiunge: «Una cosa che pochi avrebbero fatto al suo posto. In ogni caso pagò di persona. Ma poi la politica gli affidò altri incarichi».

Dunque è questo il punto, non se le Brigate rosse fossero sole o eterodirette, non se bisognava trattare o meno. Perché si può anche giungere alla conclusione che dietro i terroristi non c’era nessuno, ma bisogna capire se qualcuno si inserì a posteriori nella gestione della vicenda e se lo Stato fece tutto quello che doveva. Bisogna capire se qualcuno ancora oggi pensa di poter tornare indietro, di bloccare il processo che anche la morte di Moro ha contribuito ad avviare. Insomma la domanda fondamentale, perché dalle risposte discendono molte considerazioni sull’attuale stagione politica, che viene riproposta è: la storia poteva essere cambiata? Il presidente del Senato Nicola Mancino risponde così: «Moro caratterizzava un periodo: da vivo avrebbe potuto contribuire a sbloccare il sistema». Questo non avvenne. Perché? Mancino sostiene che resta da approfondire l’impotenza complessiva degli apparati.

Resta cioè da approfondire se si trattò, quantomeno, di inefficienza, se qualcuno quell’inefficienza la volle, se qualcuno di quell’inefficienza si servì, non per eliminare un uomo, uno statista, ma per bloccare un processo che la storia si sarebbe poi incaricata di dimostrare che era, magari sotto mutate forme, ineludibile.

WB01343_.gif (599 bytes)