L'OSSERVATORE ROMANO DELLA DOMENICA - 15.03.98

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16 MARZO 1978:  LA STRAGE DI VIA FANI E IL RAPIMENTO DI ALDO MORO

GLI ANNI DEL TERRORE

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Vent'anni dopo:  la memoria viva di un testimone

Rivelazioni o presunte rivelazioni, fantasmi di possibili mandanti, dietrologie, polemiche cui il tempo sembra aggiungere veleno:  non sarebbe questo, mi pare, un percorso fecondo per riandare alla vicenda Moro, a distanza di vent'anni. Forse l'avvenire farà più luce su recessi nascosti, sconvolgenti o banali, posto che ce ne siano da scoprire. Per quanto sta in noi, fatti salvi i diritti della verità, lasciamo alla storia l'eredità di un'istruttoria non sappiamo se aperta ancora.

Potrà sembrare paradossale. Ma quanti (è il caso di chi scrive) hanno vissuto quei giorni con intensità tutta particolare e per professionale dovere di cronista e per qualche personale coinvolgimento negli anni di piombo non rifuggono semmai dall'immergersi di nuovo in quella esperienza esistenziale, per riviverne, insieme cercando di distaccarsene, la memoria dolorosa e raccordarla al prima e al poi:  per qualche ricerca di monito e di senso, oltre che per esercizio di cristiana pietà.

Dai giacimenti di ricordi affiorano spezzoni di immagini e di colonne sonore. Come fosse ieri:  l'urlo caotico e impotente delle sirene della polizia; il primo racconto televisivo del collega Paolo Fraiese, ansimante di urgenza e d'emozione tra i poveri morti di via Fani; il malore del sopravvenuto poliziotto in borghese (aveva aspetto di ragazzino) che fino a quel giorno aveva sognato un avvenire da 007; il Parlamento riunito; lo strazio delle famiglie; i vani blocchi di controllo; i soldati nelle strade; i messaggi sconvolgenti del rapito; poi una Pasqua plumbea, un 25 aprile di gelo; un affollarsi di consulti, appelli, barlumi, lacerazioni, diversivi; infine, a schianto, l'epilogo temuto:  è lui, lo hanno assassinato!

E, attorno, come la cappa di uno sbigottimento indecifrabile, che a ripensarci ebbe in qualche modo il primo sblocco liberatorio nel funerale in San Giovanni, quando, davanti a tutta una classe politica smarrita, il Vescovo di Roma Papa Paolo VI, gravato dal peso degli anni, dell'infermità, del dolore per l'amico perduto (nel tentativo di salvarlo aveva scritto direttamente agli "uomini delle Brigate Rosse"), seppe dire parole alte, percorse da un brivido biblico. Ricordate? Il richiamo alla preghiera non esaudita e insieme la invincibile fiducia in un rivedersi nella luce della Risurrezione:  e fu per il paese e per le sue istituzioni anche invito a ritrovare speranza, quanto meno dignità.

Certo la vicenda Moro è stata lo stenogramma rivelatore più drammatico della crisi che andava montando nel paese:  crisi psicologica, morale, socio-politica, istituzionale. C'è chi ritiene che la Prima Repubblica sia morta allora. Se è così, la sequenza del Laterano illumina per un istante la faccia generalmente non in luce del rapporto tra l'uomo e politica. Di là dal piano della temporalità quotidiana, precaria, a momenti immeschinita dalla fragilità umana o degradata per carenze d'ordine etico o impazzita delittuosamente per ubriacature ideologiche, è sempre possibile intravedere, distinto ma non scisso, il piano delle cose che contano, la realtà essenziale dell'uomo, gli orizzonti ultimi. Che poi riportano, di ritorno, anche ai valori fondanti della civile convivenza.

E possiamo ben ricordare che in quelle giornate terribili ci fu pure nella grande maggioranza degli italiani un soprassalto aggregante, il senso che fossero in pericolo capisaldi senza i quali non si può stare insieme da uomini e si sfascia il bene comune più elementare. A me pare di averne avuta allora la sensazione genuina e in qualche momento persino consolante, quali che possano essere state le diserzioni o le connivenze più o meno consapevoli, le strumentalizzazioni di parte o i conformismi di facciata.

Tante vicende e mutazioni si sono accavallate in vent'anni. Imperi sono collassati, castelli ideologici sono crollati in rovina. È in voga ora un nuovo dizionario internazionale:  pulizia etnica, deideologizzazione, secessione, globalizzazione del mercato e della comunicazione, persino fine del lavoro se non della storia e perfino della realtà (non virtuale). Come italiani abbiamo vissuto e nell'insieme superato prove drammatiche, abbiamo raggiunto traguardi nuovi di sviluppo, sperimentato amari esami di coscienza. Le debolezze che cronicamente affliggono la nostra compagine nazionale hanno preso forme in parte diverse; in giro ci sono altri cattivi maestri, altre spinte disgreganti, pulsioni di illegalità e violenza, deficit di rispetto per l'altro, accanto fortunatamente a robusti potenziali positivi.

Vincere demagogia e schematismo è un insegnamento che fu tipico di Moro, insieme all'attenzione per il nuovo che germina non sempre in vista, per le generazioni che verranno, per le responsabilità che abbiamo nei loro confronti. Di Moro è ancora il richiamo a un "nuovo senso del dovere":  presupposto per un'Italia seria, di cui gli italiani per primi si possano fidare. E sono lasciti su cui riflettere.

(Emilio Rossi)


Dall'utopia alle armi:  la scuola dei cattivi maestri

I giovani chiedono maestri anche quando sembrano rifiutare ogni guida, li cercano perché hanno un acuto bisogno di punti di riferimento, di valori che si realizzino nel maestro come esperienza vissuta, valori che parlino con il volto della persona e, attraverso quel volto, divengano azione di testimonianza. La stessa esigenza spinge i giovani al rifiuto dei maestri la cui vita non appaia come una vita di testimonianza. Ma il maestro, anche il maestro che sembri incarnare gli ideali che intende trasmettere, può essere un cattivo maestro. La critica radicale, l'atteggiamento di costante denuncia hanno un potere di suggestione, specie tra i giovani, e quindi generano consenso, spingono all'azione. Vi sono tuttavia anche false testimonianze o comunque testimonianze sbagliate. L'irrazionale può entrare in corto circuito con la quotidianità e produrre dissenso, protesta, eversione. Tutti questi elementi delineano l'atteggiamento interiore e le segrete aspirazioni di generazioni frustrate, di giovani delusi, spesso traditi.

Il cattivo maestro tuttavia non è un adolescente o un giovane inesperto, egli conosce le resistenze dell'esperienza e la complessità della storia, ma non ne tiene conto. Sa bene che i giovani le ignorano o ne hanno una conoscenza astratta e che le considerano inganni ideologici. Un'intera generazione nel '68 si è perduta nell'utopia. Dieci anni più tardi l'utopia è divenuta terrorismo e i cattivi maestri del '68 non sempre si sono esposti ed hanno assunto le loro responsabilità, i più hanno lasciato che i giovani si consumassero nella rivolta mentre loro se ne stavano a discutere tranquilli sulla natura del partito e sul significato della sinistra, su che cosa sia la politica e come si debba intendere la storia. Ed ora, a vent'anni dalla tragedia di Aldo Moro, tragedia personale, famigliare, ma pure tragedia pubblica, nazionale e persino ecclesiale (si pensi all'appello di un Papa, Paolo VI, alle brigate rosse), si impone una riflessione anche di fronte alle frequenti, attuali esplosioni di violenza giovanile. Sebbene esse in genere non siano direttamente politiche, lo smarrimento e il disagio sociale e politico sono certamente sottesi all'irrazionalità che esplode negli stadi, nella convulsione dei concerti, nel vandalismo e nella evasione nella droga e nel pansessualismo. Occorre quindi considerare il fenomeno con rigore e ludico giudizio.

Vi può essere alla radice dell'eversione qualcosa che, sia pur travisato, si presenti come un valore:  una nostalgia dell'origine, anzi dell'originario, una tensione ideale verso ciò che fonda immediatamente il senso del vivere. Ma in tutto ciò vi è una profonda ambiguità che deriva proprio dal rifiuto della mediazione, dall'immergersi nel mondo della vita con una violenta esigenza di autenticità e una assenza di riferimenti; una tensione ideale da cui tutto può scaturire:  l'estasi del mistico come la bomba ad orologeria in un treno in corsa. L'estasi mistica rinvia ad un mondo diverso da quello in cui viviamo, ad un orizzonte di senso che ci trascende. Se questo mondo diverso viene negato o relegato in una privata in inquietudine, se l'orizzonte ulteriore viene meno, la forza prorompente che discende immediata dall'esperienza di una assolutezza originaria entra a contatto non mediato con la convivenza organizzata e con la storia che ci ha preceduti come pure con i progetti per il suo sviluppo. Nel corto circuito che si produce in questo immediato contatto esplode l'azione rivoluzionaria e ancor più coerentemente la radicalità terroristica. Più radicale e coerente, poiché la rivoluzione ha un progetto storico da proporre dopo la sua vittoria eventuale, l'atto terroristico invece presuppone la più completa sfiducia nella storia. Talvolta si tratta di un movimento di idee e di urgenze pratiche che spingono a travolgere contesti sociali, economici, politici fino alle estreme conseguenze. Il terrorismo è una forma estrema del movimentismo ed insieme è la forma più rigorosa di quel fondamentalismo che del terrorismo è una costante, segreta tentazione.

Contestazione, terrorismo, vandalismo teppistico, esplosione dell'irrazionale, gioventù che si ribella con il gesto distruttivo e non entra in dialogo, gioventù che, respinta dal benessere consolidato e tradita dalle ideologie, si affloscia su se stessa. Ecco un inventario di azioni e passioni che richiede una nuova presenza di maestri, un'ardua presenza. Il buon maestro, infatti, non è un reazionario custode di atteggiamenti sorpassati, ma un testimone di valori perenni che appunto perché tali possono prescindere da forme esteriori cristallizzate e ad assumerne di nuove. Occorre camminare "nella novità della vita". Ma perché ciò che è nel tempo si rinnovi non è sufficiente la volontà di cambiare, occorre una analisi rigorosa della situazione e indicazioni meditate per superarla, occorre un orizzonte più ampio in cui collocare le nostre speranze a cominciare da quelle terrene che acquistano tuttavia concretezza di feconda realizzazione se rapportate ad una verità che ci precede e ci fonda. I nuovi maestri dovrebbero avere quella che Gabriel Marcel ha indicato con una efficace e, a prima vista, sconcertante espressione:  la "memoria del futuro".

(Armando Rigobello)


Il complesso rapporto "media"-terrorismo

Chi ha vissuto da spettatore partecipe i 55 giorni della tragedia di Aldo Moro non può non pensare alla concitata, confusa ed in qualche caso anche tendenziosa informazione fornita sul fatto dalla stampa e dai media in genere. Così come non possono essere dimenticate le foto di quell'avvenimento:  dalle mura cittadine tappezzate da una colluvie senza fine di manifesti fino a quella immagine che mostra lo Statista ucciso, inerme dentro il cofano di una vecchia Renault richiamo fotografico di tant'altri tragici fotoreportage come la foto del miliziano che cade di Robert Capa.

Il giudizio su quel modo di fare informazione è stato ed è globalmente negativo. Tra studiosi e commentatori di media quella informazione è diventata esemplare su come non debba essere un rapporto tra media e terrorismo.

Non mancarono ovviamente i pentiti dell'informazione (ahimè sempre troppo tardi!) come quel giornalista dell'Europeo che, un anno dopo aver pubblicato le foto dell'omicidio, peraltro senza utilità alcuna, dichiarò che non l'avrebbe fatto ancora.

Lo storico George Mosse giustificò i giornalisti dichiarando che l'uso strumentale del dramma è stato anche un modo di superare la crisi, di radicare ancora più fermamente la democrazia parlamentare nel cuore delle masse. Lo stesso McLuhan poi, intervistato sul rapporto media-terrorismo aveva risposto senza esitazione che bisognava staccare la spina.

"Senza comunicazione dichiarò non vi sarebbe terrorismo. Potrebbero esservi le bombe, potrebbe esserci l'hardware, ma il nuovo terrorismo è software, è elettronica. Perciò senza elettronica niente terrorismo. In altre parole, i terroristi adoperano questa gigantesca arma che è l'elettronica, la quale è poi un'arma pubblica del software. È l'estensione dell'uomo; i terroristi si impadroniscono di questa immensa estensione dell'uomo".

Dal punto di vista della comunicazione e delle teorie che la sostengono, il fatto Moro è un caso studiato a livello internazionale così come vengono studiati i fatti terroristici dell'Ira tra Irlanda e Inghilterra o del terrorismo islamico tra Iran e Stati Uniti. Numerosi studi sull'intero coverage confermano che tutta la vicenda Moro è diventata un vero e proprio study case analizzato di volta in volta o nel rapporto media-terrorismo o nel rapporto media-stato-terrorismo. In Inghilterra la Thatcher considera l'informazione ossigeno per il terrorismo e non esita a togliere alcune libertà come se il paese fosse in guerra. Già nello stesso 1978, Lord Harris, ministro degli Interni britannico, alla conferenza su "Il terrorismo e i media" tenuta dall'International Press Institute dichiarò: 

"I media italiani si sono lasciati intrappolare nel linguaggio delle Brigate Rosse che avevano rapito e assassinato Aldo Moro. I cosiddetti comunicati delle Brigate Rosse erano solo un esempio di finzione messa in scena a beneficio dei media che li accettavano con poca cautela. I terroristi infatti concluse Harris sono criminali comuni:  essi non hanno tribunali, non emettono comunicati e non hanno lo status di servitori della gente". Del resto anche uno studio di 10 anni dopo realizzato da Robin Wagner-Pacifici, dopo aver analizzato le strategie impiegate dalle forze politiche e dai media durante il sequestro di Aldo Moro ha evidenziato il dissenso fra forze politiche e media che pure avrebbe dovuto essere accantonato di fronte all'urgenza di salvare una vita umana e alla ricerca della verità. Ma forse non avrebbe potuto essere diversamente dal momento che il virus sessantottino della politique d'abord dilagava a tal punto che proprio un anno prima nel 1977 fra l'altro è del 14 maggio di quell'anno una celebre foto dove un gruppo di autonomi a viso coperto apre il fuoco contro un reparto di carabinieri, uccidendo il vicebrigadiere Antonino Custrà in una escalation senza fine che vede nel mirino dei giornalisti scomodi come Rino Ferrero, Indro Montanelli, Carlo Casalegno ed Emilio Rossi.

Gli Anni Settanta per i media, come per il terrorismo, sono anni cruciali che segnano per quest'ultimo un cambiamento complessivo e progressivo sullo sfondo della caduta delle ideologie e, per i media in particolare, la crescita di quella informazione spettacolarizzata che porta alla caccia dell'ultima foto o dell'ultima voce senza verifiche, alla ricerca di scoop per la prima diretta.

Tale tendenza accompagnata da una globalizzazione che mette in concorrenza più agenzie e testate ha finito con il far sorgere una sorta di ideologia invisibile, quella dei media, e avviato il giornalismo verso una crisi qualitativa ancora in corso.
Dove la soluzione? Non certamente nel suggerimento che per parte degli stati nel 1975 dava il generale britannico Richard Clutterbuck. "La telecamera della televisione egli diceva è come un'arma che si trova per strada. Entrambe le parti possono prenderla ed usarla. Se i governi la usano in questo modo incoraggiando i loro ufficiali, i poliziotti ed i soldati ad aiutare gli uomini dei media, e a rispondere alle loro domande è molto più efficace di ogni tipo di censura o di controllo governativo". Il rapporto media-terrorismo è complesso e se una analisi quantitativa degli atti terroristici dimostra che il successo dei primi è accompagnato o preceduto quasi sempre da una informazione almeno benevola; dall'altro lato poi i media hanno dinamismi decisionali e di controllo che spesso sfuggono all'ultimo redattore.

In altri termini il terrorismo almeno quello politico cerca i media perché ha bisogno di creare consensi ed è per questo che le sue radici vanno cercate anche all'interno delle strategie da esso usate. Dalla parte del media poi c'è la grave responsabilità storica d'aver rinunziato a quel giornalismo "cane da guardia" per il bene comune che fa di esso un bene sociale. Fino a che punto i media italiani sul caso Moro hanno inseguito l'imparzialità della notizia? Quali gli influssi di maestri dichiarati o di gruppi fiancheggiatori? In attesa che gli stessi organi di informazione facciano una revisione, la scienza della comunicazione con le sue misurazioni quantitative e qualitative potrebbe dare qualche risposta. Ne varrebbero la fatica e il prezzo.

(Giuseppe Costa)

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