La Repubblica - 13.05.98
CASO MORO - LA VERITA' E I FANTASMI
di GIOVANNI MORO
CARO direttore, approfitto ancora una volta della sua ospitalità per tornare sulla vicenda di Aldo Moro, anche se - come lei sa - avrei preferito evitarlo. Tuttavia, la lettera del senatore Cossiga pubblicata ieri su questo giornale mi obbliga a prendere di nuovo la parola per invitare a riportare la discussione sulla vicenda nei confini e sui temi che, dopo vent'anni, le sono propri.
Penso che la prima cosa da fare sia quella di mettere da parte le questioni personali che, seppure esistono e non sono cancellabili, non hanno e non devono avere oggi alcuna importanza. Ho letto ciò che il senatore Cossiga ha scritto ieri su questo tipo di questioni e non posso, naturalmente, che rispettare il travaglio che egli esprime, così come ho sempre rispettato - malgrado i momenti di polemica - la sua figura nei diversi ruoli che in questo ventennio egli ha rivestito: capo del governo, presidente del Senato, presidente della Repubblica, senatore a vita. Non intendo, però, seguirlo sulla strada dei sentimenti. Sia perché trovo ripugnante quella che potrebbe diventare una specie di gara a chi ha sofferto di più.
E SIA perché di fronte ai morti di via Fani e al lungo calvario (questa è l'unica parola che a ciò si addice) di Aldo Moro, qualunque altra condizione personale non può che diventare irrilevante.
Penso che dobbiamo essere tutti in grado, dopo vent'anni, di discutere su quei fatti guardando ai loro aspetti oggettivi più che a quelli soggettivi ed emotivi.
Da questo punto di vista, prendo atto della assunzione di responsabilità "fattuale" (diversa, cioè, da "politica" e da "morale") che il senatore Cossiga fa nella sua lettera con riguardo a se stesso e agli altri responsabili di governo dell'epoca per aver concorso - con la scelta del rifiuto di ogni trattativa con i terroristi - alla morte di Aldo Moro. Tale responsabilità, del resto, proprio perché "fattuale" e chiara a chiunque, non aveva bisogno di essere dichiarata; così come era ovvio che, di fronte a essa, ci dovesse essere l'atto di dimissioni che Cossiga conseguentemente fece.
Ancora una volta, non credo che sia questo il problema. Il nodo che ancora aspetta di essere sciolto è, invece, quello della verità. O meglio, del conseguimento di una verità convincente e conclusiva su una vicenda che ha cambiato la storia d'Italia e che, in questo ventennio, si è cercato per lo più di rimuovere o di dichiarare frettolosamente chiusa, con il risultato di vedere continuamente ricomparire, come mi è capitato di dire, il fantasma di Aldo Moro di cui si pensava di essersi liberati.
È questo, del resto, il senso della lettera che io e altri abbiamo rivolto al capo dello Stato dalle pagine di Liberal: prendere una iniziativa per superare la vergogna di un paese che non riesce a chiudere onorevolmente (senza dimenticare e senza subire) i conti con il proprio passato, di fronte a quello che non è stato certo un delitto qualunque, né frutto di logiche simboliche.
Chiedere che venga fatta verità non significa negare l'esistenza delle Brigate rosse come prodotto della storia della sinistra in Italia o postulare l'esistenza di una qualche entità onnipotente che abbia fatto e disfatto a piacimento l'Italia mentre noi, poveri italiani, discutevamo, partecipavamo alla vita pubblica e votavamo illudendoci di esserne i sovrani.
Chiedere che venga fatta verità significa, al contrario, un insieme di cose semplici e, se vogliamo, banali. Esse riguardano la scelta dell'obiettivo e la preparazione dell'azione, l'agguato di via Fani, la prigione, la gestione logistica e politica del sequestro da parte dei terroristi, la decisione di uccidere l'ostaggio. E ancora, le attività di intelligence e di prevenzione, le attività investigative (di cui curiosamente il senatore Cossiga non fa menzione nella sua assunzione di responsabilità "fattuale"), l'azione dei servizi di sicurezza durante e dopo il sequestro, l'operato della magistratura. E infine, i comportamenti delle forze politiche durante e dopo il sequestro, anche in situazioni di principio e di fatto del tutto analoghe a questa, ma di fronte alle quali (penso al caso dell'assessore Cirillo) il conflitto tra il bene dello Stato e la vita di una persona non fu poi così lacerante e fu, mi pare, risolto diversamente.
È falso dire che su tutto ciò si sia arrivati a punti fermi. Anzi, commissioni parlamentari, processi e ricostruzioni di vario genere hanno fatto via via emergere zone d'ombra, anomalie e contraddizioni talmente ampie da giustificare qualunque sospetto, anche il più sconclusionato.
È perfettamente inutile, in questa situazione, lanciare accuse di dietrologia. L'unico modo di evitare la dietrologia è arrivare alla verità.
Perché tutto ciò si realizzi, occorre che si attivino sul serio le volontà e le energie di chi queste cose può e deve farle: la magistratura, da cui ci si aspettano inchieste serie e un diver so trattamento di terroristi chiaramente bugiardi e reticenti e non le contorsioni dialettiche di questi giorni per difendersi dalla presa d'atto di seria insufficienza; il Parlamento, le cui commissioni di inchiesta, come gli esami di De Filippo, sembrano non finire mai e che vive nella perenne tentazione di atti di clemenza senza contropartita; il governo, che forse ha inserito anche la vicenda Moro nella sua mitica "fase due" e perciò se ne disinteressa (salve le isolate dichiarazioni di Veltroni).
Partecipando alle giornate indette dal Parlamento per ricordare Aldo Moro ho avuto l'impressione che il senso di questa urgenza cominci a farsi strada. Il discorso del presidente Scalfaro, che voglio qui ringraziare per avere definitivamente restituito - assieme a Violante e Mancino - l'onore e la dignità ad Aldo Moro e il posto che gli spetta nella storia della democrazia, ha certamente posto questo come problema cruciale.
Ma occorre che alle parole seguano fatti. Altrimenti, non dovremo lamentarci di essere avvelenati dalle dietrologie e inseguiti dai fantasmi.