Intervista al figlio dello statista, Giovanni Moro. Che accusa il "partito della fermezza" di aver ucciso suo padre
"Ma la verità vera ancora non c'è"
di SILVANA MAZZOCCHI
ROMA - "Da allora, ci ho pensato tante volte, e con rammarico: Quel mattino avrei potuto salutarlo meglio, parlare un po' con lui... invece - saranno state le otto, le otto meno un quarto - passai dinanzi al bagno distrattamente, lo vidi che si stava facendo la barba, con sapone e pennello, come sempre. Dissi appena un ciao e uscii". Un'ora dopo, Aldo Moro sarebbe stato rapito e gli uomini della scorta massacrati. Era il 16 marzo 1978. Giovanni Moro, suo figlio, aveva vent'anni. Adesso ne ha quaranta e s'immerge nei ricordi con qualche riluttanza: "Era un giovedì, mia madre era andata a tenere la sua lezione di catechismo nella parrocchia lì vicino... in famiglia solo mio padre si alzava tardi, del resto a casa non tornava mai prima di mezzanotte e dunque...".
Dalla strage sono ormai trascorsi due decenni e sono arrivati i giorni delle memorie e dei bilanci. Giovanni Moro accusa: "Non c'è ancora verità, nè quella storica, neè quella giudiziaria, e tantomeno quella politica. Moro non fu colpito perché era un simbolo, come si disse, ma per fare un'operazione chirurgica sulla politica italiana, per fermare il suo progetto. Anche i brigatisti non hanno detto la verità: perché non hanno reso pubblico tutto ciò che ha raccontato mio padre? E perché lo uccisero proprio quando nella Dc si era aperto uno spiraglio? E, infine, perché lo Stato non fece nulla per salvarlo?... Andreotti era il capo del governo, il responsabile politico ... E Cossiga? In qualsiasi paese, un ministro dell'Interno a cui fosse capitata una disgrazia del genere, sarebbe finito a coltivare rose... lui invece divenne due volte presidente del Consiglio e una volta capo dello Stato".
Come venne a sapere, quel 16 marzo, che suo padre era stato rapito?
"Ero arrivato da poco nella sede del Movimento Febbraio '74, in via Gregorio VII, avevamo appena traslocato e non c'era ancora il telefono. Verso le 9 e 30 qualcuno me lo venne a dire di persona. Ma le notizie erano incerte, confuse. Non si sapeva che cosa gli fosse successo, nè dove fosse, nè si sapeva dei morti. No, non ricordo chi fu ad avvertirmi, forse un uomo della mia scorta. Tutti noi della famiglia eravamo scortati".
Perché?
"Noi... ce l'aspettavamo prima o poi".
Riprenda il filo del suo ricordo.
"Mi avviai verso casa, con la mia macchina. Quando arrivai all'angolo di via Fani, vidi tutto bloccato, la polizia, le volanti... compresi che era successo qualcosa di veramente grave. A casa trovai mia madre. L'aveva saputo subito, in parrocchia. E di lì a piedi si era precipitata in via Fani. Aveva visto la scena, il sedile di dietro che non era sporco di sangue... capì che lo avevano rapito. Ma solo ad un certo punto della mattinata se ne ebbe la certezza... venimmo a sapere che gli uomini della scorta erano stati uccisi. Fu un grande dolore, eravamo tutti molto legati. Loro, le loro famiglie, stavano spesso con noi, la domenica, in vacanza...".
La prima rivendicazione dell Br delle 10.10...
"Non ricordo cosa disse mia madre... in casa c'erano anche le mie sorelle. La nostra impressione fu comune: tutti insieme sentimmo che non si era voluto colpire un simbolo, come poi si disse. Ma che si stava facendo un'operazione chirurgica sulla politica italiana. Moro era l'artefice dell'incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. E del resto basta guardare agli anni delle bombe... e fare una considerazione. Che quando Moro si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano. La sua politica è strettamente collegata a questo pezzo di storia italiana".
Quella mattina, il progetto di suo padre doveva andare in porto con il governo di solidarietà nazionale, temevate qualcosa?
"Non si era mai parlato esplicitamente dei rischi. Ma lui, già qualche mese prima, aveva insistito moltissimo perché tutti noi fossimo scortati. Aveva cominciato a preoccuparsi soprattutto dopo il rapimento del figlio di De Martino, l'anno precedente... lui non diceva mai niente di concreto, ma in quel periodo in famiglia c'era una grande tensione, un clima che si tagliava con il coltello. Infine, accadde".
Che cosa ricorda di quelle prime ore?
"Eravamo tutti un po' sbandati, soprattutto non riuscivamo a capire fino in fondo che cosa fosse davvero successo. Ci sentivamo nell'occhio del ciclone, ma separati. Intorno a noi succedevano le cose più incredibili. E noi lì, insieme, in calma apparente a leggere i giornali, a vedere i telegiornali".
Dalle lettere di Moro traspare un forte legame con la moglie....
"Sì, ma era un rapporto molto... insomma, nella vita famigliare, Moro non era granché presente. Lui usciva la mattina, e magari tornava alle due di notte. Non c'era la domenica, nè le feste... Non ricordo che fossimo andati, neanche una volta a mangiare fuori. Se si voleva chiacchierare con lui, lo si faceva da mezzanotte in poi, e per cena lo si doveva aspettare. Non esisteva la dimensione quotidiana".
In una lettera a Zaccagnini, suo padre accennò a gravi problemi famigliari...
"In famiglia c'erano i normali conflitti. Ma, al di lè di questo, lui era molto preoccupato per tutti noi e probabilmente aveva le sue ragioni... mia sorella Anna stava aspettando un bambino, insomma un insieme di preoccupazioni, anche per la nostra sicurezza".
A lei, suo padre scrisse mai dalla prigione?
"Due lettere per me vennero ritrovate a Milano, solo nel '90, in via Montenevoso. In una mi avvertiva sul che cosa fosse la politica... forse voleva dire che dentro la politica c'era anche quello che gli stava capitando".
Che cosa ricorda dei giorni precedenti all'agguato?
"In quel periodo sembrava molto stanco, provato. Aveva 62 anni, pensava di aver avuto già tutto dalla politica. Io non so se lui pensasse alla presidenza della Repubblica. Credo che lui non lo desiderasse. Ma ritengo anche che sarebbe stato pronto a farlo... ed era nell'ordine delle cose. E forse anche questa stata una delle cause scatenanti di questa vicenda. Insomma in quei giorni era scocciato, irritato dalle difficoltà... dalle risse tra quelli che volevano entrare nel governo. E poi convincere la Dc a quell'operazione, convincere il Pci, era stato davvero duro. Durante la conduzione di quella crisi c'era stato uno scambio di battute molto pesanti con Andreotti".
Moro prendeva molte medicine? E' vero che le teneva in una borsa, tra quelle che si portava dietro? A proposito, quante erano veramente le borse? I brigatisti dissero di averne prese due.
"Un po' lui aveva la tendenza a preoccuparsi per le malattie, un po' aveva anche dei reali problemi di ansia e di stress. Sì, aveva una borsa piena di medicine, ma quante borse si portasse dietro, non lo so. Ce ne era una con i materiali dell'Università, e poi aveva altre carte. Che riguardavano, per esempio, lo status dei servizi segreti. Faccio notare che quelli erano i giorni caldi dello scandalo Lochkeed. Proprio quella mattina Repubblica era uscita con un titolone: Moro Antelope Cobbler. Si cercava di buttare addosso a Moro lo scandalo... Lui non c'entrava niente, ma il punto era che la vicenda veniva usata per ostacolare il processo politico che aveva avviato".
Moro era un democristiano, ma anche un uomo nuovo, di frontiera...
"Per questo, forse, al di là della sua appartenenza, era considerato pericoloso. Mi sono spesso chiesto perché non sono mai stati ritrovati gli elenchi completi del piano Solo, dello scandalo Sifar del '64. E mi rispondo che, probabilmente, la ragione è che non c'erano solo i comunisti, i sindacalisti e i socialisti, ma perché era pieno di democristiani amici di Moro che dovevano essere presi. Lui aveva intuito che la guerra fredda era destinata a diventare marginale, era stato per anni ministro degli esteri... Dall'interpretazione di quello che accade nel '68 da noi e nel mondo, lui capisce che le società civili tendenzialmente diventano autonome dai poteri politici... E forse capisce troppo".
Suo padre aveva un buon rapporto con Berlinguer?
"Sì, stima e rispetto, anche se Moro aveva un disegno politico diverso. Berlinguer guardava al confronto tra due grandi potenze che si dovevano in qualche modo impegnare per salvare la democrazia. Moro credeva che si dovessero creare le condizioni sociali, culturali e politiche della democrazia dell'alternanza. Lo voglio ripetere: mio padre era l'uomo del superamento della guerra fredda. E c'era un sacco di gente, in Italia e fuori di Italia, che lo considerava un pericolo. Questa è una spiegazione che rende conto di tanti possibili coinvolgimenti".
Nel '78, il terrorismo già era molto diffuso, Moro ne parlava?
"Era preoccupato. Anzi, credo sia stato il primo a coniare l'espressione 'partito armato' per definirne la complessità. Per lui significava una forza politica, con una intenzionalità e con delle strategie. Non solo un agire politico. Ricordo che rimase molto colpito dall'omicidio di Casalegno. Disse di avere la percezione che costituiva il salto di qualità del terrorismo".
Torniamo ai 55 giorni, Cossiga era il ministro dell'Interno, guidava le ricerche di suo padre. Venne mai in casa vostra?
"Due volte, mi pare. Sicuramente il 17 marzo e poi il giorno in cui fu scoperta la base brigatista di via Gradoli, il 18 aprile. Ne ricavammo la sensazione che non sapessero dove sbattere la testa. Anzi, sin dall'inzio, si ebbe l'impressione che fosse in atto una strategia della rappresentazione, un conflitto simbolico. Che usava le forze dell'ordine per mettere in scena una lotta simbolica alle Br. E cinque processi non sono riusciti a chiarire questo aspetto della vicenda".
Il 18 aprile, poco dopo la scoperta della base di via Gradoli, arrivò il falso comunicato di Lago della Duchessa che annunciava la morte di Moro. Vi sembrò attendibile?
"Ci venne detto che si era tardato ad andare in via Gradoli, dopo la segnalazione, perché la strada non era sulle pagine gialle. Si era andati al paese Gradoli... soltanto in seguito si apprese che in quella via c'erano stati, ma che, avendo bussato alla porta e non avendo trovato nessuno, se ne erano andati. Quanto al falso comunicato, no... non ci credemmo, si ebbe l'immediata impressione che non fosse autentico. Non lo interpretammo come una prova generale, come poi si disse, ma genericamente come un'interferenza, come un tentativo di qualcuno di forzare la situazione".
La Dc (ma non solo la Dc), sostenne che le lettere che venivano dalla prigione non potevano essere state scritte da Moro, lei riconosceva suo padre?
"Sì, completamente. E senza alcuna ombra di dubbio. Addirittura dal punto di vista linguistico ... e poi la continuità del pensiero, dell'espressione. Era lui, non c'è discussione".
In quei giorni, lei, voi credeste davvero che Moro poteva tornare libero?
"Pensammo fino alla fine che potesse essere salvato, lo abbiamo sempre creduto, e ci siamo battuti con tutti i mezzi e fino all'ultimo. Certo non era una speranza fondata su chissà cosa. Ma abbiamo sempre agito in questa direzione, fino alla fine. Ed eravamo uniti. Capivamo che la situazione era grave. La lettera del Papa era stata terribile, quel 'liberatelo senza condizioni...'
Il 30 aprile le Br al telefono sollecitano l'intervento di Zaccagnini. E' vero che lei lo chiamò e fu lei a darsi da fare?
"Sì, lo chiamai dalla casa del portiere, perché il nostro telefono si era bloccato. Gli riferii l'ultimatum dei brigatisti, fu una conversazione piuttosto tumultuosa... noi avevamo una sensazione di impotenza. Altro che canali privilegiati... Di recente Cossiga ha dichiarato alla commissione stragi che la famiglia Moro, all'epoca, ebbe informazioni che non ha messo a disposizione... ma quando mai... la storia che noi avevamo un canale di ritorno privilegiato, è una sciocchezza. E in ogni caso di noi si sa tutto, perché eravamo microfonati".
Qualche giorno dopo il rapimento fu diffusa la foto di suo padre nella prigione, in camicia, con la stella a cinque punte alle spalle. Che impressione le fece?
"La guardai a lungo. Mio padre lo rivedevo lì, vestito come Aldo Moro non si sarebbe mai mostrato in pubblco, la camicia aperta, la canottiera. Sul suo volto lessi una sottile smorfia di ironia, ma soprattutto rabbia. Forse per la natura della vicenda, un po' da commedia tragica, tragicissima. Gli è stato rimproverato di non essersi comportato come un eroe della Resistenza. Ma lo si capiva anche dalle lettere: lui era consapevole che quella non era la resistenza, che si trattava di una faccenda molto meno seria. E le Br non erano l'esercito di Hitler".
In quei giorni in casa vostra venne spesso Tina Anselmi, in seguito andò a presiedere la commissione P2. Che cosa vi diceva, che cosa vi disse in seguito?
"Lei si convinse molto della correlazione tra i due eventi: il caso Moro e la Loggia di Gelli. Del resto, a parte le dietrologie, leggendo certi storici, come Franco De Felice, viene fuori che la realtà del doppio Stato ha attraversato decenni di storia repubblicana del nostro paese".
Suo padre aveva delle verità democristiane che avrebbe potuto rivelare ai brigatisti?
"Certamente nella prigione br, Moro non dice tutto quello che sa. Dice quello che gli interessa dire. E porta avanti anche una riflessione politica. Ma di Gladio parla per la prima volta e racconta molte altre cose. Perché non sono state rese pubbliche? I brigatisti hanno diffuso episodi ben meno pregnanti: quelli che pure avrebbero potuto creare imbarazzo alla Dc, li tennero segreti. Guardando le carte ritrovate nel '90 in via Montenevoso, viene spontaneo chiedersi il perché. Con la rivelazione di Gladio, le Br avrebbero distrutto l'immagine dello Stato che si voleva saldo e integro. Sono sicuro che su questo punto i brigatisti mentono ancora oggi".
Lei ha mai avuto interesse a incontrarli?
"Per carità... Non ci tengo. Mi sono arrivate varie richieste, negli anni. L'ultimo è stato Maccari, ma non mi interessa".
Lei continua a chiedere verità. Vent'anni dopo, qual è il pezzo di verità che ancora lei cerca?
"La verità è un fenomeno complesso. E' a strati. C'è una verità storica e riguarda il perché Moro. Abbiamo detto che si volle sventare un progetto politico, ma non basta essere d'accordo in tre o quattro, deve diventare la verità di tutti. Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizzatore, per non dire il demiurgo di un'operazione politica. E l'hanno fermato per questo, altro che simbolo... Poi c'è una verità politica. Che riguarda il comportamento dei partiti. In particolare della Dc e del Pci, d'accordo nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno. Ed è la questione principale, ancora tutta aperta. Se non si riconosce questo, se non si riflette su questo, non arriveremo mai veramente alla seconda Repubblica. Non c'è stata alcuna autocritica all'interno della Dc sui comportamenti di allora, nè c'è stata riflessione all'interno del mondo che all'epoca era il Pci. Ormai i comunisti chiedono scusa di tutto, perfino di aver sternutito nel 1921, ma di questo... non se ne parla. Non hanno ceduto neanche di un millimetro".
Lei parla di verità politiche. C'è chi sostiene che le Br non fornirono il bandolo che avrebbe potuto salavare Moro, è così?
"Non vero. Alla fine sarebbe bastata una semplice presa di posizione, un comunicato chiaro. Invece, si è voluto dare per morto Moro dal primo momento".
Si rende conto che è un'accusa gravissima?
"Per interesse, per ciniscmo, qualcuno per calcolo. O perché si pensò che non ci fosse più nulla da fare. E anche per paura, per viltà. Credo che, finalmente, sarebbe giusto distiguere fra quelli che credettero veramente nella linea della fermezza con disperazione e tormento e fecero appunto una scelta disperata. E quelli che invece cominciarono da subito a calcolare quanto avrebbero potuto guadagnare alle prossime elezioni sul cadavere di Moro. In fondo poteva essere un buon affare, togliere di mezzo un personaggio tanto fantasioso.... Insomma la verità è ancora lontana. Se non fosse così, il caso Moro sarebbe chiuso. Invece Moro è un fantasma che continua a inseguirci. E non ci lascia in pace".
Lei ha fatto queste distinzioni? I capi dell'interpartito della fermezza erano Berlinguer, Zaccagnini, uomini interessati alla politica di Moro. Dunque?
"Chi contava a quei tempi erano Zaccagnini, Donat Cattin, Piccoli, Andreotti. Quanto al Pci, penso che dal primo minuto, i comunisti abbiano dato per persa la partita. E abbiano valutato che, se si fossero spostati di un solo centimetro, si sarebbe detto che c'era connessione tra loro e l'area dei combattenti. Vede, io mi sono detto tante volte che la storia del Novecento è piena di omicidi politici che hanno reso la vittima ancor più ingombrante che da viva. Basti pensare a Martin Luther King o a Kennedy, due casi in cui l'immagine rimase ancor più importante... Allora, ecco, forse c'era bisogno anche di distruggere l'immagine di Moro, evitare che potesse essere utilizzata come un simbolo positivo: per questo la sua demolizione attraverso le lettere".
Dal suo elenco di misteri e di verità lacunose, manca quella giudiziaria...
"Cinque processi, due commissioni parlamentari non sono serviti a dare risposta ad alcune domande fondamentali: perché le br non pubblicizzarono tutto il memoriale di Moro? E perché lo uccisero proprio mentre si apriva uno spiraglio all'interno della Dc? Infine, perché agirono proprio quel giorno che mio padre passò in via Fani? Come facevano a saperlo? Lui cambiava spesso itinerario... invece loro erano sicuri che quel giorno Moro sarebbe passato proprio di lì. E poi: la metà dei colpi esplosi in via Fani vengono da un'unica arma che non è mai stata trovata. E restano i misteri della Honda e del camioncino presenti sul luogo dell'agguato. Fin qui ciò che manca dal versante dei terroristi. E per quel che riguarda le forze di polizia: perchè tante omissioni, tante superficialità?".
Lei ha detto che non vuole incontrare i terroristi, ma i leader Dc di allora li incontrerebbe?
"In questi giorni ho rifiutato di partecipare ad una trasmissione televisiva su mio padre, insieme con Cossiga, Andreotti e altri. Io non accetto un piano di parità con i responsabili politici del caso Moro. O con i responsabili delle forze di polizia. Piuttosto sarebbe necessario sottolineare la disparità. Si deve ricordare che qualcuno morto e qualcun altro no. Che qualcuno ci ha rimesso, mentre qualcun altro ha costruito carriere. Per amore della memoria".
E il partito della trattativa? Suo padre ringraziò Craxi...
"Craxi si era dato da fare, e dunque... Anche se bisogna dire che per Craxi quello era un passo positivo, comunque fosse andata a finire. Si metteva in questione l'egemonia Pci-Dc. Era in ogni caso, una questione che valeva la pena affrontare".
Cerchi di spersonalizzare. Lei non ritiene che, se all'epoca si fosse trattato con le br, le istituzioni ne sarebbero state danneggiate?
"Faccio un ragionamento generale e brutale. Quando c'è un rapimento, lo Stato - che ha il dovere di tutelare la sicurezza e la vita dei cittadini - ha due possibilità: o libera il prigioniero o tratta. Se non fa né l'una né l'altra cosa, è corresponsbaile di quel che accade dopo. E' una valuatazione eccessiva? Può darsi. Resta il fatto che dal sequestro Sossi a Soffiantini, passando per Dozier e Cirillo, lo Stato o ha liberato il prigioniero o ha trattato. L'unico caso in cui non ha né trovato il prigioniero, né ha trattato, è stato Moro. Non farei nessun'altra considerazione. E poi, durante i 55 giorni, nel nostro Paese dove si litiga continuamente, si ebbe la sensazione che ci fosse una straordinaria, inedita, inspiegabile unità tra le forze politiche. Le voci di dissenso erano pochissime e ci si sentiva veramente impotenti".
In una delle sue lettere, Moro si era rivolto a Zaccagnini, lo aveva indicato come il responsabile morale...
"Quando Zaccagnini venne eletto segretario della Dc, costrinsero mio padre ad assumere la carica di presidente del partito. Mia madre si oppose, aveva con Moro un enorme contrasto sul fatto che lui continuasse a fare politica. Del resto l'ostilità nei confronti di papà era evidente... come le minacce".
Dalle lettere, specie dalle ultime, sparisce il Moro paludato. Va giù duro con Cossiga Piccoli, Zaccagnini...
"Mio padre non era un muro di gomma. Era un uomo forte, deciso, quando doveva esserlo. Ma le lettere devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia".
Che vuol dire? Che lui sa di scrivere profezie, di scrivere per il domani? In una parola sa che l'uccideranno?
"Lui lotta fino alla fine. Certo, man mano, in successione, diminuisce la capacità di resistenza. Arrivano botte. Basti pensare alla lettera del Papa. A quel 'liberatelo senza condizioni'. Il Papa fece la sua parte. Ma quello che produsse... diciamo che sarebbe stato meglio che non l'avesse prodotto. Anche se quell'espressione 'senza condizioni', dicono che gliel'abbiano imposta".
Andreotti?
"Era il capo del governo, il responsabile politico della gestione di questa vicenda. Credo che ci si possa limitare a questo".
Siamo alla fine, il comunicato numero 9 del 5 maggio, annuncia: "Concludiamo la battaglia, eseguendo..."
"No, non pensai che lo stessero uccidendo. Interpretammo quel gerundio come l'inizio dell'ultima fase. Capimmo che c'era un messaggio, uno spiraglio per agire. La mattina del 9 maggio ci sarebbe stata la direzione della Dc e il dissenso di Fanfani e dei suoi sarebbe stato rappresentato, manifestato. In quel momento non abbiamo cognizione diretta che le cose stiano proprio così, ma lo intuiamo. La telefonata delle Br, in cui si chiedeva l'intervento di Zaccagnini, l'avevamo letta in questo senso. Avevamo sentito i compagni di corrente, i colleghi della dc, avevamo fatto pressioni. Senza grandi risultati. Ma neanche i suoi pochi compagni di corrente furono in grado di fare di più. Certo, alcuni si attivarono per chiedere tramite Misasi la convocazione del Consiglio nazionale. Ma insomma non è che si siano dati fuoco nelle piazze... E tuttavia qualcosa nella Dc si stava muovendo".
Il 9 maggio, invece lo uccisero.
"Io rimasi... non me l'aspettavo. Per due mesi, certo sapevo che sarebbe potuto succedere in qualsiasi momento. Invece accadde proprio quando le Br stavano ottenendo qualcosa..."
Dove si trovava quel giorno?
"A casa. Non ci chiamò nessuno di quelli che avrebbero dovuto farlo, né dal ministero dell'Interno, né da qualsiasi altra parte. Ci telefonarono amici, forse Gianfranco Quaranta, il capo del nostro Movimento. Ma è pazzesco che nessuno si volle prendere la responsabilità ufficiale di comunicarcelo. Appena saputo, andammo all'obitorio, mia madre, le mie sorelle ed io, per l'autopsia. No, non voglio parlare di quello che provai".
Moro era l'espressione della grande tragedia italiana, lei
quel giorno vide anche questo o solo suo padre?
"Non è facile rispondere. Tutto insieme. Mi colpì
qualche tempo fa un signore anziano che mi disse: 'Quel 9 maggio
per me fu come l'8 settembre'. Mi ha fatto pensare: interpretava
bene l'idea del tutto che crolla, lo sbandamento".
Alla fine, la famiglia ha chiesto il silenzio, non è andata ai funerali di Stato.
"Si, e non solo perché erano le ultime volontà di mio padre. Eravamo in perfetta consonanza con lui".
Vent'anni dopo ha ancora la speranza che si possa arrivare alla verità?
"Mi conforta che, pur tra tentativi di trovare scorciatoie o versioni di comodo, ritorni sempre fuori la voglia di raggiungere la verità. E' nell'interesse del Paese liberarsi di questo fantasma. Vede, io ho due figli, di dieci e otto anni. Mi hanno chiesto tante volte del nonno. Ho tentato di rispondere e ho spiegato che non è un problema nostro privato, è un problema della democrazia, un problema insoluto che riguarda il nostro paese".