Intervista a Franco Bonisoli, membro della direzione delle Br durante il sequestro Moro
Contro lo Stato, contro la Ragione
di GIORGIO BOCCA
MILANO - Nei giorni del sequestro di Aldo Moro Franco Bonisoli faceva parte della direzione delle Brigate Rosse e del comando esecutivo con Mario Moretti e Lauro Azzolini. Oggi lavora durante il giorno a Milano e la sera deve rientrare nel carcere di Monza. Fra qualche mese dovrebbe tornare in piena libertà.
Bonisoli, quando avete pensato per la prima volta al sequestro di Aldo Moro?
"Nel 1976, durante il processo di Torino ai capi storici delle Br. Doveva essere il nostro processo, la rivoluzione che processava lo Stato. E la Democrazia Cristiana per noi era lo Stato e alcuni suoi dirigenti, come Andreotti e Moro, la rappresentavano. Fu allora che le Brigate rosse assunsero una dimensione nazionale. Dovevamo uscire dalle nostre roccaforti nordiste di Milano, Torino, Genova e formare una colonna a Roma, nella capitale. Furono necessari degli anni per costituire la colonna e per progettare una serie di campagne che ci avrebbero portato ad attaccare il cuore dello Stato. Il sequestro Moro doveva essere seguito da quello di Leopoldo Pirelli e di altri protagonisti".
Dai memoriali anche recenti di alcuni brigatisti sembra di capire che l'operazione di via Fani fu in notevole parte aiutata dal caso e dalla fortuna.
"Fu lo scontro frontale di due forme di mitizzazione. Noi pensavamo ai carabinieri alla polizia politica come a dei corpi monolitici, addestratissimi. Loro pensavano a noi come alla "potenza geometrica" di cui si disse. La realtà stava a mezza strada. La nostra preparazione militare era modesta, qualche esercitazione nei 'covi' o in montagna, ma la coesione del gruppo e la determinazione era superiore a quella di un normale commando. È vero, molti dei mitra impiegati nell'attacco si incepparono, ma la rapidità della esecuzione, la complessità della operazione furono notevoli. Non è vero che la scorta fosse imbelle e impreparata. Il fatto che uno dei poliziotti riuscì a uscire dall'auto di scorta e a sparare nonostante la sorpresa lo dimostra".
Quel 16 di marzo doveva formarsi il governo di solidarietà nazionale, premessa del compromesso storico di cui Aldo Moro era fra gli ideatori. C'è chi vede nella coincidenza la vostra decisione di prevenire una svolta politica che avrebbe allontanato il Partito comunista da ogni prospettiva rivoluzionaria.
"Forse gli interpreti politici e intellettuali del caso Moro sono stati fuorviati dai nostri documenti, dalle nostre risoluzioni strategiche in cui, per ragioni di propaganda, entravamo nei dettagli della politica italiana, sembravamo interessati a tutti i suoi risvolti. In realtà eravamo molti più schematici. Per noi la Democrazia Cristiana era lo Stato che faceva parte del Sim, Stato imperialista delle multinazionali e il Partito comunista, il compromesso storico non erano che una delle forme, delle manovre di questo superpotere".
Allora e adesso c'è chi si chiede: ma che cosa poteva contare il sequestro di Aldo Moro nella lotta contro il capitalismo mondiale?
"Torniamo sul discorso delle reciproche mitizzazioni, su come noi pensavamo lo Stato e su come voi pensavate le Brigate rosse. Nei nostri documenti ideologici e propagandistici noi fingevamo di avere delle visioni globali. Non a caso la nostra direzione si chiamava strategica. In realtà seguivamo la logica del passo dopo passo seguita nel crescere delle Brigate rosse. Per noi qualsiasi azione destabilizzante dello Stato era un passo avanti, un passo che doveva essere fatto".
Senta Bonisoli, ancora oggi, dopo avere sentito voi e seguito i vostri processi non si è capito bene che cosa doveva essere il "riconoscimento politico" chiesto per la liberazione di Moro.
"Anche qui si contrappongono le due ottiche, quella di chi stava fuori della organizzazione e di chi era dentro. Per chi stava fuori il riconoscimento politico consistente nella liberazione di un prigioniero era un simbolismo quasi incomprensibile. Ma per noi dare la prova alla base rivoluzionaria che lo Stato aveva dovuto trattare con noi era importantissimo, ci legittimava come guida della rivoluzione".
Ma c'era davvero questa base?
"Siamo sempre lì, alle interpretazioni diverse. Nei giorni del sequestro ricevevamo dai nostri informatori terminali le notizie di cosa si diceva e faceva nelle fabbriche. A noi sembravano notizie esaltanti, come si fosse messa in moto una ondata rivoluzionaria: lì avevano brindato, là gli operai avevano partecipato alla distribuzione dei nostri manifestini o collaborato al soccorso rosso, nella tal sezione del Partito comunista si era pubblicamente parlato di solidarietà ai 'compagni combattenti'. Poi abbiamo capito quali sono gli umori mutevoli delle masse, la propensione a stare dalla parte di chi sembra vincente. Non è accaduto qualcosa di simile in questi anni con gli entusiasmi effimeri per Mani pulite?"
Sono anni, lei lo sa bene, che si parla del caso Moro come di un grande irresolvibile complotto. Dopo avere deriso per anni la vostra invenzione del Sim, Stato imperialista delle multinazionali, l'informazione, i processi, i politici hanno fantasticato e ipotizzato sul complotto internazionale per non scoprire la prigione di Moro, per far sparire i suoi memoriali. Lei fu uno che ebbe il compito di portare a Milano il memoriale dattiloscritto e i brogliacci che furono successivamente trovati nel "covo" di via Montenevoso. Che cosa c'è di vero in questa misteriosa vicenda in cui la fanno da protagonisti Andreotti, il generale Dalla Chiesa, i servizi segreti nostri e americani?
"Spesso nelle ricostruzioni dei fatti dalle cose minime si passa alle massime. In quei giorni erano state scoperte casualmente alcune delle nostre basi. Non dalla polizia, ma da un vigile del fuoco chiamato per un incendio nel caseggiato o da un vigile urbano che doveva compiere un controllo. E capitò che così venisse trovato del materiale lasciato su un tavolo, su un letto. Decidemmo che le carte dovevano sempre essere tenute al chiuso, in una valigia, in un cassetto. Fui io a portare in valigia da Roma a Milano le carte del sequestro Moro. Il dattiloscritto lo usammo per fare un opuscolo, le carte degli interrogatori le chiudemmo nel vano sotto una delle finestre. Era un buon nascondiglio, stucco e pittura del muro erano stati fatti con attenzione".
Lei vide, studiò quei documenti. Pensa che in essi fossero contenute delle rivelazioni tali da poter diventare strumento di ricatto politico da parte del generale Dalla Chiesa o di altri?
"Direi di no. C'è stato rimproverato anche da compagni come Curcio di non aver saputo usare quel materiale, ma non mi pare che ci fossero documenti esplosivi. Ricordo che cercai invano qualcosa che si riferisse ai misteri della strage di piazza Fontana. Può darsi, anzi certamente, non eravamo dei buoni propagandisti politici, vivevamo nella nostra scatola chiusa, dei brani degli interrogatori, che a noi sembravano insignificanti o risaputi, avrebbero avuto una eco nella opinione pubblica. Ma siamo sempre lì, nella vita le interpretazioni hanno un grande ruolo. Ho notato, per dire, che di quei documenti sono state date in questi anni da voi professionisti dell'informazione e da storici, da intellettuali, delle interpretazioni diverse, magari condizionate dall'evolversi della politica. Vista oggi e dall'esterno quella nostra storia può anche sembrare una pazza storia, può sembrare che abbiamo compiuto degli errori incredibili. Penso anche io che abbiamo commesso degli errori, soprattutto dei gravi errori umani, penso che neanche la nostra mitica rivoluzione valesse il sacrificio di vite umane. Ma sono cose che si pensano dopo".