La Stampa - 15.03.98

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MORO, LA TRAGEDIA DI UNO STATO DEBOLE

LO STATISTA RAPITO DALLE BR VENT'ANNI FA

I NSIEME al delitto Matteotti e ancor più, il delitto Moro suggella la dimensione tragica della politica italiana lungo il secolo che volge al termine. Lo ha scritto di recente lo storico Mario Isnenghi: altro che commedia dell'arte, "siamo un paese tragico". Ma prima di lui, vent'anni fa, riflettendo su questo giornale intorno al dilemma se pur di salvare la vita di Aldo Moro fosse lecito o meno trattare con i brigatisti che in via Mario Fani, il 16 marzo 1978, avevano assassinato i cinque agenti della sua scorta, Norberto Bobbio aveva evidenziato per l'appunto quella dinamica di tragedia classica cui tutti, ma proprio tutti quanti i cittadini italiani fummo chiamati a partecipare. Ricordava Bobbio, subito dopo: "Dalla strage di piazza Fontana in poi avrebbe dovuto essere chiaro che la commedia all'italiana si stava trasformando in tragedia... Che oggi i terroristi vengano dalla parte opposta, non cambia nulla: la crisi drammatica dello Stato era cominciata da un pezzo".

Ecco, la crisi drammatica dello Stato. Se i vent'anni trascorsi ci consentissero di separarci per un attimo dalle emozioni e dalle scelte per il tramite delle quali pure noi partecipammo in veste di attori impotenti (o di coro?) dentro quella tragedia collettiva, più semplice ci verrebbe il riconoscere come il delitto Moro anzitutto contrassegnò quanto fragile fosse il nostro Stato. Quanto sproporzionate, inadeguate fossero le istituzioni rispetto alla società che dovevano rappresentare e proteggere.

La crisi di uno Stato democratico ma gracile, afflitto insieme da paura e arroganza, sarebbe costata centinaia di vite innocenti stroncate da un'inedita criminalità politica. Ma possiamo ben dire che nel 1978, insieme a Moro e ai caduti di via Fani, cominciava a morire la Prima Repubblica, e quest'ultima non certo per mano della barbara ma storicamente trascurabile armata brigatista.

Come per Matteotti e ancor più, di quel che è accaduto a Moro si sa tutto o quasi tutto, nonostante continuino a levarsi voci dubbiose e scettiche com'è inevitabile vista l'assurdità dell'evento: una pattuglia di terroristi male addestrati che stermina la scorta del leader politico più importante del Paese, e poi lo tiene prigioniero per cinquantacinque giorni nella capitale senza farsi scoprire. Si sanno i nomi dei killer, dei carcerieri, dei postini, dei prestanome che hanno fornito artigianale efficienza alla barbarie (scimmiottati per fortuna in modo incruento l'anno scorso dagli assalitori del campanile di San Marco). Il poco che non si sa riguarda invece l'inefficienza dell'azione investigativa, a conferma di come la tragedia Moro simboleggi la debolezza di quello Stato, percorso da intrighi e divisioni, indietro anni luce rispetto all'Italia che gli esplodeva attorno.

Ma se davvero è così, chi oggi si propone l'encomiabile scopo di rifondare tra gli italiani il senso dello Stato difficilmente potrà far ricorso alla retorica emergenziale che si fonda sui cinquantacinque giorni più cupi della Repubblica. Perché, diciamocelo in via definitiva, quel terrorismo seminò il lutto e l'angoscia, ma non aveva nessuna possibilità di vincere. Erano quattro gatti con un seguito modesto, ingigantiti dalla debolezza dello Stato, e in questa chiave tutt'altro che eroica andrebbe finalmente riletto pure il dilemma tra fermezza e trattativa. Determinante, come è noto, vi fu il ruolo di colui che in seguito, nella sbrigativa iconografia post-moderna dell'Ulivo, sarebbe stato annoverato come l'alter ego di Moro, cioè Enrico Berlinguer. Senza pretendere di rileggere col senno di poi le ragioni e i torti della tragedia quand'era ancora in corso, limitiamoci a considerare come l'intransigenza di Berlinguer (espressione di una concezione della politica antitetica a quella morotea) risultò decisiva nel determinare le scelte della dc e del governo, quindi la sorte del prigioniero.

Tale intransigenza trovava fondamento in una sottintesa, inesprimibile preoccupazione: che una qualsiasi parvenza di cedimento alle Br potesse venir scambiata per indulgenza genealogica dovuta al comune album di famiglia comunista. Perché era di lì, dalla più rigida tradizione rivoluzionaria comunista, che si dipartiva la degenerazione metropolitana del brigatismo.
Da quella preoccupazione del pci traggono origine alcune leggende che hanno avvelenato la riflessione sulla tragedia. E vorremmo essere sicuri che Massimo D'Alema, dopo avere smontato la visione storica complottistica ed estremista del giudice Colombo, procedesse con uguale lena a regolare i conti pure in casa propria riguardo al delitto Moro: mi riferisco alla vulgata tutt'ora circolante di un Moro ucciso dalle Br per conto di forze oscure nazionali e internazionali ostili all'ingresso del pci nel governo. Una panzana da archiviare come argomento propagandistico dell'epoca in cui l'alternanza in Italia era interdetta dal quadro mondiale. Così come sarà il caso di archiviare pure quell'altro espediente retorico secondo cui il sacrificio di Moro, vent'anni fa, avrebbe salvato e dato forza allo Stato italiano. E' vero il contrario. Nonostante la grande partecipazione popolare, nonostante l'emozionata ripulsa del terrorismo manifestata dalla stragrande maggioranza della società, l'epilogo (di nuovo cruento come l'avvio) del sequestro Moro certificò la vulnerabilità di una Repubblica che in seguito sarebbe franata sotto l'infamante epiteto di Tangentopoli.

Allora forse ha più senso chiederci cosa l'Italia abbia perduto, con il sacrificio di Aldo Moro. Di certo ha perduto l'artefice più nobile di una concezione particolarissima, ambigua ma preziosa, della politica come partecipazione sociale collettiva. Una concezione grazie a cui quell'assoluto protagonista del Palazzo poteva giustamente apparire a Pasolini "il meno implicato di tutti". E sempre lui, Moro, l'inventore di formule insulse come "le convergenze parallele", poteva essere gratificato da un ritratto bello come questo di Leonardo Sciascia su la Stampa : "Mi è insopportabile la sua lentezza, il suo dire polivalente ed ermetico: e mi pare si comunichino a tutta la vita di questo paese. Ma basta, ad accendermi una certa simpatia, il sentire che non è un cattolico-ateo, in questo paese di cattolici-atei (di un ateismo, voglio dire, inconsapevole ma attivo)".

Moro incarna la stagione del partito capace di assorbire tutte le spinte - anche opposte tra loro - provenienti dalla società, e dunque del partito addirittura preminente rispetto alle istituzioni dello Stato. Se democrazia è partecipare alle decisioni, allora bisogna allargare sempre più le maggioranze. Allargare, prima al psi e poi al pci. L'arte politica morotea si fonda su di una progressiva intelaiatura di rapporti finalizzati a tenere insieme politica e società. Con l'inevitabile corollario della lassitudine operativa e con la prassi clientelare delegata al segretario-faccendiere Sereno Freato. Perché il presidente della dc stava sopra tutto questo, così come la società non si esaurisce nello Stato.

Troppo facile stabilire oggi l'assoluta incompatibilità tra l'idea politica morotea e le esigenze decisioniste del bipolarismo. Cocente è la nostalgia della base dell'Ulivo per i tentativi di mediazione politica tra società e Stato impersonati da Moro e Berlinguer, così diversi eppure riuniti nella serietà, nella prudenza e nell'arcaicità italiana dei gusti e dei modi. Una nostalgia che va compresa e interpretata. Testimonia di una perdita autentica, la perdita della politica popolare. Anche per questo, oggi, pur consapevoli della necessità di voltar pagina e protesi nella costruzione di istituzioni nuove, è giusto celebrare il ventennale di una sconfitta.

Gad Lerner

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