Il Corriere della Sera  - 05.03.98 

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La stanza di Montanelli

Sul nemico vinto non si infierisce

Caro Montanelli,

Ho visto su Raiuno la puntata della Storia della Repubblica di Zavoli dedicata al caso Moro, puntata che ha rievocato con grande efficacia quell'evento, uno dei più drammatici della recente storia d'Italia. Mi ha molto colpito in particolare l'intervista ai brigatisti responsabili di quella tragedia, Mario Moretti, Laura Braghetti, Prospero Gallinari, eccetera, i quali, oggi tutti a piede libero, hanno ammesso, chi con una parvenza di umanità, chi, come Moretti, con un agghiacciante distacco, il fallimento della loro insensata ideologia. Quello che non riesco a spiegarmi è come la classe politica italiana, in primis la Dc ed il Pci, abbiano lasciato morire Moro per non riconoscere politicamente le Br, considerandole quindi alla stregua di criminali comuni, e poi, una volta arrestatili, li abbia rimessi in libertà dopo pochi anni per «chiudere quel ciclo politico».

Ora io le chiedo: se i brigatisti sono stati considerati criminali comuni, e per questo si è sacrificata la vita di Moro, perché non hanno poi scontato almeno una parte della pena prevista dal Codice penale per i loro delitti? Di quali attenuanti si sono giovati?

Sergio Matarasso, Napoli

Caro Matarasso,

Io non ho seguito quelle trasmissioni perché, riguardando vicende che ho «vissuto», non ho più nulla da impararne. Quello però che non riesco a spiegarmi è come lei non riesca a spiegarsi l'atteggiamento dello Stato italiano, e ci veda una contraddizione. Ma quale contraddizione? Se lei segue un po' queste mie modeste «stanze» si sarà accorto che io non sono di certo un apologeta dello Stato italiano: non perdo occasione di rinfacciargli inadempienze, inefficienze, parassitismi, soprusi, e insomma tutti i mali che lo affliggono e che ci affliggono. Ma sul suo contegno in occasione del caso Moro, non trovai nulla da rimproverargli, se non qualche esitazione sulla scelta della via da seguire e che non poteva essere diversa da quella che seguì. In quel momento il brigatismo si ergeva come il nemico numero 1 dello Stato e pretendeva di esserne riconosciuto come interlocutore dopo averne sequestrato il più eminente rappresentante e averne lasciato sul selciato i cinque uomini di scorta. Secondo lei lo Stato avrebbe dovuto cedere a questo atto di forza e accettare di trattare coi suoi autori come da Potere a Potere, anzi da vinto a vincitore? Sarebbe stata una capitolazione. E per cosa? Per salvare la vita di un suo rappresentante, come il rappresentante purtroppo voleva e implorava? Dico «purtroppo» perché Moro, in questa vicenda, non perse soltanto la pelle. Ci perse anche, con le sue suppliche, la dignità di statista.

Nessuno impone a nessuno d'intraprendere la carriera di statista. Ma chi la sceglie deve sapere che, una volta raggiunte le massime cariche dello Stato, diventa egli stesso lo Stato e non può servirsene per salvare la propria vita anche a prezzo di una capitolazione. Oggi il rapporto è del tutto diverso, anzi si è rovesciato. A capitolare, proprio per la fermezza dimostrata in quel momento dallo Stato, è stato il brigatismo, i cui sopravvissuti campioni riconoscono la disfatta, e lungi dal pretendere di trattare con lo Stato da pari a pari, ne invocano la clemenza. Io credo che lo Stato possa e debba accordargliela: sul nemico vinto e che si riconosce vinto non s'infierisce. In fondo questi brigatisti hanno avuto, nella sconfitta, una loro dignità. Non sono dei «pentiti» al modo dei mafiosi e camorristi che si pentono per procurarsi dei vantaggi e denunziano i propri ex compari. Non sono dei delatori. Sono, a loro modo, dei prigionieri di guerra, di una guerra grazie a Dio finita con la nostra vittoria, e che quindi, sia pure con le debite precauzioni, possiamo rimandare a casa. Non è vero che non hanno pagato: me ne citi uno che non abbia scontato quindici o vent'anni di galera e che non ne abbia avuta distrutta la vita. Qualche sconto possiamo farglielo: la generosità è segno di forza, non di debolezza.

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