Il Corriere della Sera - 05.03.98
Caro Matarasso,
Io non ho seguito quelle trasmissioni perché, riguardando vicende che ho «vissuto», non ho più nulla da impararne. Quello però che non riesco a spiegarmi è come lei non riesca a spiegarsi l'atteggiamento dello Stato italiano, e ci veda una contraddizione. Ma quale contraddizione? Se lei segue un po' queste mie modeste «stanze» si sarà accorto che io non sono di certo un apologeta dello Stato italiano: non perdo occasione di rinfacciargli inadempienze, inefficienze, parassitismi, soprusi, e insomma tutti i mali che lo affliggono e che ci affliggono. Ma sul suo contegno in occasione del caso Moro, non trovai nulla da rimproverargli, se non qualche esitazione sulla scelta della via da seguire e che non poteva essere diversa da quella che seguì. In quel momento il brigatismo si ergeva come il nemico numero 1 dello Stato e pretendeva di esserne riconosciuto come interlocutore dopo averne sequestrato il più eminente rappresentante e averne lasciato sul selciato i cinque uomini di scorta. Secondo lei lo Stato avrebbe dovuto cedere a questo atto di forza e accettare di trattare coi suoi autori come da Potere a Potere, anzi da vinto a vincitore? Sarebbe stata una capitolazione. E per cosa? Per salvare la vita di un suo rappresentante, come il rappresentante purtroppo voleva e implorava? Dico «purtroppo» perché Moro, in questa vicenda, non perse soltanto la pelle. Ci perse anche, con le sue suppliche, la dignità di statista.
Nessuno impone a nessuno d'intraprendere la carriera di statista. Ma chi la sceglie deve sapere che, una volta raggiunte le massime cariche dello Stato, diventa egli stesso lo Stato e non può servirsene per salvare la propria vita anche a prezzo di una capitolazione. Oggi il rapporto è del tutto diverso, anzi si è rovesciato. A capitolare, proprio per la fermezza dimostrata in quel momento dallo Stato, è stato il brigatismo, i cui sopravvissuti campioni riconoscono la disfatta, e lungi dal pretendere di trattare con lo Stato da pari a pari, ne invocano la clemenza. Io credo che lo Stato possa e debba accordargliela: sul nemico vinto e che si riconosce vinto non s'infierisce. In fondo questi brigatisti hanno avuto, nella sconfitta, una loro dignità. Non sono dei «pentiti» al modo dei mafiosi e camorristi che si pentono per procurarsi dei vantaggi e denunziano i propri ex compari. Non sono dei delatori. Sono, a loro modo, dei prigionieri di guerra, di una guerra grazie a Dio finita con la nostra vittoria, e che quindi, sia pure con le debite precauzioni, possiamo rimandare a casa. Non è vero che non hanno pagato: me ne citi uno che non abbia scontato quindici o vent'anni di galera e che non ne abbia avuta distrutta la vita. Qualche sconto possiamo farglielo: la generosità è segno di forza, non di debolezza.