Il Corriere della Sera                                                             Giovedì, 7 agosto 1997

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GIUSTIZIA E VENDETTA

GIUSTIZIA

di GIULIANO ZINCONE

È ingenuo pretendere che tutti partecipino con eguale serenità al dibattito sull'indulto per i terroristi. Troppe passioni, troppi rancori, troppi lutti personali e politici sono legati col fil di fer- ro ai crimini, ai suicid-i, agli aborti di quegli anni blindati. Si può ripetere che l'indulto non significa perdono, né indulgenza. Si può spiegare che questo provvedimento non cancella i reati, ma si limita a ridurre le pene: cioè, a eliminare gli eccessi di galera inflitti dalle leggi d'emergenza. In teoria, tutti capiscono: il terrorismo è finito, i delinquenti politici ammettono apertamente la propria sconfitta e, dunque, non c'è più alcun bisogno di isolarli e di castigarli con strumenti di giustizia particolarmente severi. Tutti capiscono, ma le ferite, purtroppo, sono ancora aperte. Sono vivi i parenti e gli amici delle vittime: il loro dolore grida vendetta.

Vendetta? Ho sempre considerato arcaico e barbarico questo sentimento. Eppure, qualche anno fa, ho desiderato ardentemente di vendicare un amico. Un giovanotto vestito di bianco ballava e rideva, su una terrazza romana, agitando una bottiglia di spumante. Era uno degli assassini del mio amico Walter Tobagi. Era in libertà perché, parlando, aveva mandato in galera molti estremisti, molti terroristi veri o presunti. Il ragazzo continuava a ballare e io dissi ad alta voce: «Adesso lo butto di sotto». Questo, e soltanto questo, mi comandava la mia rabbia, di fronte all'allegria dell'assassino impunito. Questo avrei fatto, per la fraterna memoria di Walter, se non avessi ricevuto una normale educazione, se non avessi rispettato e temuto le leggi che ci governano.

Le leggi sono state inventate proprio per impedire a me (e a tutti gli altri che sono stati feriti) di imporre le ragioni della vendetta, di influire urlando e protestando sugli esiti dei processi. Per questo, ai parenti e agli amici delle vittime (e alle stesse vittime sopravvissute agli attentati) si deve chiedere, sottovoce, di capire quel che è difficile capire: che perdonare non è affatto necessario, ma che non si può spendere l'intera esistenza desiderando castighi, manette e galere, chiusi in associazioni di orfani e di vedove, identificati da questi lutti e da queste ansie di compensi carcerari.

Quali sono i limiti di esigenze tanto pressanti e strazianti? Fino a quando i parenti e gli amici e gli eredi spirituali delle vittime potranno coltivare serenamente il loro odio, e pretendere risarcimenti ad alta voce? Negli anni Cinquanta, a scuola, ci insegnavano che era necessario esecrare gli austriaci, perché avevano impiccato Cesare Battisti. È ancora attuale questo sentimento? E fino a quando sarà comprensibile e lecito l'odio nei confronti di un nemico, di un boia come Priebke, di un terrorista rosso o nero, di un Reich nazista sterminatore, o di uno Stato democratico che annienta la popolazione inerme di Hiroshima e di Nagasaki? Fino a quando coltiveremo come piante velenose i nostri rancori?

Nella Spagna fascista, il dittatore Francisco Franco ebbe il coraggio di radunare nello stesso cimitero (la Valle dei Caduti) i morti della Guerra Civile, senza distinzioni di bandiere. In Italia, non tutti i parenti delle vittime si comportano allo stesso modo. Il «gambizzato» Gino Giugni e la vedova dell'assassinato Tarantelli, per esempio, non sono affatto affamati di manette. E tutti noi, che siamo favorevoli all'indulto, non perdoniamo niente a nessuno. Riteniamo, semplicemente, che il tempo delle esagerate vendette sia appassito, che le normali condanne siano sufficienti e che il disprezzo (la pena di morte politica) per gli sconfitti sia un patibolo adeguato e definitivo.

È spiacevole constatare che contro l'indulto si batta anche qualche (ex) comunista, che rinnega la propria (pessima) eredità, e che si ostina a definire come «degenerazioni staliniste» i crimini perpetrati dal regime sovietico. Eppure, ben prima di Stalin, un illustre teorico, Friedrich Engels (sodale di Marx), scrisse che il comunismo, per conseguire i suoi obbiettivi, «farà sparire dalla faccia della terra, non soltanto classi e dinastie reazionarie, ma anche interi popoli reazionari» e che otterrà questo risultato ricorrendo a una «lotta di annientamento e di terrorismo senza riguardi». I brigatisti (come Pol Pot), insomma, avevano letto Engels, fautore di «crimini contro l'umanità» che colpirono soprattutto i sudditi sovietici. A Mosca, però, i comunisti (votatissimi) organizzano commoventi cortei, con le loro bandiere rosse e con i ritratti di Stalin bene in vista. Nessuno chiede l'indulto, per loro. Non ne hanno bisogno, ovviamente.

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