Il Corriere della Sera                                                             Mercoledì, 13 agosto 1997

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DALLA LOTTA ARMATA ALLA CARITAS

Bignami, ex «Prima Linea»: abbiamo pagato. Non chiediamo favori

Michela Mantovan,

MILANO - Ex capo di «Prima linea», Maurice Bignami fu arrestato a Torino nell'81, mentre cercava di assaltare un'oreficeria: imbracciava un mitra, ma non ebbe tempo di usarlo. Due ergastoli e una lunga serie di delitti alle spalle: l'agente Giuseppe Lo Russo, lo studente Emanuele Iurilli, il dirigente Fiat Carlo Ghigleno, il barista Carmine Civitate... Da cinque anni Maurice Bignami è in semilibertà, lavora alla Caritas di Roma, insieme con la moglie Maria Teresa Conti, anche lei ex militante di «Prima linea». Adesso ha 46 anni e due bambini (uno 6, l'altro 8 anni): durante il giorno si occupa di «senza casa», alla sera, quando ha finito, torna in carcere.

Che pensa della distinzione tra «assassini» e non? Di Pietro lo ritiene il criterio-guida per decidere chi, tra gli ex terroristi, abbia o meno diritto di beneficiare dell'indulto.

«A monte del discorso sull'indulto sta il fatto che chi aveva l'aggravante per aver commesso reati con finalità terroristiche ha avuto un aumento di pena, in base alle leggi speciali. Il signor Di Pietro dice: "Perché l'assassino terrorista dovrebbe avere uno sconto rispetto all'assassino comune?" Beh, intanto perché è stato condannato a un tot di pena in più... Oggi si chiede che questo tot di pena in più sia eliminato. Non c'è nessun discorso di premio, è solo un provvedimento tecnico. Alla luce di questo discorso, le differenze tra i particolari reati commessi vengono meno».

Ma è possibile, trattando di lotta armata, scindere il ruolo del mandante da quello dell'esecutore?

«Non è che si può dare l'indulto a chi se lo merita di più o a chi se lo "demerita" di meno. E poi chi non si è macchiato di reati di sangue ha già risolto il problema da 5, 6, 7 anni. Io sono in carcere da 16 anni. Nell'89 sono stato ammesso al lavoro esterno, dal '92 sono in semilibertà. Il mio è un iter standard, non mi è stato "regalato" niente, ho consumato la mia pena: da fine luglio sono entrato nei termini per chiedere la libertà condizionale. Comunque nessuno nella nostra organizzazione è stato solo un mandante. Ritengo ignobile la posizione di chi dice a qualcun altro: "vai e ammazza...". Decidemmo di fare la lotta politica e ci siamo assunti tutte le responsabilità di quanto commesso».

Cosa pensa delle argomentazioni proposte da Di Pietro?

«Il suo è un discorso ambiguo... Ma è normale che sia così. D'altra parte è stato commissario di polizia, poi magistrato... Nessuno di noi vuole nulla in regalo. Ma vorrei che si ragionasse sul fatto che non c'è più pericolo... Non c'è più ragione di leggi speciali... Noi detenuti politici abbiamo trascorso tutta la nostra carcerazione in maniera pulita, decorosa, dignitosa. Non ci sono tanti esempi analoghi, nella storia del Paese, né nella Prima né nella Seconda Repubblica. Di Pietro è nelle condizioni di poter apprezzare questo».

Perché?

«Perché lui combatte contro i colpi di spugna, contro i ritorni indietro, contro la sensazione che si sia cambiato tutto per non cambiare niente. Noi siamo il rarissimo esempio di come venire fuori in modo trasparente da una storia. E ciò non significa chiedere un premio. "Dopo" ci siamo comportati bene. Di questo sono orgoglioso».

Ha chiesto perdono ai parenti delle persone che uccise?

«È un termine orribile: mischia il fatto storico e personale... Sono cose che non si rivendicano. Né da una parte né dall'altra».

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