CARLO OLIVA
U NA PREMESSA personale. Provo un certo imbarazzo ad occuparmi della sentenza della Cassazione che ha segnato la condanna definitiva e la successiva incarcerazione dei miei ex compagni Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Sarà perché in quella brutta storia mi sono sempre sentito coinvolto, giacché ho fatto parte anch'io di Lotta continua e non ho mai avuto motivi di deprecare quella mia scolta. Sarà perché, nonostante questo, non sono mai riuscito a riconoscermi in quella che i giornali definiscono la "lobby" di Lotta Continua, dei cui esponenti non mi piacciano né le posizioni né gli argomenti. E sarà perché ho avuto la strana impressione che nell'emozione che la pronuncia della Cassazione, con le sue assurdità, ha suscitato nel paese ci fosse qualcosa che non andava. Come se fosse la testimonianza del fatto che vent'anni di dibattito sulla giustizia, sul garantismo, sulla logica coercitiva con cui lo stato si ostina ad affrontare i movimenti antagonisti, siano stati più o meno inconsapevolmente rimossi.
Che senso ha sottolineare le contraddizioni e i controsensi nelle accuse di Marino? E' vero, Marino ne ha detto di tutte: ha fatto splendere il sole quando pioveva, ha fatto partecipare latitanti a un pubblico comizio, ha sbagliato il colore dell'auto e la direzione in cui è fuggita e così via, ma tutto questo non inficia i motivi per cui i giudici, a quanto pare, gli hanno creduto. Motivi che si identificano solo e soltanto nel suo status di pentito. Non dobbiamo lasciarci fuorviare da quanto è scritto nei codici sulla "coerenza" e i "riscontri" necessari perché sia data fiducia alle chiamate di correità. Sono belle parole, ma di fatto è da vent'anni che qualcuno ha deciso che ai pentiti bisogna credere sempre, che buona parte della magistratura ha interiorizzato la convinzione di non avere altri strumenti o altre capacità con cui risolvere i casi che le vengono proposti se non attraverso questi malinconici "collaboratori".
Dopo venti anni, non è cambiato niente. Anzi, sappiamo che oggi nessuno è sicuro di fronte a un pentito, nemmeno se è stato quarant'anni al governo. Chi ha assistito alla Prima serata di giovedì scorso avrà notato l'accanimento con cui Vigna e Caselli, con qualche distinguo non significativo, difendevano il meccanismo delle leggi premiali. Quel meccanismo, ricorderete, innestato in nome della necessità di stroncare la lotta armata, è stato rafforzato e istituzionalizzato perché bisognava farla finita con la criminalità organizzata e ha finito per improntare delle sue contraddizioni buona parte della prassi giudiziaria. Niente di strano che lo si applichi, oggi, a persone che, pur imputate di un reato di sangue, con la lotta armata o con la criminalità organizzata non hanno evidentemente nulla a che fare. A Marino si è creduto come si è creduto ai Fioroni, ai Peci, ai Sandalo, ai Barone, ai Savasta.
Cose vecchie, forse. Ma non tanto vecchie da impedire che oggi nelle prigioni italiane, oltre ai miei tre ex compagni, ci siano almeno altri 180 prigionieri politici di vecchia data (per non dire di quelli costretti all'esilio e di quelli che in esilio e di esilio sono morti). E tutti ricordiamo lo zelo con cui per vent'anni la classe politica ha fatto muro contro le timide, ma ricorrenti proposte di dare una qualche "soluzione politica" ai loro casi. Anche l'ultima, moderatissima, proposta di una legge di indulto, che all'inizio della legislatura sembrava avere qualche possibilità, oggi sembra aver fatto definitivamente naufragio. In compenso molti, compresi molti di quelli che si sono sempre virtuosamente opposti a ogni proposta di amnistia, chiedono la grazia per Sofri, Bompressi e Pietrostefani (che hanno dichiarato, con molta dignità di non volerla): evidentemente, perché considerano il loro caso diverso da quello degli altri, in qualche modo più scandaloso. Ma lo fanno anche perché la grazia, con il suo carattere di eccezionalità e, appunto di "gratuità" è un buon mezzo per chiudere un episodio che potrebbe ridestare il classico can che dorme, richiamando l'attenzione su cose che si preferirebbero morte e sepolte. Non sarà un caso se è d'accordo anche qualcuno che l'ha pronunciata. Non credo che si possa condividere questa logica: non sono di principi tanto rigidi da sostenere che sarebbe meglio tenere i miei ex compagni in galera piuttosto che ricorrere a uno strumento così peloso, ma è ovvio che la via da seguire dovrebbe essere altra. Ma non è questo il punto. Il punto è che non bisogna dimenticare che il problema non riguarda solo loro e non può essere risolto solo per loro.
E poi c'è un'altra considerazione. I tre condannati evidentemente, non sono visti dall'opinione pubblica come persone pericolose. Sono ovviamente diversi da com'erano quando sono stati commessi i fatti di cui sono accusati. Questo rafforza, anche dopo la condanna, una certa presunzione di innocenza. Ma io non credo che vadano considerati innocenti. Mi spiego: sono sicurissimo che non hanno avuto nulla a che fare con l'assassinio del commissario Calabresi. Ma questo non significa che siano innocenti. Hanno comunque una colpa grave, che non gli è stata perdonata e che spiega l'accanimento di cui sono stati oggetto. Hanno cercato, a suo tempo, di cambiare la società in cui vivevano, non hanno accettato la logica che la reggeva (e la regge), le gerarchie che vi vigevano, le procedure e le modalità di intervento che esse avevano predisposto. Hanno cercato, come si diceva con qualche inutile pomposità, di "fare la rivoluzione". E, soprattutto non ci sono riusciti, che è, in ultima analisi, il motivo per cui sono finiti come sono finiti.
Certo, in questo dissennato proposito non erano i soli: erano - eravamo - in parecchi. Ma non potevano condannarci tutti, naturalmente. E non ce n'era neanche bisogno. Le condanne politiche, quali che siano i fatti in nome di cui vengono irrogate, hanno sempre una forte valenza simbolica, non riguardano soltanto chi viene occasionalmente spedito in galera, ma chiunque abbia motivo per identificarsi in lui. Ma se sui condannati (sugli sconfitti) ricade la "colpa" del tentativo, anche chi li condanna ha le sue responsabilità. Chi vince vince: il mondo che si ritrova per le mani è quello che ha voluto lui. Bè, si guardino intorno, i vincitori di oggi. Prendano buona nota della ferocia e della fatuità che dominano le nostre (e le loro) vite. E si vergognino.