di NICHI VENDOLA
(deputato Prc e relatore in commissione giustizia delle
proposte di legge sull'indulto)
P ECCATO che gli argomenti seri, e anche tragici, debbano finire sulla graticola dei luoghi comuni. Per esempio l'indulto, e cioè un provvedimento minimo che affronti la questione del residuo carcerario di ciò che fu il "Partito armato". L'ineffabile Tiziana Parenti, che pure vanta attitudini garantiste, dice che no, quell'uscio blindato non si deve schiudere, quei 250 sepolti vivi debbono continuare ad espiare la loro pena, perché la storia del "terrorismo" è ancora piena di penombra, il caso Moro è una carambola di misteri, non sappiamo ancora chi c'era dietro, chi avanti, chi a lato, chi e cosa tramava, chi copriva, chi depistava. Torna quell'ossessione dietrologica, lungamente coltivata a destra al centro e a sinistra, che insegue spasmodicamente contesti cupamente inestricabili e dettagli che riaprono continuamente il "giallo": siamo tutti a chiederci se si sparò in quel dato giorno dal marciapiede o dall'asfalto, chi prese la borsa, chi fittò quel covo, chi si affacciò alla finestra, e poi che ruolo ebbero la Cia e il Kgb e il Mossad, chi tirava i fili, e infine rotoliamo tutti nel cui prodest d'ordinanza.
Quando si placa la febbre delle ricostruzioni esoteriche (un po' Scotland Yard, un po' sedute spiritiche), rispunta inesorabile la polemica sul sangue versato e sulle ferite aperte dei parenti delle vittime, ed è tutto un grondare di lacrime elettorali, un mercimonio indecente di memoria e sentimenti, uno sputo in faccia a chi è vivo e a chi è morto. Riuscirà il parlamento in carica a volare un po' più alto di certa letteratura grandguignolesca? Riusciremo ad aprire il dizionario delle parole che mancano su un pezzo granitico di storia italiana? Riusciremo a coniugare, contro ogni oblio e contro ogni vendetta, il bisogno di memoria con il bisogno di libertà? Me lo chiedo e mi sento mancare l'aria, perché troppe volte ci siamo illusi di aver trovato le chiavi con cui scoperchiare la sepolcrale separatezza del carcere, troppe volte abbiamo osato cercare il diritto e siamo inciampati sempre nel suo rovescio, nella norma emergenziale, nell'opportunità politica che rende prudenti e vili, in quella pochezza e morale il cui viatico è stato la incredibile fortuna del revisionismo storico. Eppure non c'è rifondazione della statualità e della socialità, comunque la si prospetti, che non rischi di pregiudicare se stessa, di avvelenare il proprio codice genetico, se permane il rimosso (e il rimorso) del conflitto anche armato che colpì il cuore degli anni settanta e segnò irreparabilmente gli anni ottanta. Un indulto naturalmente non surroga il deficit di riflessione storico-politica, però un dibattito vero lo propone: i conti con la stagione che riduttivamente chiamiamo "anni di piombo" sono solo l'algebra delle pene irrogate, oppure si può chiudere per sempre questa disumana contabilità penitenziaria, e finalmente aprire il tempo dei rendiconti politici? La vicenda della lotta armata, dal punto di vista di chi se ne rese protagonista, è di una chiarezza solare: tonnellate di libri, documenti, atti giudiziari, parole che dicono il senso e il percorso di una scelta radicale e tragica. I misteri, i chiaroscuri, le menzogne, le mezze verità, non stanno sulle spalle delle Br e delle altre sigle, bensì sulla schiena ingobbita dello stato, sono la verminosa trama di una dimensione istituzionale "doppia", di apparati contemporaneamente al servizio della repubblica e dell'eversione: perché devo chiedere conto a Mario Moretti di come si comportarono i servizi segreti dopo via Fani? O si pensa che Moretti o Gallinari fossero agenti di Cossiga?
Oggi in carcere c'è una sparuta pattuglia di detenuti politici: non sono lì, reclusi in saecula saeculorum, per scontare una colpa specifica, ma sono lì per svolgere il ruolo di "capro espiatorio" di tutti i mali della storia recente. Hanno già scontato una carcerazione lunghissima, per anni hanno conosciuto il rigore cimiteriale della detenzione "speciale", furono condannati con sovrabbondanza di pena per l'aggravante del terrorismo. Per sconfiggerli la legge fuoriuscì dall'ordinario e si fece eccezionale. Fu emergenza. Ma esaurito il ciclo della lotta armata, l'emergenza non fu espunta dalle nostre giurisprudenze: anzi. L'emergenza fu cultura e senso comune e ancora legge: contro i tossicodipendenti, contro gli stranieri, contro ogni devianza. Come si vede il groviglio giuridico annoda a sé questioni politiche e sociali assai scottanti. L'indulto, oggi, non è una conquista di civiltà: è un atto di riparazione che dobbiamo a noi stessi, alle promesse di democrazia, al bisogno corale di uno stato di diritto. In un paese che pratica l'amnistia per le classi dominanti e l'amnesia per le classi subalterne, sarebbe un gesto elementare di decenza. Appunto, un gesto di memoria e di libertà.