di FABRIZIO NIZI * -
M I CHIAMO Fabrizio Nizi, ho 36 anni e lavoro come assistente domiciliare in una cooperativa sociale di Roma, l'Arca di Noè. Nel 1982, quando fui arrestato con l'accusa di "associazione sovversiva e banda armata denominata Brigate Rosse", non avevo compiuto 21 anni. Fui uno dei circa 160 imputati del cosiddetto "Moro-ter", credo l'ultimo dei maxiprocessi sull'attività della colonna romana delle Br dal '76 all'82.
In istruttoria ed in udienza mi difesi. Due "pentiti" mi accusavano e io mi professai innocente; era l'accusa a dover dimostrare la mia colpevolezza, non intendevo offrirla su un piatto d'argento. Ma l'età dell'emergenza aveva abolito per decreto lo stato di diritto e venni condannato a 6 anni e oltre, che divennero quasi 5 con una piccola amnistia per i reati minori. Qualche mese di meno di quanto avevo già scontato nelle condizioni di carcerazione speciale. Mi rimase un piccolo regalino: l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. In poche parole, oltre a non godere del diritto di concorrere in assunzioni pubbliche, il sottoscritto non può votare. Il mio parere, dice il nostro Codice, non interessa.
Lo confesso, non ero affatto innocente; e se questo potrà sollevare il giudice dal dubbio di aver condannato un innocente, non lo solleverà dalla certezza di aver condannato tanti non colpevoli, almeno tanti quanti ne ho potuti conoscere nel mio "turismo penitenziario". Comunque sia, non ero innocente, come non fui dissociato e tantomeno pentito. Entrai nelle Brigate rosse alla fine del '77, quando sembrava ai miei occhi di sedicenne l'unica arma di riscatto che rimaneva. Non dico che questo furono le Br, questo furono per me che avevo incontrato la politica con il movimento del '77. C'è un bel libro su quel movimento, Settantasette, la rivoluzione che viene. Lo dipinge come una sorta di anticipazione delle "virtù" della modernizzazione, come se nel passaggio d'epoca che si consumava ci fossimo comportati nell'unico modo possibile: guastatori di un presente che non sarebbe mai diventato futuro. Non ci difettò il coraggio, ma ugualmente a poco servì, chi doveva non volle rendersi conto di ciò che accadeva, come da tempo scrive Rossanda. Trovammo sulla nostra strada solo i macigni lasciati dal crollo di un intera cultura di riscatto e dignità.
Prima ancora che il progetto politico, quindi, della lotta armata afferrai la possibilità di continuare a lottare, pensando che dovevamo combattere come venivamo combattuti. Oggi può sembrare assurdo, ed in effetti la storia dice che così fu, ma chi ha vissuto questo paese dal dopoguerra in poi sa benissimo di cosa parlo. Qualche studioso la definisce una "guerra civile strisciante... non dichiarata dalle classi dirigenti, in cui in gioco vi erano gli equilibri sociali del paese". Indicativo è il resoconto che ne dà Cesare Bermani in Il nemico interno: solo le stragi provocarono qualcosa come 147 morti e 690 feriti e nel periodo dal luglio '43 alla fine dell'80 furono 414 i dimostranti uccisi dalle forze dell'ordine. Così come circa 400 furono solo i sindacalisti vittime della mafia e 22 i militanti di sinistra uccisi dalla destra tra il '66 e il'79. Per non parlare delle vittime della Legge Reale: 254 morti e 351 feriti dal '75 all'89... Stiamo parlando di qualcosa come 1.500 vittime e 1.040 feriti, che, se non giustificano, sicuramente pongono sotto una luce differente quelle 6.000 persone transitate nelle carceri italiane per fatti connessi alla lotta armata.
Il rachitismo istituzionale di cui è stato affetto questo paese è comprensibile solo alla luce dell'intoccabilità delle leve del potere reale. Questa è stata la molla del conflitto degli anni '70, e questo nodo ritorna oggi più prepotente che mai. Altrimenti non si spiega come né Gladio, né Tangentopoli, tantomeno le inchieste sulla P2, sul ruolo dei servizi segreti e sulle stragi siano motivo sufficiente - e lo sarebbero - di un processo di emancipazione democratica. Quei benedetti e maledetti decenni continuano a condizionare questo paese.
E allora diciamolo: la legislazione d'emergenza è stata l'apripista di un processo di involuzione autoritaria, che, interdendo definitivamente la società reale dal luogo delle decisioni, ha finito per eternizzare il ruolo dei poteri forti fissandolo nel tecnicismo della "governabilità". E' questo il vero nodo costituente, ed ha ragione Pietro Ingrao: nella Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali si sta sancendo definitivamente questo deficit di democrazia sociale. Si sta sancendo cioè la rassegnazione alla diseguaglianza, in linea con il neoliberismo dilagante sul pianeta.
Molte sono le cose da dire e da fare per invertire questa barbarie civile, certo è che fintanto si metterà mano alla cultura emergenziale limitandosi ad eliminare quel tanto di pervasività che ha inquinato il rapporto tra politica, magistratura, mass-media, un taglio autoritario continuerà a segnare qualunque "equilibrio tra i poteri". Bisognerebbe invece che qualcuno spendesse del tempo per dire che nessun progetto nuovo di società può darsi senza che la verità storica faccia luce sui nodi irrisolti di questa nazione. Una volta avevamo una lunga e solida esperienza di culture critiche, sia nel mondo laico che in quello cattolico, di intelligenze vive che sapevano indicare verità e rimossi che non potevano essere ignorati. In questa afosa estate mi chiedo dove sono finite, quale infimo interesse o quale nobile motivazione abbiano suggerito che la già vergognosa e tardiva vicenda dell'indulto fosse commentata nel modo in cui è stata: un oltraggio alla ragione.
Mi domando e vi domando se sia veramente possibile pensare ancora di ridisegnare questo paese prescindendo dalle aspirazioni di settori consistenti della vita sociale, che hanno maturato tutt'altra idea della giustizia. Se si può veramente ignorare quella fitta rete di relazioni solidali, quel variegato universo dei diritti e delle opportunità che dimostra da anni una sensibilità diversa. Parlo dei centri sociali, dell'associazionismo di base, della cooperazione sociale, delle forme di autogestione ed autorganizzazione sociale che cerca e tesse i fili di un inedito "legame sociale", ben sapendo, per averlo sperimentato, che per liberare il futuro e costruire un mondo migliore bisogna sprigionare il presente.
Chi volesse guardare, si accorgerebbe che già la decennale esperienza dei centri sociali dimostra che non si può prescindere da queste inusuali forme di rappresentanza sociale. Non fosse altro perché nel deserto delle sedi e dei circoli rappresentano un'esperienza che, seppur minoritaria, è tra le poche a reggere il confronto con la Lega e con la destra. Luoghi di frontiera ma anche di democrazia diretta e radicale, dove alberga la convinzione che c'è un altra strada oltre quella degli odi etnici e dei particolarismi. Una strada che cerca di coniugare partecipazione e conflitto, radicamento locale e visione globale: un'idea nuova di civiltà che cammina con il protagonismo dei senza diritti, degli esclusi di sempre.
Quello stesso protagonismo che animò la battaglia contro l'uso dell'energia nucleare, ben prima che i centri sociali diventassero un fenomeno di massa; così come la prima campagna nazionale contro il proibizionismo e la Craxi-Jervolino. Lo stesso che fu contro la guerra nel '91. Quello della battaglia per l'utilizzo sociale del patrimonio pubblico abbandonato, per il diritto alla casa e per i diritti di immigrati, nomadi, senza lavoro... Lo stesso protagonismo che ha portato 20 mila persone a Napoli in occasione della Conferenza nazionale sulle droghe, come anche a Roma il 10 maggio scorso per ricordare Giorgiana Masi. E poi il treno per Amsterdam, quel "territorio liberato" lanciato contro l'Europa di Maastricht: diritti contro esclusioni.
Oltre ogni ragionevole dubbio dovete convincervi che esistiamo, che non è più sufficiente considerare quest'area come qualcosa di scomodo e ingombrante; noi ci prendiamo tremendamente sul serio. Sarà il caso che si cominci a prendere in considerazione l'idea di cancellare interdizione dal vocabolario.
Faccio una proposta, anzi due.
La prima: tra settembre e ottobre la proposta di indulto dovrà passare il vaglio della Commissione affari costituzionali della Camera. Propongo di costruire per l'occasione qualcosa di simile ad un "convegno sugli anni '70", in cui proviamo a rimettere i fatti con i piedi per terra, tutti. Potrebbe essere la sede giusta da cui indicare il 12 dicembre come occasione per una grande manifestazione nazionale, a Milano, per la giustizia e la verità.
La seconda: abbiamo detto che in tema di giustizia corrono diverse interpretazioni. Anche noi abbiamo le nostre, a volte vicine ad alcuni segnali provenienti dal Palazzo - ad esempio la "riduzione del danno" in tema di tossicodipendenza - altre volte lontane. Nondimeno vorremmo discuterle. Prima tra tutte, la necessità di un provvedimento oggettivo, senza discriminazioni ne condizioni, che liberi gli anni '70, ora. Ma anche del resto della legislazione d'emergenza, di depenalizzazione dei reati minori, di incompatibilità tra carcere e Aids, ecc. Costruiamo una sede di dibattito ampia, sulla giustizia, in cui il parere della società reale sia visibile e di indirizzo.
Questo giornale, e questa è la terza proposta, potrebbe essere il portavoce di queste idee: quando vuole, sa farlo.
* del centro sociale Corto Circuito di Roma, della rete "Sprigionare"