Il Manifesto - 16.10.96

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Stato d'eccezione

La legislazione cresciuta negli anni di piombo ha significato l'elevazione a suprema legge della ragione di stato

di GIUSEPPE BRONZINI - MAURO PALMA

I L DELITTO POLITICO è, nei nostri ordinamenti giuridici, una forma "incivilita" del premoderno crimen laesae majestatis: un'accusa, quest'ultima, che comportava, in nome della ragione di stato, speciali e sollecite - in quanto sommarie - procedure. Ma, negli stati costituzionali questa eredità è vissuta contraddittoriamente: se in genere i codici penali prevedono reati contro la personalità dello stato e particolari aggravanti per finalità eversive, d'altro canto i trattati di estradizione o escludono del tutto i delitti a fine politico o ne vincolano la concessione a parametri molto restrittivi.

La categoria del "reato politico" costituisce così il presupposto sia per una particolare asprezza della risposta penale sia, al contempo, per una sua attenzione. Tali delitti rappresentano comunque qualcosa di scomodo, di indigesto; manifestano una loro disomogeneità rispetto alle altre ipotesi incriminatrici.

Salute pubblica

Non si tratta solo del sospetto che, per il pensiero giuridico liberale, circonda tutte le imputazioni nelle quali è implicato il credo politico dell'accusato, ma di qualcosa di più profondo che attiene al funzionamento in sé degli ordinamenti giuridici. Come sostiene il più grande giurista di questo secolo, Hans Kelsen, i sistemi penali si sviluppano paradossalmente in un rapporto dialettico tra norma e devianza. La norma ha il suo fondamento proprio nella possibilità di esser violata: se spontaneamente le regole della convivenza venissero sempre e comunque osservate, non occorrerebbe sanzionarle.

Per contro, le violazioni non devono essere così socialmente generalizzate da far sì che non si possa più parlare di "diritto valido", cioè efficace nel suo complesso: se nessuno più obbedisse alle leggi, di certo la legalità non potrebbe essere ripristinata repressivamente. La vita ordinaria del diritto penale si svolge, quindi, nell'area grigia della semiplena obbedienza e contempla nella sostanza un reo che viola specifiche norme, senza mettere però in questione il loro insieme e l'ordinamento in quanto tale.

Questo non è lo schema in cui rientrano in generale i responsabili di delitti a fine politico. Non vi rientrano certamente i protagonisti della stagione eversiva dei cosiddetti "anni di piombo", dichiaratamente avversari dello stato in sé, per i quali la commissione di singoli reati era esplicitamente rivolta all'attuazione di un piano sovversivo generale. Lo stato li ha trattati in primo luogo come "nemici", cogliendo questo elemento di straordinarietà nel loro attacco alla legalità ed individuando come obiettivo prioritario non già la persecuzione di specifici delitti, bensì l'eliminazione o la neutralizzazione del disegno in cui questi si inserivano.

Una prioritaria ragione politica, la ciceroniana salus rei publicae, suprema lex, ha così guidato le scelte giuridiche di quegli anni: dal rispolvero del vecchio armamentario sui reati associativi contemplati nel vecchiocodice Rocco, alla introduzione di nuovi tipi delittuosi disegnati attorno alla finalità di terrorismo, alla ipervalutazione dell'atteggiamento processuale del singolo - il suo schierarsi o meno con la tesi dell'accusa -, sino all'estensione abnorme della responsabilità degli associati per concorso morale.

Del resto l'oggettiva diversità che, come si è detto, caratterizza la modalità statuale di repressione dei delitti politici spiega la tendenza pressoché costante negli ordinamenti a perdere la "misura" dell'intervento punitivo nell'immediatezza dei fatti. Ma spiega altresì la simmetrica tendenza di tutti gli ordinamenti a cancellare, una volta cessato il pericolo, ogni residuo di un conflitto così anomalo e straordinario: si ricercano e si praticano soluzioni tendenti a riassorbire nel corpo sociale i protagonisti dello scontro ormai concluso.

Memoria di stato

E' Aristotele a lodare la prima damnatio memoriae che si ricordi nella storia, l'amnistia concessa dal democratico ateniese Trasibulo (all'alba del V secolo a.C.), osservando che gli ateniesi "seppero adattarsi alle sventure che li avevano colpiti, nel modo più nobile e più conforme allo spirito di un buon cittadino".

Nella vicenda italiana, l'allontanamento dal modello ordinario e la progressiva adozione di un modello d'eccezione, che ha rischiato di dilatarsi a schema generale, l'obiettiva iperpenalizzazione per alcuni e la parallela quasi-amnistia per altri - frutto, quest'ultima, della legislazione premiale per i collaboratori -, pongono oggi un grave problema di squilibrio nel sistema penale e di alterazione del disegno costituzionale. Peraltro, il definitivo, consolidato, scioglimento di tutte le associazioni eversive, la distanza dagli episodi giudicati, i radicali mutamenti intervenuti nel contesto sociale, istituzionale, culturale nell'ultimo quindicennio, costituiscono l'innegabile scenario in cui può essere sensatamente individuata un via di recupero del ruolo ordinario della funzione penale e di ritorno nel corpo sociale dei "nemici" di un tempo.

E' questo un problema colto, nei mesi scorsi, anche dalle supreme autorità dello stato che, in vari modi e, pur con qualche timidezza, hanno auspicato provvedimenti di clemenza.

Tali provvedimenti, del resto, non costituiscono di certo una forma di oblio: i processi e le relative responsabilità individuali e collettive sono già stati definiti ed il più efficace mantenimento della memoria risiede anche nell'elaborazione e nella compiuta ricostruzione di un periodo della nostra storia recente, oggi rese ardue dal permanere della centralità del piano strettamente punitivo.

Rientro alla normalità

La soluzione da adottare - per essere effettivamente risolutiva - deve però avere alcune caratteristiche, che è bene puntualizzare, in questi giorni di stentato avvio della discussione parlamentare sulle proposte di indulto.

Innanzitutto, non si giustificherebbe assolutamente un'ulteriore riproposizione di una linea discrezionale basata sui comportamenti o sulle dichiarazioni dei soggetti, sia perché, "a guerra finita", non può esserci alcun interesse a tentare di dividere uno schieramento avverso ormai inesistente, sia perché si ripercorrebbe la logica emergenziale che invece occorre rapidamente superare.

Inoltre il segno di un cambiamento di rotta e di rientro nella normalità può derivare solo dalla reale efficacia del provvedimento, dalla sua attitudine a costituire una modalità, questa volta il bonam partem , di formalizzazione della motivazione politica del reato.

Infine, tale intervento non può lasciare irrisolte contraddizioni tuttora laceranti: è singolare che anche i commentatori più attenti al problema abbiano tralasciato la questione, di indubbia rilevanza, di coloro che si sono sottratti all'arresto e risiedono fuori del territorio nazionale.

Abbandono forzato

Va ricordato che il fenomeno del recesso dall'esperienza armata ha coinvolto anche questi gruppi di imputati: di nessuno di essi si è lamentata la commissione di reati o anche solo una perdurante pericolosità sociale da parte dei paesi ospitanti, che in moltissimi casi hanno addirittura concesso un regolare permesso di soggiorno. Non può inoltre essere trascurato il fatto che il forzato abbandono di affetti, lavoro, luoghi di appartenenza ha anch'esso una afflittività che ne rende impossibile l'assimilazione alla libertà tout court.

La rimozione del problema lascia piuttosto sconcertati: quale sarebbe il significato e l'esito di un provvedimento di chiusura dell'emergenza che mantenesse immutata la condizione di un numero alto - addirittura superiore a quello degli attuali ristretti in carcere - di soggetti coinvolti?

I tempi sono maturi per affrontare anche questo nodo, nella convinzione che un gesto realmente risolutivo non sarebbe un atto di debolezza ma il segno di una capacità democratica di rinnovamento e sviluppo delle istituzioni.

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