MARIO ISNENGHI GIOVANNI PALOMBARINI
C' E' UN EQUIVOCO, nel dibattito sull'indulto e sulle ragioni che sconsiglierebbero l'adozione di un simile provvedimento, che dev'essere chiarito.
C'è chi all'indulto si oppone perché non si conoscerebbe ancora tutta la verità sugli avvenimenti degli anni Settanta, perché almeno per quelli più importanti sarebbero rimasti degli aspetti non conosciuti, non esplorati. In altre parole: perché si suppone che, al di là di ciò che è emerso dai processi, ci potrebbero essere responsabilità diverse e forse più grandi di quelle accertate, si sospettano ragioni più gravi e forse politicamente più rilevanti di quegli avvenimenti.
Ebbene, a questo tipo di argomentazione bisogna rispondere che la verità - per quanto riguarda i soggetti che hanno praticato la lotta armata, i motivi che li hanno spinti ad agire, gli aspetti delle loro varie iniziative (compresi il sequestro e la successiva uccisione di Aldo Moro) - è ormai largamente conosciuta; e che ripetere oggi "chissà cosa c'era dietro" è un assunto immotivato.
Il fatto è che un atteggiamento di questo genere è il frutto di quella stessa cultura che vent'anni fa portava politici e politologi, sindacalisti e commentatori vari, a negare il carattere geneticamente autoctono, spontaneo e originale del fenomeno che a partire dall'inizio del decennio andava maturando. Si ricorreva, allora, alle spiegazioni più diverse, sempre però di natura complottarda: fascismo mascherato, strategia della tensione in forme nuove, manovre nazionali e internazionali (Cia, Kgb, ecc.) per impedire alle forze popolari l'accesso al governo del paese. E ogni avvenimento - in particolare via Fani - doveva necessariamente avere una spiegazione diversa e più complicata di quella che immediatamente appariva, di quella che veniva dichiarata dai protagonisti diretti.
Eppure i dati che erano sotto gli occhi di tutti a un certo punto avrebbero dovuto indurre a un ripensamento, a una valutazione forse più amara e in qualche misura autocritica, ma di certo più aderente alla realtà. La specificità di quei dati lasciava davvero poco spazio all'ipotesi della manovra o del complotto. Senza che vi fossero alla base motivazioni di carattere religioso o nazionale, come avveniva in altri paesi dell'Europa occidentale, una serie di organizzazioni diverse - che in misura non trascurabile trovavano le loro radici nella storia delle sinistre italiane - hanno cominciato a proporre, in modo e con strategie diverse, la strada della lotta armata come l'unica percorribile per il cambiamento politico-sociale a partire da un'analisi impietosa che considerava comunque impraticabili, se non addirittura nemiche di ogni avanzamento, le forme della democrazia e le organizzazioni storiche del movimento operaio. Non si trattò di qualche centinaio di persone, più o meno fanatiche, ma di migliaia e migliaia di donne e di uomini, in larga misura giovani, di varia origine sociale (studenti e operai, professori e disoccupati), che a un certo punto decisero di mettere in gioco il proprio futuro, la propria esistenza. E il fenomeno non è durato un giorno, ma un decennio pieno. Come si può pensare a qualcosa di indotto dall'esterno e di artificiale?
Del resto, prima con il pentitismo, poi con la dissociazione, infine con la critica argomentata di quell'esperienza, in atti processuali innumerevoli e sui media sono state raccolte le spiegazioni dei protagonisti, grandi e piccoli: e di complotti o di responsabilità ulteriori non v'è traccia.
Ecco perché non ha senso alludere oggi a sinergie e implicazioni misteriose, a grandi vecchi che sarebbero rimasti nell'ombra. Bisognerebbe invece porsi finalmente la domanda del perché la più grande spinta al cambiamento che il nostro paese ha conosciuto, quella del triennio 1968-70, sia finita com'è finita: con il ripiegamento nel privato, con trasformismi di vario tipo più o meno patetici o tracotanti, o, appunto, nella tragica illusione della lotta armata. Questo problema, che solo alcuni intellettuali hanno affrontato, è stato sempre rimosso da partiti, sindacati, grande stampa, che tuttora non ne vogliono sentir parlare. Ciò non significa tuttavia che si possa nascondere la realtà degli avvenimenti, che sono stati quelli che sono stati e che sono ormai conosciuti. Certo, aspetti poco chiari dei fatti di quel tempo permangono ancor oggi; ma riguardano lo stato e il comportamento tenuto in alcune occasioni dai suoi rappresentanti, piduisti e non. E questo non ha nulla a che fare con l'indulto di cui si parla ormai da lunghi anni.
Infine, un ultimo interrogativo, di carattere storico e comparativo: perché mai, a un solo anno dal 1945, un governo nato dalla Resistenza ha la forza e la volontà politica di concedere l'amnistia (molto più dell'indulto) ai fascisti, avversari delle istituzioni dall'estrema destra; e invece a vent'anni dai fatti, nessun governo se l'è ancora sentita di dare l'indulto ad avversari delle istituzioni dall'estrema sinistra?