di Mauro Palma
SONO MOLTE le voci istituzionali che, pur in modo diverso e con qualche cautela, si sono recentemente espresse per chiedere un provvedimento legislativo di chiusura dell'eredità pesante lasciataci dalla passata stagione dell'emergenza antiterroristica. Eredità sul piano dei destini individuali ed eredità sul piano di un ordinamento e di una cultura della giurisdizione usciti profondamente segnati dalla legislazione di quel periodo.
Voci diverse, quindi, ma convergenti quanto meno su alcuni punti. Sulla necessità di prendere atto dell'irreversibile discontinuità con una stagione ormai passata della storia del Paese e di voler marcare tale discontinuità con un provvedimento legislativo di riconciliazione; sulla necessità di recuperare quella sovradeterminazione delle pene che ha caratterizzato i processi dell'emergenza, in virtù sia di norme appositamente emanate che di prassi autonomamente affermatesi; sulla necessità di chiudere con il lessico della giustizia e della punizione per dare possibilità di espressione al linguaggio della ricostruzione storica e politica; sulla necessità di recuperare alla vita sociale i nemici di un tempo, sanando così una lacerazione profonda, anche generazionale; sulla necessità, infine, di non dimenticare.
Sono queste le motivazioni che sostengono una proposta di
legge di indulto che ha ormai attraversato quattro legislature e
che ora sembra iniziare l'effettivo cammino parlamentare.
Un po' di cautela ed un certo scetticismo sono d'obbligo: la
modifica apportata all'articolo 79 della Costituzione all'inizio
di questo decennio prevede che provvedimenti di amnistia o di
indulto devono essere approvati con il voto favorevole della
maggioranza dei due terzi degli aventi diritto, su ogni singolo
articolo e sul testo complessivo. Una norma rigida che ha tolto
al sistema penale e penitenziario quel margine di flessibilità e
di regolazione che tali strumenti rappresentano in ogni
ordinamento; soprattutto una norma che richiede che le voci
consenzienti costituiscano un unisono e non solo l'espressione di
singoli, e che la dichiarata disponibilità di alcuni si traduca
in un impegno concreto all'interno dei propri gruppi
parlamentari.
Nelle prossime settimane si capirà se c'è tale impegno o se la ricerca di una soluzione è semplicemente enunciativa e si limita a prendere atto dell'impossibilità di mantenere una posizione rigidamente reclusoria verso contraddizioni che altre democrazie hanno da sempre risolto con strumenti più duttili. Tuttavia è bene entrare nel merito della proposta su cui si confronterà la commissione giustizia della camera e che questo giornale ha riportato nei giorni scorsi. Alcuni parametri aiutano a capire se il provvedimento ha una effettiva connotazione di "chiusura" o se è invece destinato ad aprire nuove contraddizioni e a prefigurare necessità di successivi interventi. Sono parametri che si desumono dalle due eredità dell'emergenza: occorre un provvedimento realmente risolutivo, almeno nel medio periodo, nei confronti di tutti i soggetti destinatari ed occorre un provvedimento che dia un segnale di controtendenza rispetto ai paradigmi di cultura penalistica affermatisi in quegli anni.
Rispetto alla prima eredità, bisogna ricordare sia gli interventi legislativi di allora, che hanno introdotto nuove figure di reato, nuove previsioni di pena ed automatismi tali da allineare tutte le pene sui massimi edittali, sia l'esclusione dei condannati per fatti di lotta armata da ogni provvedimento di clemenza adottato negli anni Ottanta. E' d'altronde la finalità politica dei reati a comportare sempre maggiore durezza fintantoché esiste il conflitto, ma è altresì tale finalità a giustificare, simmetricamente, la clemenza e la volontà di sanare la lacerazione che esso ha inevitabilmente determinato. Da qui la necessità di prevedere un provvedimento consistente ed effettivamente in grado di rivolgersi a tutti coloro che sono stati protagonisti di quel conflitto.
La seconda eredità ci ha consegnato una progressiva deformazione di un diritto penale non più centrato sui "reati" ma sempre più centrato sui "rei", sulle loro soggettività, sul loro aderire o meno alle ipotesi accusatorie, sulla persistenza o meno della loro antistatualità. Il luogo di questo mutamento "sostanzialistico" del nostro diritto penale è stato il processo, sempre più connotato come momento offensivo, di lotta al fenomeno terroristico o alle altre successive emergenze, e sempre meno come momento informativo e forte della sua terzietà. Lo strumento principale è stata la legislazione premiale che ha determinato di fatto - senza peraltro particolare scandalo dell'opinione pubblica - la quasi impunità di responsabili anche di efferati delitti, solo sulla base della propria disponibilità ad abiurare e collaborare. Da qui, quindi, la necessità di inviare un segnale opposto, attraverso un tipo di provvedimento che non dia spazio ad ulteriori discrezionalità o ad una nuova rilevanza di comportamenti e posizioni individuali.
I parametri di analisi sono quindi riassumibili in tre: la
consistenza, cioè l'effettiva incidenza sulle carcerazioni e
sugli esilii; la generalità, cioè la sua automatica
applicazione; la definitività, cioè la possibilità di non
rinviare ad altri interventi successivi e di lasciare finalmente
lo spazio alla rilettura, al confronto e all'analisi politica
delle scelte di allora.
E', infatti, positiva la scelta proposta sulla riduzione delle pene che, qualora il provvedimento venisse approvato in questa formulazione, comporterebbe la possibilità di uscita verso la metà del prossimo decennio della grande maggioranza degli attuali detenuti per quei reati. Tuttavia, tale riduzione non si accompagna con due strumenti che ne renderebbero ben più significativa l'efficacia e l'incisività. Il primo è la possibilità di indulto totale per i reati riguardanti l'organizzazione delle bande armate, o la partecipazione ad esse, e il loro armamento, essendo questi reati tipicamente riferibili ad un preciso momento storico e, quindi, più contestualizzabili nel tempo (tale previsione era invece presente nella proposta Manconi al senato e nella proposta Cento alla camera); il testo si limita alla considerazione solo dei casi in cui tale partecipazione non è stata accompagnata dall'accusa di commissione di reati specifici e, come è noto a chi ha analizzato il problema, si tratta di casi numericamente inconsistenti. Il secondo è la riduzione dei termini di prescrizione dei reati, unico strumento in grado di offrire un limite temporale credibile anche a coloro che si sono sottratti alla cattura e la cui vita in questi anni se, come è ovvio, non può essere assimilata alla detenzione, non può esserlo neppure alla libertà.
Il rischio è, quindi, di rinviare ad un intervento successivo il problema di chi è fuggito all'estero e, conseguentemente, di non ottenere quella caratteristica di definitività del provvedimento che invece si vorrebbe perseguire.
Positivamente va inoltre considerata la possibilità di calcolare, ai fini dell'applicazione dei benefici previsti dalla legge Gozzini e per coloro che non si sono sottratti alla carcerazione, i periodi trascorsi nelle varie fasi di processo in situazione di libertà: l'effetto ottenibile è quello di non far "cominciare da zero" il percorso carcerario di coloro che sono stati arrestati in tempi molto distanti dall'inizio della propria avventura processuale, ma di prevedere per essi un più accelerato avvio verso le misure alternative. Anche da questo punto di vista, tuttavia, la cautela appare eccessivamente ampia, non prevedendo la possibilità di far scontare da subito i residui di pena in una forma alternativa alla carcerazione (proposta Pisapia).
Nel complesso, il risultato attuale è quello di un provvedimento che si inserisce in un giusto solco, ma che richiede forti interventi emendativi. Risponde, infatti, ad un criterio di automaticità - ne è garanzia lo stesso strumento scelto, l'indulto -, risponde parzialmente al criterio di effettiva consistenza, non risponde a quello di definitività.
Ed è forse quest'ultimo il punto su cui maggiormente occorrerà sviluppare il confronto culturale nel percorso accidentato che il provvedimento si appresta ad intraprendere: uno stato politicamente forte, un sistema istituzionale che, per più aspetti e in più sedi, vuole segnare una svolta nel proprio tessuto ordinamentale (al punto di aver coniato l'espressione "seconda Repubblica") dovrebbero avere interesse a chiudere effettivamente le lacerazioni pregresse, ben sapendo che tale chiusura non è segno di oblìo, bensì premessa della capacità di rilettura politica delle proprie ferite e di rielaborazione consapevole dei propri lutti.