La Repubblica - 04 luglio 1997

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DOBBIAMO GRAZIARE GLI ANNI DI PIOMBO?

di Giorgio Bocca

DA CHE mondo è mondo le amnistie e le grazie generali sono state motivate dalla   convenienza più che dai buoni sentimenti. La repubblica doveva ancora darsi una legge costituente e per diverse convenienze comunisti e democristiani erano già disponibili a un atto di clemenza e di pacificazione verso i fascisti di Salò. Perché essi si contavano fra combattenti e simpatizzanti a milioni e non c'erano carceri sufficienti per contenerli e perché i due partiti chiesa e di potere, il comunista e il democristiano, contavano di conquistarli  elettoralmente, specie per decidere il referendum sulla monarchia.

 Quella amnistia poteva piacere o non piacere  all'antifascismo, ma rientrava nell'ordine delle   convenienze nazionali. Una grazia e una  amnistia generali sugli anni di piombo non   sembrano rispondere a questa superiore  convenienza.

Non c'è nessun bisogno politico di chiudere la partita con qualcosa che non era politicamente vivo neppure nei giorni della sua geometrica potenza, come la definì il professor Piperno. Il terrorismo rosso era una fine, una liquidazione di una età rivoluzionaria che aveva perso ormai la sua forza propulsiva. Non un fenomeno minore, secondario ma un fenomeno senza domani, non una sovversione creatrice ma una convulsione distruttrice. Se il terrorismo rosso c'è stato vuol dire, si intende, che c’erano dei motivi perché ci fosse. Chi come noi ha cercato di capirli non è mai andato oltre a quelli generazionali e psicologici, non è mai riuscito a individuare uno zoccolo ideologico accettabile. Il terrorismo rosso non è stato neppure giustizialismo, non è stata una anticipazione armata di tangentopoli, non ha mai colpito i personaggi simboli della corruzione e della degenerazione democratica, ha sempre colpito i democratici migliori, avvocati, giornalisti, giudici, funzionari, poliziotti, dirigenti industriali e capi officina, docenti che facevano il loro dovere. Ed essendo una convulsione finale invece che una sovversione creativa ha arrecato alla democrazia italiana un danno enorme, ha avuto una colpa più grave di tuffi i reati, ha prolungato di dieci anni la partitocrazia consociativa, ha permesso che arrivasse a una involuzione di cui anche oggi stiamo pagando i prezzi.

Che si trattasse di una fine e non di un principio sembra dimostrato dalla nullità culturale del fenomeno che neppure in questi anni di riflessione è riuscito a produrre una sua storia. E anche questa nullità culturale rende meno superabile il veto alla grazia generale posto dai familiari delle vittime, per i quali non è una attenuante che i loro cari siano stati uccisi senza serie ragioni.

Dunque nessuna grazia generale che significherebbe un riconoscimento politico. Pare invece degno di un paese civile sia l’aver riconosciuto ai brigatisti anche negli anni di piombo le garanzie che uno Stato di diritto deve concedere anche ai suoi avversari sia una risposta cristiana alla ferocia astratta e stupida delle risoluzioni strategiche e delle loro fantasie macchiate di sangue sul capitalismo immaginato come una Spectre, il mitico diabolico Stato delle multinazionali. Una risposta umana alle massime disumane e di una presunzione folle con cui si giustificavano gli omicidi. Dunque la grazia caso per caso si. A quelli che hanno già pagato prezzi durissimi, decine di anni di carcere duro; a quelli che in un paese in cui non esiste la pena di morte chiedono di poter vivere, di farsi una famiglia, di trovare un lavoro, che è il senso della grazia chiesta da Valerio Morucci.

Caso diverso è quello di Adriano Sofri. Con Adriano Sofri non siamo a un problema di clemenza ma a un problema di giustizia. Sulla bilancia della giustizia e della democrazia gli errori e le colpe di Adriano Sofri appaiono ampiamente compensati dai meriti. Di fronte a un processo e a una condanna poco convincenti ci sono dei fatti politici e umani decisivi: lo scioglimento di Lotta continua prima che imboccasse lo scivolo del terrorismo, e poi anni dedicati alla difesa delle libertà, dei diritti umani, della giusta informazione, tanto più meritevoli nella loro umiltà per un personaggio nato e cresciuto con grandi ambizioni. Sofri ha giustamente distinto la sua posizione da quella dei brigatisti. Fosse solo perché di tutto il campo rivoluzionaristico e sovversivistico è l'unico che dica cose culturalmente degne. Forse l'unico che potrebbe scrivere la storia di quegli anni. Mi occorre il dovere di dirlo di uno che mi è stato sempre cordialmente antipatico.

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