La Stampa - 03 agosto 1997

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OPPORTUNITA' POLITICHE E VALORI MORALI. LA DEMOCRAZIA E IL TERRORISMO

di Barbara Spinelli

S I parla spesso di voltare pagina in Italia, a proposito del terrorismo e di tanti eventi cui la nazione ha partecipato in questo secolo. Si parla di azzeramento di conti, di azzeramento di conflitti che oggi appaiono indecifrabili, perché indecifrati. Alcuni dicono addirittura che una guerra è finita: che questa è l'ora della serenità senza più pathos , dell'indulgenza per i vinti. D'altronde anche la guerra autentica è stata d'imperio conclusa - quella che oppose fascisti e antifascisti - e dunque perché non concludere anche l'evento minore che fu l'offensiva armata contro la democrazia, tra gli Anni 70 e 80. L'orrore che suscita la punizione tende a dilatarsi, fino a quasi sommergere l'orrore per il crimine, l'orrore per le idee che acuminarono le lame, la memoria delle vite che in nome di quelle idee furono spezzate, e sprezzate. L'indulto proposto dalla Commissione Giustizia della Camera non è di per sé insano, perché contempla forme di clemenza che non aboliscono la condanna. Ma resta una singolare sensazione di malessere: una sensazione di sbigottimento, di vana attesa di parole che non vengono, come può accadere a chi assista a un lutto che vien smesso troppo sbrigativamente, e che non insegna nulla.

Non manca solo la cura e la gratitudine memore verso le vittime. Non è questione solo di risarcimenti, di debiti pecuniari. Questi peccati di omissione esistono, ma anche di altro si sente la mancanza, nelle odierne discussioni. Si sente la mancanza di un pensiero profondo in chi reclama indulgenza: di un pensiero su quel che allora fu fatto e su perché fu fatto, su quel che fu pensato e su perché fu pensato. Si sente la mancanza - in numerosi ex terroristi o ex fautori della violenza - di una vera riflessione su se stessi, su quello che fu il loro rapporto con la morte dell'altro, su quel che fu il loro rapporto con un'ideologia totalitaria che rendeva tanto fatue queste morti, su quel che fu il loro accecamento mentale. Si sente la mancanza dell'occhio di Edipo sui propri misfatti, dell'"occhio di troppo" come lo chiama Holderlin: occhio che permette di avere orrore di sé e di divenire non già sereni alla maniera di Heidegger - immersi nella Serenità Ultima della Gelassenheit - ma che aiuta a vedere le tenebre, a meditare con saggezza sul passato e su quel che da esso si può imparare per il futuro.

Tutte queste parole si attendono, e invece non si parla che di guerre finite, di obblighi dei vincitori e di diritti dei vinti. Toni Negri quando insiste su questo concetto del perdente non è sfiorato da idee di colpa, di responsabilità. Non ha l' occhio di troppo e somiglia piuttosto a Giocasta, che implora Edipo di smettere le fatali indagini su se stesso, di conservare illusioni e potere. Se i violenti avessero vinto la guerra , Negri non avrebbe motivo oggi di chiedere alcunché. Sarebbero vittoriose le sue idee, che non sono oggetto di ripensamento ma sembrano accantonate per necessità esterne. E' come se D'Alema annunciasse un giorno che i comunisti "hanno perso la loro secolare battaglia", e perciò hanno cambiato nome, senza bisogno di radicali revisioni. Precisamente questo crea imbarazzo, nella nuova vocazione italiana a dimenticare le colpe, fasciste comuniste o terroriste: si ragiona solo in termini di successo e insuccesso, di fortune o sfortune in qualche esoterico gioco d'azzardo. Si immaginano guerre banali tra Signorie rivali, al termine delle quali c'è colpevolizzazione di tutti e subito dopo scagionamento di tutti. Gianfranco Fini disse una volta: "Non spetta a me condannare Mussolini. E' stata la storia a condannarlo, a vincerlo". Così Toni Negri, che giudica superato il terrorismo in quanto sconfitto. Così anche Nichi Vendola, deputato di Rifondazione, che ha redatto la proposta di indulto e che dichiara a Guido Tiberga su La Stampa che "il discorso [sul terrorismo] è più ampio. Qui stiamo parlando di 224 persone che hanno fatto una scelta criminale, ma in un momento in cui la nostra democrazia era tutt'altro che limpida. Non dimentichiamo che quelli erano gli anni dello stragismo, del sovversivismo dall'alto". Dunque c'era qualche giustificazione, nella scelta di infliggere sofferenze e morte. Dunque la lotta continua, intima compagna, contro una democrazia che non viene ringraziata per come ha resistito. E continua, subdolo, l'autoaccecamento mentale. Per i comunisti il Discorso è stato sempre " Più Amplio , Più Complicato ", di quanto dicessero le nude cifre dei loro morti, i nudi fatti dei loro Gulag.

Di qui il malessere, l'impressione di essere avvolti da un chiacchierare enorme, e vacuo. Si vorrebbe sapere come mai le rivolte del '68 partorirono mostri in Italia e Germania, e come mai invece la Francia si fermò in tempo, sull'orlo del baratro, con la sapienza di chi sa l'arte dell'autolimitazione, della rinuncia. Si vorrebbe sapere il motivo di itinerari sì diversi, per apprendere qualche saggezza di fronte a nuovi abissi. Non mancarono gli autoaccecamenti in Francia, ma esistevano anche vaccini potenti, contro la tentazione di prendere la morte alla leggera. Il più potente vaccino fu l'anticomunismo, di cui era impregnato il maggio '68 e che continuò anche dopo, quando nacque il gruppo estremista - e potenzialmente terrorista - chiamato Sinistra Proletaria. Cohn-Bendit che fu l'anima del '68 aveva idee precise: quando si rivolgeva ai comunisti, li chiamava invariabilmente crapules staliniennes , canaglie staliniane. Un giorno impedì al poeta Aragon di prendere la parola in un'assemblea: "Perché sui tuoi capelli bianchi - disse - c'è il sangue dei morti nei campi comunisti, e di questo devi parlarci". Non era l'anticomunismo di cui oggi si vanta Negri, sullo Spiegel . Nel '74, quando la Gauche Proletarienne già si era autodissolta, Negri dichiarava che il "vero nemico" da abbattere era la socialdemocrazia , incarnata dal partito comunista italiano. Non c'era nostalgia di stalinismo e leninismo, in Cohn-Bendit e nei ribelli francesi, ma i primi segni di antitotalitarismo. Lo stesso antitotalitarismo che li indusse a non divenire terroristi. Già nell'agosto '68 i contestatari sfilarono a Parigi, contro i carri armati a Praga, mentre italiani e tedeschi studiavano Lenin in vacanza. Poi venne una data decisiva, nel '72, quando Settembre Nero uccise gli sportivi israeliani nell'attentato di Monaco. I terroristi tedeschi esultarono, gli italiani approvarono. Solo i francesi - Sinistra Proletaria compresa - condannarono il terrorismo palestinese.

Ma la svolta cruciale avvenne dopo, per la Francia. Avvenne nel '74, in piena occupazione della fabbrica Lip, quando Aleksàndr Solzenicyn fu espulso dall'Urss. L'espulsione divenne tema dominante nei dibattiti, e Glucksmann che in passato aveva fatto parte della Gauche Proletarienne pubblicò il 4 marzo un articolo giudicato esplosivo: "Il marxismo rende sordi", si intitolava. Cominciava quello che poi si chiamerà, in Francia, l'effetto Solzenicyn. Apparve l' Arcipelago Gulag , e le menti ne furono sconvolte. Non perché la testimonianza sui campi fosse inedita, ma perché Solzenicyn diceva: io ho avuto questo tumore, io ho avuto il Comitato Centrale conficcato nel cervello. Solzenicyn fu l'occhio di Edipo, che aiutò una generazione a vedere se stessa. In Italia non incontrò che indifferenza, noia.

Naturalmente ci furono altri motivi, che impedirono il terrorismo su vasta scala. Ci fu un più forte senso dello Stato, ci fu la tradizione dell'antifascismo gollista. Ci fu un comportamento prudente, intelligente, da parte della polizia e della giustizia. C'erano intellettuali magari autoaccecati ma che imponevano l'uso della parola: come Sartre, Foucault, Glucksmann che nel '56 era stato espulso dal pc. Ma soprattutto ci fu la rinuncia, che per Freud è "elemento essenziale della moralità" ( Dostoevskij e il parricidio , 1927). La rinuncia che da noi è mancata, e che oggi ci condanna a inespiabili espiazioni dostoevskiane. Perché Freud non ha torto: "Morale è chi già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, e ad essa non cede. Colui che prima si macchia di una colpa e poi, una volta in preda al rimorso, pone a se stesso elevati obiettivi morali, può esser sempre accusato di fare i propri comodi".

 

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