La Stampa - 27.12.97

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LA ROTTURA DI UN TABU'

di Gad Lerner

A Oscar Luigi Scalfaro è toccato in sorte di guidare la Repubblica italiana nel passaggio più delicato della sua breve storia, quando di colpo, tra il '92 e il '96, i nostri organismi elettivi sono parsi come sciogliersi nel vuoto di Tangentopoli fino a minare la legittimità dei pubblici poteri. Da quella stagione di sospensione della Politica, simboleggiata dai tecnici al governo e dalla prassi delle prorogatio , non siamo ancora del tutto usciti. E ora il vecchio Presidente sembra abbia fretta di completare lo storico passaggio, prima che sia troppo tardi.

Lo rivelano i suoi due gesti recenti, ne avremo forse conferma mercoledì prossimo dal suo discorso di fine anno. Dapprima, venerdì 19 dicembre, Scalfaro ha invitato i magistrati a riconoscere la fine dell'emergenza, rientrando nei binari che in democrazia garantiscono la separazione tra i poteri. Come dire: Mani Pulite ha sanzionato il crollo della vecchia classe politica, non vi è motivo che il medesimo discredito si abbatta sui politici di oggi.

Tre giorni dopo, firmando sei provvedimenti di grazia per altrettanti terroristi di sinistra e di destra non direttamente implicati in fatti di sangue, possiamo ben dire che Scalfaro, con gesto misurato, ha rotto un tabù.

La firma del Presidente ha infatti un forte valore evocativo, è come se si rivolgesse al Paese invitando tutti noi a riflettere: gli anni di piombo sono stati una pagina tragica della nostra Storia, il dolore inferto alle vittime e alle loro famiglie non sarà mai risarcibile per intero, domandiamoci però se la comunità nel suo insieme non tragga vantaggio dal dichiarare chiusa quella stagione, provvedendo a riesaminare l'eccezionalità delle condanne giudiziarie all'epoca comminate.

Sarà molto interessante verificare come il Paese reagirà alla presidenziale violazione del tabù. Scalfaro ha consapevolmente rischiato l'impopolarità, e anche ciò va ascritto a suo merito, perché è molto più facile per i politici prendere applausi invocando che le celle restino chiuse. Ma a questo punto la risposta al quesito posto dal Presidente può venire solo dal Paese nel suo insieme, anzitutto nella sua rappresentanza parlamentare e poi attraverso i canali di espressione dell'opinione pubblica. La comunità nazionale si sente abbastanza unita e solida da voltare quella pagina? I suoi leader la solleciteranno in tal senso o cercheranno di lucrare sulle ferite ancora aperte?

E' chiaro che gli anni di piombo non possono chiudersi a colpi di provvedimenti di grazia individuali. Se oggi il Quirinale ha lanciato un segnale, è anche per spronare il Parlamento rivelatosi cronicamente incapace di decidere in materia di indulto, nonostante i precedenti messaggi presidenziali.

Intanto però va colto lo specifico contributo di giustizia presente pure in quel gesto discrezionale di eredità monarchica che è la grazia presidenziale. Ci viene al proposito in aiuto lo stesso Scalfaro che, agli inizi della sua carriera politica, tra il '55 e il '58, in veste di sottosegretario al ministero di Grazia e Giustizia (prima con Aldo Moro ministro, poi con Guido Gonella), era incaricato proprio dell'istruzione delle domande di grazia pervenute. Ebbene, il Presidente ha avuto modo di raccontare come mai e poi mai, tra i criteri di concessione della grazia, potesse contemplarsi il consenso della vittima o dei suoi familiari. Affidare loro il responso configurerebbe il riflusso in una concezione privata della giustizia. Altre, ben distinte, sono le forme di risarcimento, indennizzo, assistenza che lo Stato deve garantire alle parti lese, senza caricarle dell'improprio ruolo di giudici. Una volta accadde perfino, ha ricordato il Presidente, che un detenuto sardo ottenesse la grazia con la clausola di non mettere più piede sull'isola: onde evitare la vendetta delle parti lese, in totale disaccordo con quel provvedimento di clemenza.

L'opinione pubblica è giustamente sensibile alle reazioni dei familiari delle vittime del terrorismo, quando si parla di indulto per gli anni di piombo. Ogni inadempienza pubblica nei loro confronti va denunciata e risolta, la dedizione allo Stato di tanti caduti va annoverata tra i più alti valori repubblicani, ma altra, separata, è la questione posta da Scalfaro: una collettiva assunzione di responsabilità di fronte a una stagione di illegalità diffusa da perpetuare nella memoria, ma non nelle sue lacerazioni. Il 2 giugno del '96 lo disse per la prima volta: "Con il passare degli anni il delitto non muta né nome né sostanza... Ma lo Stato democratico non può fermarsi nel cercare una via". Crescere e maturare, nella cura delle proprie ferite.

Il Presidente che si adopera per una consapevole chiusura delle emergenze nazionali certo non potrebbe adoperare gli stessi strumenti di pressione riguardo a quell'altra illegalità diffusa, venuta alla luce più di recente, cioè Tangentopoli. Anche se va notato come i reati graziati ieri - concorso in omicidio, ferimento, sequestro di persona - siano moralmente più gravi e odiosi dei furti, delle tangenti, delle corruzioni. I tempi e le procedure necessarie a ristabilire la giustizia dentro a un Paese risanato sono ben differenti, così come differenti sono le ferite degli anni di piombo e di Tangentopoli. Ma il metodo dell'interrogarsi collettivo, dell'autoanalisi pacata, della politica finalmente saggia e coraggiosa: quella è l'intuizione preziosa che ci viene dal Colle.

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