Ciao 2001 - maggio 1998

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Intervista con Prospero Gallinari

Fu nel '69 che imparammo a difenderci…

di Rosalba Alia

C'è sempre una vena di nostalgia nel ricordare il 68. Per chi lo ha vissuto in prima persona c'è forse anche qualche rimpianto, per chi come noi lo ha potuto soltanto spiare attraverso ritagli di giornali, canzoni e reportage, rimane ancor oggi pieno di dubbi, di domande, di curiosità. Perché solo il cercare di analizzare un anno che ha cambiato il mondo, dove tante correnti di pensiero si sono costruite, altre distrutte, può far girare davvero la testa. Trovare il filo conduttore di questo labirinto è molto difficile, e soprattutto distinguere e separare le cose giuste da quelle sbagliate diventa complicato se non improbabile. L'unica certezza che abbiamo è quella che il 68, ci ha lasciato una grande eredità: la capacità e il diritto di sognare.

Nel bene e nel male molte cose sono cambiate d'allora e non saremo certamente noi a giudicarle, ma abbiamo creduto opportuno, visto che sono passati trent'anni da quei fatidici giorni, di parlarne, per ricordare ancora. L'abbiamo fatto parlandone con Prospero Gallinari, ex brigatista rosso. E' da lì, da quegli anni, che per lui tutto cominciò.

"Più che del '68, io sono figlio del '69. In Italia, infatti, più che una rivolta studentesca fu una rivolta operaia. Gli studenti italiani, ovviamente, si sono unite con quelli europei ed americani, occupando scuole e università, ma, almeno per quanto riguarda l'Italia, il cardine di questa rivolta è stato il movimento operaio. Prima del '69, l'operaio era una figura che subiva soprusi, ingiustizie e umiliazioni. Dopo questa data entrerà all'interno di un vero e proprio movimento che caratterizzerà lo scontro successivo. Io provengo dal PCI; vi ho militato proprio fino al '69. Le prime manifestazioni a cui ho partecipato sono state quelle contro la guerra del Vietnam. C'erano degli slogan molto belli, allora. Uno tipico era: "Siamo realisti, vogliamo l'impossibile".

Cos'era questo "impossibile"?

Era la voglia di abbattere le gerarchie, la cultura accademica, l'educazione rigida e moralistica dei nostri padri. E, secondo me, era più una rivolta esistenziale che politica. Era il desiderio di poter respirare liberamente i propri pensieri, di poter indossare dei vestiti più leggeri, un qualcosa che veniva dallo stomaco, dal cuore. Non c'è stata un'illuminazione improvvisa, ma la guerra nel Vietnam, i problemi nel terzo mondo, la guerra d'Algeria, l'antimperialismo… sono stati avvenimenti che ci hanno fatto rimettere in discussione tutto. Tra l'altro, la realtà italiana era una realtà particolare, diversa. Noi venivamo da un periodo molto lungo di censura (e autocensura), creato prima dal potere fascista poi da quello democristiano; un periodo fatto di sotterfugi, di cose non dette, di angoli bui. Non dimentichiamoci, poi, la Resistenza: ecco, il '68, il '69, rappresentavano una sorata di continuità. Io, tra l'altro, provengo da Reggio Emilia, una delle città più partigiane d'Italia. Ricordo questo grosso operaio-massa della Montedison, della Fiat, insomma di tutte le grandi industrie, che imparò il rifiuto al comando. C'erano i cosiddetti fazzoletti rossi che "spazzolavano la fabbrica". Erano degli operai che organizzavano dei cortei, passando nei reparti appunto con questi fazzoletti rossi e con il dibattito riuscivano a convincere gli altri ad uscire.

In una lettera del '58, Raniero Panzieri scriveva ai figli: "Non si diventa buoni compagni se non attraverso l'amore alla conoscenza, allo studio", poi, dopo il 68, alla "C" di cultura, si sostituisce l'epiteto, la parolaccia. E' vero?

Non voglio fare dello snobismo, ma in parte è vero. Il '68 è stato diverso rispetto al movimento del '77. Allora si voleva una scuola alternativa, non più studiare sui libri di storia scritti dai padroni, quindi filtrati, ma su quelli di Mao, di Marx. Volevamo avere il diritto di studiare la storia dei popoli. Organizzavamo dei veri e propri collettivi di studio dove facevamo una ricostruzione dei libri letti. Nel '77,invece, c'è stato un vero e proprio rifiuto, senza il desiderio di costruire. Per quanto riguarda le "parolacce", non erano certamente un elemento fondamentale.

Nel '68, oltre alla rivolta, all'impegno, c'erano la minigonna, il bikini, le Kessler. Come si potevano conciliare?

Anche se non hanno delle caratteristiche politiche, provengono dalla stessa problematica. Come ho già detto prima, c'era il desiderio di alleggerirsi, di denudarsi di tanti luoghi comuni e la minigonna, il bikini rappresentavano questa volontà. Era il periodo delle comuni, dove uomini e donne, molti erano immigrati del sud, avevano deciso di vivere insieme in piena libertà sessuale, cercando un'altra morale. In questo contesto la società borghese s'inserì subito. Quando c'è odore di soldi, si fa sempre sentire. E lo ha fatto, prima vendendo la minigonna, poi quella lunga che portavano le compagne negli anni '70.

Secondo lei la miccia che ha spinto a menar le mani, ad usare la violenza, è stata la dura repressione della polizia?

Sicuramente gli scontri a Valle Giulia furono determinanti. Anche perché fino ad allora, le botte, eravamo abituati a prenderle. C'è la canzone di Pietrangeli che dice: "Non siam scappati più". Poi la nostra storia corre fin troppo veloce. La data fatidica è il 12 dicembre del '69. Con la strage di piazza Fontana, cambia il terreno di scontro che non è più esistenziale, ma arriva dentro le istituzioni.

Cosa accadde?

Il 12 ci fu la strage, il 13 il sindacato firmò il contratto dei metalmeccanici. Ciò significò licenziamenti, repressioni, carcere. Ci si sentì traditi e ci trovammo di fronte a un bivio: arrendersi o cambiare. Molti scelsero la lotta armata.

Il terrorismo…

Tengo a precisare che si trattò di lotta armata e non di terrorismo. Quest0'ultimo è stragismo di stato; anche la commissione stragi finalmente lo ha ammesso. Da sinistra, invece, non si è mai sparato nel mucchio. Gli obiettivi erano precisi, il nemico anche: c'era una guerra fra noi e lo Stato e si colpivano quelli che di più lo rappresentavano. Io sono stato in carcere, poi sono evaso, sono uno dei militanti che ha vissuto tutto. Ho fatto parte della violenza, io c'ero. La storia delle BR è la mia storia, però mi ritengo un non violento.

Eppure i morti sono stati molti

E' vero, ma da entrambe le parti. Ho scelto la violenza in un periodo storico, di averla subita. Mi ricordo ancora quando andai al mio primo funerale. Era quello dei famosi Morti di Reggio Emilia. Sette persone uccise dalla polizia. Avevo 9 anni. Sono morti molti compagni nelle piazze, anche quelli che con la violenza non avevano nulla a che fare. Oggi, dopo vent'anni dal sequestro ed uccisione di Aldo Moro, ho un modo necessario, forse opportunista di rapportarmi. Separo la politica dal personale. Come uomo sento il dolore nelle vittime che ho combattuto ed hanno il diritto di odiarmi. Ma anch'io ho pianto i miei morti.

Per tornare alla lotta armata, i politologi, i sociologi, dicono che una delle cause del vostro ricorso alle armi sia stata la paura del golpe.

Rimango ancora sconvolto quando sento parlare di Gladio dai politici o giornalisti di allora. Come fosse la scoperta dell'acqua calda. Io a sedici anni ero un militante e già lo sapevo. Le sere, al centro della città, andavamo a vedere se c'erano dei movimenti nelle caserme, se le luci erano accese. Rino Serri dormiva fuori casa perché se succedeva qualcosa non lo avrebbero trovato. Devo ammettere che, anche se lo considero un nemico, un uomo di destra, Cossiga è stato uno dei poche che ha parlato con franchezza, dicendo che non volevano che il Partito comunista andasse al potere. Il sequestro Moro, ad esempio, in verità è cominciato dieci anni prima del '78. Avevamo già fatto centinaia di azioni contro la Dc, molte gambizzazioni, attentati; avevamo combattuto fina dall'inizio contro il famigerato compromesso storico.

E Aldo Moro?

Moro è stato il compimento di questa lotta, il simbolo di ciò che combattevamo. Purtroppo il grosso difetto della sinistra è quello di non avere il coraggio di riosservare quel periodo storico, l'incapacità di ricostruire un percorso politico reale. Ci sono stati tanti operai, studenti, proletari che anche magari sbagliando, hanno combattuto. Ci sono state grandi lotte, sogni e tragedie: non pagine oscure. Accettare questo è difficile. Negli anni '80, poi c'è stata una cappa. Il riflusso, il consumismo, lo yuppismo, hanno sostituito la chitarra e la voglia di sognare.

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