Corriere della Sera - 11.03.98
Gian Antonio Stella
ROMA - «Nella casa di via Montalcini c'era una gabbia con due canarini gialli. Prospero andava pazzo per quei due uccelli. Ne curò uno che si era ferito a una zampa e un giorno che il tempo era cambiato ed erano rimasti fuori sotto il temporale lo trovai che li asciugava con il phon».
Anna Laura Braghetti, la donna che per 55 giorni, esattamente vent'anni fa, fu la vivandiera del sequestro Moro, dice di aver covato l'odio, in certi momenti, per Paola Tavella, la giornalista del «Manifesto» che l'ha aiutata a scrivere per la Mondadori «Il prigioniero». E' stata dura, per lei che da anni ha chiuso con «Camilla», il nome di battaglia che aveva nelle Br, ricordare ciò che è stata. Il male fatto. Il dolore seminato.
«Ogni dettaglio, i canarini che un bel giorno fuggirono via, i pesciolini rossi che a mano a mano morivano, il presidente che chiedeva che gli registrassimo la messa domenicale, Prospero che gli lavava la biancheria, è stato una ferita raschiata nella memoria. Tra le cose che avevo rimosso. Per questo ho voluto scrivere con Paola: io non avrei avuto il coraggio di farmi certe domande».
E perché si è decisa?
«Per svuotare la bisaccia dei ricordi. Per chiudere con quel diaframma che c'è da anni tra me e chi mi conosce: "ma pensa un po' questa, cosa ha combinato". Per poter finalmente sparire nell'anonimato di un supermarket di periferia. Quello che so è lì, tutto scritto».
Tutto?
«Tutto. O almeno tutto ciò che è accaduto dentro quella casa. Quanto è accaduto fuori io non lo conosco. I protagonisti di quella storia sono tanti. L'altro pezzo di verità va cercato altrove. Se c'è».
Eppure c'è chi dice che i misteri sono ancora molti.
«No. In questo senso è stato importante che Germano Maccari, che con Mario Moretti, Prospero Gallinari e me era il quarto br in via Montalcini, abbia deciso di parlare. Ha tolto un peso che gravava su tutti noi».
Lei non l'avrebbe mai fatto, il suo nome?
«No. Nessuno di noi li ha fatti. Ognuno si è assunto le sue responsabilità».
Ed era giusto?
«Questa domanda sull'etica me la sono fatta in continuazione. Se io conoscessi uno spacciatore di eroina non avrei dubbi: lo denuncerei all'istante. Ma la nostra è un'altra storia. La nostra è una stagione da molti anni finita. Irripetibile. Non avrei salvato nessuno facendo il nome di Maccari. Lui era solo una persona che si era messa da parte e non avrebbe, comunque, mai più fatto danni».
Com'erano i rapporti tra lei e Gallinari, che poi sarebbe diventato suo marito, durante quei 55 giorni?
«Non ricordo un gesto di tenerezza. Stavamo sempre sul "chi va là". Potevamo essere attaccati in ogni istante. Stavamo lì, al chiuso, a guardare i telegiornali, ascoltare la radio, aspettare che passassero le ore. Uscire la mattina per andare in ufficio, per me, era un sollievo».
Il rapporto coi colleghi di lavoro com'era?
«Normalissimo. Andavo a pranzo con loro, chiacchieravamo del più e del meno, magari la sera davo loro un passaggio alla metropolitana».
E loro non si accorsero di niente?
«Mai».
I vecchi amici?
«Quelli che non erano "bierre" non li vedevo mai. Dicevo che avevo un fidanzato nuovo... Non è difficile sparire per un po'».
Più visti?
«Uno è venuto anche a trovarmi in carcere. Con altri abbiamo cercato di riannodare dei piccoli fili di vita».
Lei scrive del rimpianto, anche intellettuale oltre che umano e politico, di non essere riuscita a «capire» Moro.
«Parlava una lingua che non capivamo. Ma credo che non lo capisse nessuno, allora. Neanche i suoi amici. I suoi colleghi. Lui cercava di aprire un varco e loro dicevano che era manipolato. Noi eravamo sgomenti. Ci trovavamo davanti a un linguaggio che noi volevamo solo condannare e invece lui voleva parlare di politica. Una politica totalmente diversa da come l'intendavamo noi».
Eravate davvero così impermeabili?
«Sì».
Vuol dire che nessuno, chiedendo a Tizio che lo chiedeva a Caio che lo chiedeva a Sempronio, poteva arrivare a voi?
«Non credo. L'unico canale forse era quello attraverso Potere Operaio. E infatti, con Piperno, ci arrivarono. Ma era un canale solo amicale. E chiuso. Arrivare a me, per dire, era impossibile».
Esclude ogni ipotesi di infiltrazioni?
«Conosco solo il caso di Frate Mitra... E basta».
Mai un dubbio su Moretti?
«Ancora? Moretti ha ricostruito le Br dopo che avevano arrestato tutti. Se non avesse creduto nella rivoluzione perché avrebbe dovuto farlo? Per guadagnare cosa: la morte o l'ergastolo? Non ha senso».
Eppure Flamigni dice che ha prove inoppugnabili su un infiltrato.
«Onestamente: alle prove di Flamigni non credo».
Lei scrive che Moro fu ucciso anche per non rendere inutile la morte dei cinque uomini della scorta: non è pazzesco?
«Era una delle ragioni che venivano addotte. Quando fu chiesto a tutti i militanti...».
Accadde proprio come nel film «L'Amerikano» di Costa Gravas?
«Sì. Furono consultati tutti. Forse duecento persone. E fu detto appunto che per prendere lui erano stati uccisi cinque poliziotti, che l'obiettivo militare era lui, che non si era ottenuto nulla, quindi...».
Quanti dissero di no?
«Non lo so. Qualcuno disse che bisognava liberarlo perché, se l'avessimo ucciso non avremmo più potuto appellarci, in caso di cattura, alla convenzione di Ginevra».
E la decisione di ucciderlo...
«... fu schiacciante».
Lei come votò?
«Contro. Mi sembrava che quei 55 giorni di prigionia e di sofferenza fossero sufficienti».
Gallinari?
«Era per l'esecuzione».
Questa frattura cambiò qualcosa tra di voi?
«No. Ritenevo di avere pochi strumenti politici e mi rimisi al giudizio di chi pensavo ci capisse di più».
Ma come: era la padrona di casa della prigione di Moro e ragionava come una sbarbatella?
«Lo so che è difficile da capire ma prima del sequestro Moro io non facevo parte delle Br. Per questo mi avevano scelta. Ero una che lavorava, che aveva una vita normale, che poteva fingere di essere una giovane signora benestante col marito ricco che le dava i soldi per metter su casa».
E come entrò?
«Stavo con Bruno Seghetti, avevo capito che era delle Br ma io, in qualche modo, lo guardavo da lontano. Un giorno mi chiese: non potresti far comprare una casa da tua zia? Risposi: potrei prenderla io. Mi mise in contatto con Morucci e questi con Moretti. Quando trovai la casa giusta Bruno, fedele alle regole, mi disse: "Ci dobbiamo lasciare"».
E vi lasciaste?
«Sì. Per consolarci ci dicemmo: "Ci rivedremo. Sulla Piazza Rossa"».
Ammesso che le cose fossero andate come sognavate voi, quale pensavate che sarebbe stato il passo successivo?
«Moretti diceva: quando si tratta non si spara. Il nostro mito era diventare un partito rivoluzionario a sinistra del Pci, sul modello dell'ala politica dell'Eta, che via via facesse chiudere l'ala armata».
Onestamente: avrebbero potuto trovare la prigione durante il sequestro?
«Non vedo come. Leggevamo di una Roma piena di poliziotti, di elicotteri, di rastrellamenti. Ma in 55 giorni io vidi due soli poliziotti. Eravamo fermi a un semaforo. Uno mi fece l'occhiolino. Avrebbero potuto prenderci, questo sì, il 9 maggio».
Il giorno che lasciaste la R4 in via Caetani?
«Sì. Una inquilina aveva riconosciuto alla tivù il fanalino della R4 vista in garage. Avremmo potuto, io e Prospero, essere arrestati la sera stessa. Ma il suo allarme, dato a un avvocato che lo disse a Gaspari che lo disse a Rognoni, fece un giro lunghissimo. Ero sicura che ci avrebbero arrestato».
E invece?
«Invece (ma l'avrei saputo poi) la polizia avvia l'indagine, parla con gli inquilini, convoca riunioni condominiali, mi segue... Ma va avanti per mesi. Finché, a settembre, non me ne accorgo. E scappo».
E l'inchiesta?
«Questo sì è un mistero. Mah...».