Corriere della Sera - 16.05.98

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Su «Vita», a 10 anni dalla morte, gli scritti dal carcere

Le lettere di Tortora alla figlia: «Giustizia in mano a manigoldi»

C. Mus.,

MILANO - «Quello che a me ripugna e ferisce, e fa inorridire, è che la giustizia sia prigioniera di un pugno di manigoldi». Dove eravamo? Ah sì, al carcere di Bergamo, il 3 settembre 1983, dove un celebre presentatore televisivo, impietrito e incredulo per 78 inspiegabili giorni di prigionia, manda alla figlia questa disgustata denuncia. Che sembra scritta oggi: in 15 anni il panorama dell'ingiustizia tra corvi, talpe, pentiti ambigui non è cambiato. Un panorama nel quale quel presentatore si staglia per sempre, tanto la sua vicenda è stata memorabile ed emblematica e dolorosa. «Non augurerei a un cane o a un verme ciò che ho dovuto soffrire per crimini non commessi», aveva detto ai giudici, il 23 agosto 1927, Bartolomeo Vanzetti, avviandosi, con Nicola Sacco, alla sedia elettrica. Ebbene, oltre mezzo secolo dopo, nel 1988, proprio il famoso presentatore avrebbe voluto portare in tv i grandi processi del secolo proponendo per prima la vicenda dei due anarchici giustiziati negli States. Non ne ebbe il tempo: un colpo di tosse stroncò il suo cuore malato la mattina di mercoledì 18 maggio 1988. Quel giorno «moriva mio padre Enzo Tortora - scrive oggi la figlia Silvia cui era indirizzata la lettera dal carcere di Bergamo -. Ucciso dal cancro e da una malattia ancor più grave, l'ingiustizia».

A 10 anni di distanza per evitare l'amarezza di «un Paese che dimentica presto, sia i casi Tortora sia i casi di Nessuno», Silvia ha affidato al settimanale «Vita» di Riccardo Bonacina, le lettere dal carcere di suo padre. Il carteggio comincia il luglio 1983, da Regina Coeli dove Tortora è finito il 17 giugno per associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di armi e droga. Accusato da 3 pentiti. Tortora descrive i fetidi locali, un ripugnante brigadiere e il magistrato Lucio Di Pietro che lo ha spedito in galera e che gli augura beffardamente «Buona fortuna», «da venditore di biglietti della lotteria - chiosa Tortora - e non da magistrato. Tu amministri la giustizia e non la fortuna. Ma invece è vero: sei il pappagalletto dei pentiti». Il prigioniero capisce subito come funziona la giustizia. Trasferito a Bergamo, nell'estate '83 scrive: «Sono ricco di una esperienza umana e sociale fino a ieri impensabile. Vedo solo gente che da 6 mesi o un anno aspetta un interrogatorio. Questo è un Paese infame. Ma sono sempre più determinato a resistere finché verità sia fatta e la mia innocenza sia palese». E sempre da Bergamo, prendendo atto che i suoi inquisitori sono al mare - e che ciò gli procura vomito - aggiunge: «Credo che se c'è un posto dove sorge automatico il disgusto per questa Italia, è la galera, dove si diventa pietre». Tortora viene condannato a 10 anni e 6 mesi nel settembre 1985. Il 17 giugno dell'anno prima era stato eletto deputato europeo, nelle liste radicali, con oltre 500 mila preferenze. Il 10 dicembre '85 pronuncia il discorso di addio al Parlamento europeo, il 29 si costituisce. Un mese prima da Strasburgo in una tenerissima lettera confidava a Silvia: «Da molti sogni comprendo che il mio traguardo è vicino.... Qualunque sarà la tua scelta, che non sia mai di stima per i gendarmi del mondo o dell'animo. Meglio sola, Silvia, che tra schiavi compiaciuti di esserlo». Pochi mesi ancora e sarà completamente scagionato. Ma per l'errore giudiziario nessuno pagherà: il 26 marzo 1998 il procedimento che vedeva imputati i magistrati napoletani Lucio Di Pietro, Felice Di Persia, Angelo Spirito e Giorgio Fontana, responsabili dell'incriminazione di Tortora, è stato archiviato.

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