Il Corriere della Sera - 19.05.98

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Il caso Tortora, dieci anni dopo

LA MEMORIA DI UN'INGIUSTIZIA

di ENZO BIAGI

Torna di attualità, questa è la formula, il «caso Tortora». Qualcuno lo ricorda: mi fa piacere perché, come è stato detto, il sangue della storia asciuga in fretta. E così si cancella rapidamente la memoria di una ingiustizia. Ho vissuto la storia del «popolare presentatore» abbastanza intensamente. È probabile che io sia il primo che, con un articolo, pose il problema: «E se Tortora fosse innocente?».

Mi colpirono intanto le immagini del suo arresto: che spettacolo. Attesero, per mettergli le manette, che arrivasse una «troupe» televisiva: perché se i fatti non appaiono in televisione non esistono. Poi lo fecero sfilare con le catenelle ai polsi; non capita tutti i giorni un imputato così. Per evidenti ragioni tecniche non potevano chiedergli anche l'autografo.

Era imputato di spaccio di droga, e i suoi accusatori, detenuti, posavano, sfoggiandoun adeguato corredino fornito per l'occasione, per i rotocalchi, e ispiravano una nutrita scuola di pensatori, più vicini alla Procura di Napoli che alla verità.

Andai a trovarlo in carcere, tra noi c'erano stati pochi rapporti, professionali o umani; non sono il giustiziere che entra nel «Saloon» e spara ai banditi, ma mi offende quella che i politologi chiamano «l'arroganza del potere». C'era un'aria di festa perché, finalmente, avevano messo dentro un «personaggio».

Incontrai un uomo umiliato, che piangeva: quel giorno, in prigione, nel dramma si inserisce spesso il grottesco, per la consolazione dei detenuti si esibivano i clown e gli artisti di un circo.

Gli erano accanto nella sventura, Anna, la sorella e la figlia Silvia, e anche una ragazza che credo gli volesse bene e di cui non ricordo il nome. Proposi di chiamare nel collegio di difesa anche Alberto Dall'Ora, un grande avvocato mio amico.

Poi il processo, poi la malattia. Sono convinto, pur se la mia supposizione non ha alcun fondamento scientifico, che nel cancro ci sia anche una componente emotiva: una sconfitta, un dolore. Forse Enzo Tortora non si era mai ripreso da quell'umiliazione che lo aveva segnato per sempre. Difficile difendersi da una colpa inesistente. Si batté fino all'ultimo, con quegli occhi accesi dalla febbre e dalle medicine: non poteva perdonare. Ma non si rimedia alla vita.

Il suo nome è legato a una Fondazione per la giustizia: un nobile intento, soprattutto in un Paese che non vuole avere l'inconveniente, il peso della memoria. Gli assassini di Aldo Moro vanno in prigione la sera, a dormire, perché noi, per fortuna, lo dico sinceramente, non siamo come gli americani che hanno la sedia elettrica per gli assassini; noi abbiamo la branda.

Tortora fu, dunque, vittima di un errore: ma nessuno è stato bocciato, nessuno paga. Non seguono neppure atti di contrizione, ma interviste. E perfino nel male ci può essere una certa grandezza: ma emergono solo idiozia e malvagità.

Il codice inglese contempla «l'imbecille morale»: può provocare danni incalcolabili, ma da noi non è perseguibile. Quando leggo i racconti dei terroristi mi colpiscono, oltre all'uso che facevano delle pallottole, quello delle idee. Dei poveracci.

Già, il caso Tortora. Qualche sospiro e, naturalmente, un convegno.

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