Corriere della Sera - 20.02.98

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L'INTERVISTA / PARLA IL GIP CHE HA LIBERATO VINCENZO MAZZARELLA

«Sì, ho scarcerato quel padrino: il garantismo non vale solo per i politici»

«E' stata molto criticata la sentenza sul caso Sofri che si basa sul pentitismo. Se invece c'è un giudice che applica rigorosamente le norme su fatti di camorra si scatena un putiferio...»

Goffredo Buccini

DAL NOSTRO INVIATO

NAPOLI - «Qui siamo nel Bronx. Peggio. Siamo nella Chicago degli anni Venti».

E lei cosa fa a Chicago? Scarcera Al Capone?

«Senta, io sono francamente sconcertato da tutto questo chiasso. Faccio sentenze da ventuno anni. E non ci sono mai state esplosioni critiche di questo tipo».

Mi perdoni, giudice Di Casola. Lei fa uscire da Poggioreale un capo camorrista che la procura voleva tenere dentro. Appena il boss esce dal carcere, si scatena un massacro. La faida continua e ci rimette la pelle anche un ragazzino di 14 anni. Due più due fa quattro... o no?

«No, due più due non deve necessariamente fare quattro in un mestiere che vive di controlli formali. Gli errori vanno corretti. La procedura lo vuole».

Centro direzionale, torre B, diciassettesimo piano. Carlo Di Casola è lì, nella sua stanza in fondo al corridoio dei gip, i giudici per le indagini preliminari: è una giornata di sole, ma attorno a lui piove a dirotto. Dimostra meno dei suoi 47 anni, ha una faccia pulita, una lunga storia di militanza dentro Magistratura democratica. Ha fatto il sostituto e il giudice istruttore. Ha lavorato con Falcone e Di Lello sul boss Vernengo, ha sequestrato i patrimoni dei camorristi quand'era alle misure di prevenzione. Però è diventato famoso solo adesso, per aver liberato, contro il parere del pm, Vincenzo Mazzarella, un padrino in guerra con altri padrini. Questioni di forma, questioni di garanzie, riscontri insufficienti sulle accuse d'un pentito: questo dice lui. E però dice anche che, come cittadino, è "preoccupatissimo" da quello che succede in queste ore nella sua Napoli. Cittadino e giudice sembrano fare a pugni, dunque. Forma e sostanza pure. E nel match si fa largo la questione centrale: il pentitismo.

Dica la verità, giudice, lei ci pensa mai a Mazzarella di notte?

Di Casola reprime un sorriso triste. «Le questioni di coscienza di un magistrato non devono assumere alcun rilievo nella decisione tecnica. Certo che in queste ore, da uomo, me lo sono posto il problema di Mazzarella. Ma il mio sgomento può entrare nelle carte processuali? Sarei un buon giudice, allora? No, no, il problema vero è l'opinione pubblica. Mi spieghi lei una cosa».

Se posso.

«Quando si parla di collaboratori di giustizia e dichiaranti, per esempio su Tangentopoli, si ritiene che i giudici siano sostanzialisti e interventisti, li si accusa di voler tenere la gente in galera. Poi quando i giudici applicano i principi di garanzia, quelli che tutti invocano, di fronte a un cittadino che non è un colletto bianco e magari è un pregiudicato - ma sempre cittadino resta - tutti vorrebbero che le garanzie si abbassassero. Perché?».

Lo dica lei.

«Perché abbiamo a che fare con un camorrista o un mafioso. Allora forziamo le regole? Non si può. Se invochiamo più garanzie, queste devono valere per chi siede in Parlamento, per gli amministratori pubblici e pure per i criminali da strada».

Che però per strada lasciano una fila di morti ammazzati.

«Già. E io cosa faccio? Il garantismo selettivo? Vede, nella coscienza della gente, corrompere o rubare sembra sia poco grave. Io non sottovaluto la violenza di mafia e camorra. Ma non posso violare la legge».

Qui c'è in ballo pure la questione dei pentiti, su cui si reggono i processi degli ultimi dieci anni.

«Sì. E le faccio un altro esempio. La stampa ha molto criticato la sentenza sul caso Sofri, che si basa sul pentitismo. Si è parlato di giudici sostanzialisti, che sbagliano e che devono essere più rigorosi nell'interpretazione delle norme...».

E allora?

«Mi lasci finire. Se abbiamo invece un giudice che applica rigorosamente le norme su fatti di camorra... beh, contro quel giudice si scatena l'opinione pubblica. Per me questo è un problema di civiltà».

Si rende conto che è un discorso difficile da fare mentre i camorristi sparano?

«Sì. Ma ci sono le garanzie del cittadino di fronte a un collaboratore di giustizia. Un gip sta lì per quello».

Le hanno telefonato in molti, in queste ore?

«Solo i colleghi che condividono la mia posizione. Si vede che gli altri non chiamano».

Lei cosa pensa del giudice Carnevale?

«Una mia valutazione personale non avrebbe senso».

Lei pensa che un giudice possa essere o no "anti"? Intendo: antimafia, anticorruzione...

«Il magistrato non è "anti" qualcuno. Non può essere asservito alle emergenze o all'opinione pubblica. Però le specializzazioni devono esistere».

Lei crede che, con posizioni come la sua, la mafia in Sicilia avrebbe subìto colpi molto duri?

«Non mi è consentito fare il mago. So solo che lo Stato deve poter fare tutto il possibile almeno per ridimensionare la protervia dei clan. Ma la scelta delle strade per arrivare a questo risultato non è di nostra competenza».

Cioè, venendo al caso di Napoli?

«Vede, qui il dinamismo economico della camorra fa impallidire perfino l'idea che abbiamo della finanza mafiosa. E la situazione è così drammatica che non riesco neppure a immaginare un peggioramento. Però lo Stato faccia un lavoro serio, di intelligence, per prevenire gli omicidi, anziché lagnarsi quando sono ormai avvenuti. Usare lo strumento giudiziario per eliminare un po' di gente dalle strade è un metodo che non mi piace molto».

Cos'è un gip?

«Una figura che, rispetto alle indagini, è più estranea che terza».

Traduca.

«Le carte che valuta un gip sono quelle elaborate dal pubblico ministero. Se io guardo in un cannocchiale di cui lei ha costruito la lente, nove volte su dieci vedrò quello che vede lei. Però, se cambio il fuoco, se sposto un po' il cannocchiale... magari vedo altro. Allora, sì, posso fare il gip».

Professionalmente, lei non si sente mai uno schizofrenico?

«No. Credo solo che non dobbiamo per forza pensare tutti allo stesso modo e camminare verso un unico obiettivo. No. Non mi ci sento, schizofrenico. Nonostante i drammi personali che hai in questo mestiere».

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