Corriere della Sera - 30.11.97

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IL NUOVO DISEGNO DI LEGGE E LE DIFFERENZE CON LE REGOLE DELL'EMERGENZA

Più vigilanza, meno libertà e niente rivelazioni a rate

Corrado Stajano

PALERMO - Il caso di Balduccio Di Maggio, «pentito assassino», organizzatore di trame di vendetta dal suo rifugio segreto, ha riproposto drammaticamente il problema dei collaboratori di giustizia, dei programmi di protezione, del Servizio centrale addetto a gestirli.

Soltanto ora, sull'onda della pericolosità di quanto è accaduto, il disegno di legge del ministro Flick, comunicato alla presidenza del Senato l'11 marzo, è approdato alla Commissione giustizia di Palazzo Madama dove viene discusso in questi giorni.

La questione è grave, coinvolge giustizia, etica, società. I magistrati della procura di Palermo hanno vissuto con sofferenza quel che è successo, anche se l'arresto di Di Maggio e dei suoi complici gli ha permesso di dimostrare che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e non sono per nulla dei privilegiati coloro che, con le loro confessioni, sono stati in passato utili alla giustizia. Come Di Maggio che ha reso possibile la cattura di Totò Riina, ma che poi, quando ha sgarrato, è finito in galera. Quel che è accaduto ha permesso anche di distinguere tra i problemi che riguardano i comportamenti - doveri e diritti - dello Stato nei confronti dei «pentiti» e la loro attendibilità che nel caso Di Maggio non è stata per nulla incrinata.

La vecchia legge - 15 marzo 1991, numero 82 - rifletteva un'altra fase acuta dell'emergenza criminale mafiosa. Il pool antimafia era stato praticamente smembrato e distrutto. Dopo la confessione di Buscetta del 1984 e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra nel 1986-87, le inchieste sulla mafia erano claudicanti. Il 13 marzo di quell'anno, Giovanni Falcone aveva lasciato Palermo ed era diventato direttore dell'Ufficio affari penali del ministero della Giustizia, ministro Claudio Martelli. Stava per arrivare il terribile 1992, con la conferma della sentenza del maxiprocesso fatta dalla Cassazione, l'assassinio di Salvo Lima, le stragi di Capaci e di via D'Amelio con le atroci morti di Falcone e di Borsellino.

La legge e l'ordinamento penitenziario concedevano molto nel 1991. Prevedevano la liberazione anticipata, uno speciale programma di protezione, il trasferimento dei mafiosi e dei loro familiari in comuni diversi da quelli di residenza, il cambiamento delle generalità, un assegno di mantenimento. Il disegno di legge Flick n. 2207 salva la sostanza, ma è più rigoroso e circostanziato. Per avere diritto ai benefici è necessaria una «collaborazione indispensabile», tempestiva e genuina. Occorrono l'attendibilità e l'assenza attuale di collegamenti con la criminalità organizzata. La variante più significativa riguarda i tempi e i modi di concessione della libertà. I benefici e le misure di protezione possono essere concessi infatti solo a coloro che, non oltre i 6 mesi dal momento in cui hanno manifestato la volontà di collaborare, dicono tutto quel che sanno. Sui mafiosi da catturare, sul denaro frutto delle attività illecite. La liberazione condizionale è possibile solo se il condannato ha espiato un quarto della pena o almeno 10 anni se si tratta di un condannato all'ergastolo. E questa è la novità più significativa.

Tutti d'accordo i magistrati di Palermo sulla necessità di cambiare la legge e sostanzialmente favorevoli al disegno di legge Flick. Scottati dal caso Di Maggio sono però attenti al problema della vigilanza e della reperibilità del «pentito» (su 1250 sottoposti al programma di protezione gli affiliati a Cosa Nostra sono 250 circa. Negli Stati Uniti la ricaduta nel delitto è del 15 per cento; qui da noi non supera il 5 per cento).

Sia Roberto Scarpinato sia Antonio Ingroia, sostituti procuratori, sono propensi all'uso di bracciali elettronici che permettano alla polizia di sapere sempre dove si trova il «pentito». Dice Ingroia che nel passato c'è stato qualche eccesso: la materia va disciplinata, non possono essere scarcerati immediatamente i collaboratori di giustizia responsabili di reati di sangue. È giusto che subiscano una frazione di pena. Mi dice Franca Imbergamo, anche lei sostituto procuratore, che quello in discussione è un buon disegno di legge. Si tratta di combinare in un compromesso il problema del dare e dell'avere tra lo Stato e il pentito. Certo, è necessario trovare i modi di un maggiore controllo.

È d'accordo anche Antonio Ingroia. Lo Stato deve dare degli incentivi, pagare qualche prezzo necessitato: il «pentito» collabora perché ha deciso di chiudere con quel suo passato, ma in cambio vuole la libertà, il bene più alto. «Se si chiudono questi spiragli e si decide che i collaboratori non debbano più ottenere la libertà, non parlerà più nessuno».

Guido Lo Forte, il procuratore aggiunto, è anche lui favorevole ai principi della nuova legge. Sono i principi, mi dice, che la stessa procura della Repubblica di Palermo ha già applicato. Il «pentito» deve passare in carcere l'iniziale periodo di collaborazione fino alla prima verifica del giudice. «Ma la libertà - i motivi sono familiari e psicologici - non deve diventare un miraggio».

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