Il Manifesto- 13.05.98

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"Eravamo eroi a rovescio" Parole di giovani malati di mente per i vent'anni della 180

- ANNA PIZZO - ROMA

N oi eravano eroi visti a rovescio, voi avete il nostro appoggio per viver liberi. Soggiorno, alloggio, in voi che siete nei miei pensieri. Siano cauti, spontanei o severi". Questa poesia l'ha scritta Franco di Imola, "un matto" di un centro diurno e poeta. E l'ha recitata ieri mattina nella sala del Carroccio del Campidoglio di Roma, dedicandola al Centro Franco Basaglia che ha organizzato una ben singolare iniziativa. Si è trattato della prima riunione nazionale di malati ed ex malati di mente che con i manicomi non hanno nulla a che fare. Se non altro (o forse solo) perché troppo giovani per finire dentro quei buchi neri.

Erano più di un centinaio gli "utenti" dei servizi, arrivati da ogni parte d'Italia: chi con un pensiero scritto, chi con la propria storia di vita, chi con suggerimenti, consigli, idee. Tutti intenti a lavorare insieme per costruire il grande appuntamento di settembre (dal 21 al 23 settembre prossimo a Roma) che li vedrà protagonisti di una nuova scena della psichiatria. A loro il diritto, finalmente, di dire cosa funziona e cosa non va nei servizi psichiatrici che usano tutti i giorni, a loro la parola. Finalmente. Ché, come ha detto Maria Granzia Giannichedda, presidente del Centro Franco Basaglia, "il problema non è dare la voce a chi non ce l'ha, perché la voce ce l'hanno tutti. Il problema è non toglierla e stare ad ascoltare, e saper ascoltare".

Dalla "storica" Trieste, da Livorno, da Bari, torino, Palermo, Prato, Martina Franca, Forlì, Giulianova, Imola e da tanti altri posti, da luoghi di sofferenza ma anche di libertà, i "nuovi matti" hanno deciso di costruire da loro stessi le condizioni, anzi le ragioni della loro guarigione.

Lo dicono le "ragazze" del Centro diurno di Cinecittà (Roma): Stefania, Mirella, Gabriella, Daniela. Hanno scritto fitto fitto le loro storie "la causa della mia malattia è stata una delusione d'amore", poi l'elettroshock, le medicine. Infine un altro amore "e piano piano ho recuperato". "Sono stata ricoverata dopo la morte di mia madre. Avevo i deliri. A 19 anni ho avuto il primo esaurimento. Poi c'è stata la bocciatura della patente, una delusione sentimentale, la bocciatura a scuola e questioni spiritiche per cui credevo di parlare con un bicchiere rovesciato". E un tentato suicidio. "In un day hospital ho trovato molte amicizie, ma non era ancora la soluzione". Ancora un amore che rischiava di finire male, "ma ora siamo di nuovo insieme" dice piena di allegria. E strappa un applauso. Anche ad Antonio di Massafra, vicino Taranto. Che ha fatto l'università, è poeta e parla bene, anche se, dice, il problema del linguaggio è serio e "il mio l'ho recuperato dopo tanto tempo". Perché, chiarisce "non si può dare voce al disagio psichico se non si struttura la voce del dolore". E poi, "la democrazia dell'ascolto non è praticata perché quelli che dovrebbero prendere la voce sono muti".

Tiziano, 26, 27 anni, è in cura al centro diurno di Villa Lais di Roma: ha vissuto a lungo in America e, dice, "nonostante l'esperienza orribile, chi stava male poteva stare insieme anche solo per prendere un tè".

Propone un'associazione di utenti, anzi un'associazione europea perché, dice, "l'Europa si costruisce anche con noi". Spiega che l'anomalia italiana, unico paese al mondo che ha abolito i manicomi, rischia di essere una fregatura per uno che, magari, vuole andare a lavorare all'estero. "Ho chiesto ai consolati di mezza Europa se avrei avuto diritto ad uno psichiatria, se mi fossi trasferito per motivi di lavoro in quel paese. Mi hanno tutti risposto che non se ne parla, non ci sono convenzioni". C'è solo il manicomio. Per i matti le barriere europee non sono cadute.

Roberto, comunità di Mainero a Torino. Ha pochi anni e poche parole, ma le vuole dire: "Sono in cura da quando avevo 11 anni. Ora sto meglio, la mia comunità è ottima contro la depressione". Maria di Martina Franca si presenta così: "Sindrome maniaco depressiva, frequento il servizio da 4 anni. Non ci dobbiamo più vergognare della nostra condizione perché accanto ai disturbi abbiamo anche tante risorse per noi e da dare agli altri". Finalmente, dice, è finita l'epoca in cui venivano prese delle decisioni "per" il paziente psichiatrico e non "con" lui. E racconta della sua esperienza di autoaiuto con la stessa competenza di un operatore e l'intensità della sofferenza: "Nei servizi - dice - ci sono regolamenti sul grado di calore del riscaldamento ma non sul grado di preparazione, di umanità degli operatori".

Un bellissimo ragazzo, tatuaggio a un braccio, chiamato in causa dal suo amico, non vuole parlare perché, dice, "non voglio essere un utente. Sono contrario alla psichiatria perché tende a isolarti. Secondo me si risolvono più cose parlando che prendendo un farmaco che ti stordisce e basta". Il farmaco, odiato-amato simbolo che fa dire a Franco di Roma: "Essere legati al letto è un'esperienza durissima, ma forse è necessaria perché se no ci stordiscono con gli psicofarmaci".

C'è una vera resistenza a parlare di sé da parte di questi "nuovi matti", che solo il lungo lavoro dell'Associazione Franco Basaglia è riuscita a scardinare. Ben diverso l'atteggiamento di coloro che si trovavano nei manicomi, quando finalmente cominciarono ad aprirsi: da allora hanno cominciato a parlare, e ora non vogliono smettere. "E' che per loro la parola era la libertà - dice con disarmante semplicità Maria Grazia Giannichedda - per voi invece, che non siete imprigionati, mostrarvi diversi può essere anche un peso. Ma - conclude - il vostro è un problema che riguarda tutti, non perché il tuo problema è il mio problema, ma perché quel che è capitato a te può capitare anche a me".

Lo dice, in modo diverso Franca Ongaro Basaglia: "Stamattina ho visto le facce dei nuovi utenti, sono molto diverse dalle facce dei malati mentali. Sono tutte facce 'umane' e non facce umiliate e distrutte. E' un bel modo di celebrare la 180. E' una dimostrazione profondissima di tutto quello che è stato fatto dall'inizio degli anni 60, perché vuol dire che tutto quel che dicevamo allora era vero: che non c'è solo 'quel' modo per avere a che fare con chi soffre".

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