Il Manifesto - 30.10.97
LUIGI FERRAJOLI
C IO' CHE MI è sembrato più sorprendente del messaggio alle camere con cui il presidente della repubblica si è detto non disposto a concedere la grazia a Sofri, Pietrostefani e Bompressi è l'argomento da lui usato e ripetuto in coro da molti commentatori: "la grazia", egli ha scritto, "qualora applicata a breve distanza dalla sentenza definitiva di condanna, assumerebbe oggettivamente il significato di una valutazione di merito opposta a quella del magistrato, configurando un ulteriore grado di giudizio che non esiste nell'ordinamento e determinando un evidente pericolo di conflitto di fatto tra poteri".
Questo equivale a dire, come ha scritto ieri Rossana Rossanda, che nel nostro ordinamento la grazia, se non vuol confliggere con le pronunce della magistratura, è possibile solo per chi si proclami colpevole e come colpevole sia da tutti riconosciuto: che non può essere concessa, in altre parole, a chi si dichiara innocente e quindi non invoca clemenza ma giustizia. Ma questo non contrasta soltanto con la logica e con il senso di giustizia, ma anche con quanto è stabilito dalla legge, e precisamente dal nuovo codice di procedura penale, il quale ha introdotto il potere del capo dello stato di concedere la grazia "anche in assenza di domanda o proposta". Che senso avrebbe, infatti, un simile istituto, se la grazia d'ufficio - cioè non richiesta dai condannati, come è appunto il caso di Sofri, Pietrostefani e Bompressi - non fosse prevista, anziché come atto di clemenza, come intervento estremo ed equitativo proprio per quei casi straordinari in cui troppe ombre oscurano la credibilità di un processo e troppi dubbi rendono inaccettabile una condanna?
Di queste ombre - le dichiarazioni contraddittorie di un solo pentito non confermate come vorrebbe il codice da "altri elementi di prova", la loro acquisizione dopo 17 giorni di contatti segreti con i carabinieri, la distruzione dopo l'inizio del processo di tutti i corpi del reato, le anticipazioni di giudizio e le pressioni sui giurati del presidente della corte che pronunciò l'ultima condanna - si è a lungo parlato, e Scalfaro ne è perfettamente a conoscenza. Ma una di esse dovrebbe, in particolare, colpire la sua sensibilità istituzionale. Sofri, Bompressi e Pietrostefani furono assolti il 21 dicembre 1993 dalla corte d'assise di Milano. Questa sentenza fu però annullata dalla corte di cassazione perché viziata da "illogicità". Il giudice togato incaricato di redigerla, tradendo la volontà degli otto giudici popolari, scrisse infatti una motivazione colpevolista e quindi illogica per contrasto con il verdetto assolutorio. Fu questa illegittima motivazione che rappresentò, per usare le parole di Scalfaro, un'indebita "valutazione di merito opposta" a quella compiuta dalla magistratura giudicante e un atto di slealtà nei suoi confronti: tanto più grave perché "in conflitto" con quel frammento di sovranità popolare che si è espresso nel verdetto dei giudici popolari.
C'è infine un'incongruenza nel messaggio di Scalfaro. Dopo aver ricordato il suo precedente messaggio del 1996 nel quale affermò che "lo Stato democratico, se vuol essere ricco di umanità, non può non fermarsi per cercare una via che non abbia i caratteri della generalità, valutando con intensa cura le singole situazioni", Scalfaro ha nuovamente invitato "le Istituzioni cui la Costituzione attribuisce in materia specifici poteri" a "cercare una via che consenta, nei casi meritevoli, di far spazio gradualmente a un auspicabile recupero alla società". Ora queste istituzioni sono soltanto due: il parlamento, che nulla potrebbe fare "nei casi meritevoli" dato che ha competenza soltanto in materia di provvedimenti generali come l'amnistia e l'indulto, e lo stesso presidente, al quale compete il potere di grazia che è per l'appunto, per usare ancora le sue parole, l'unica "via che non abbia i caratteri della generalità".
Io penso che questa contraddizione sia il segno di un'incertezza del presidente nell'assumersi la responsabilità di una scelta certamente non facile; e che quindi essa lasci aperta la strada ad un suo possibile ripensamento. E' certo, comunque, che il peso di quella scelta continuerà a gravare sulla sua coscienza, fino alla scadenza del suo mandato, ed anche su quella di tutti i parlamentari, dai quali il suo messaggio sembra sollecitare, insieme a una riflessione e a una presa di posizione sul caso, una condivisione di responsabilità.