Il Messaggero - 23.04.98

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«Giorgiana Masi fu uccisa dall’arma di un autonomo»

di MASSIMO MARTINELLI

ROMA - Potrebbe essere scritta di nuovo la verità sulla morte di Giorgiana Masi, uccisa quando aveva diciannove anni a Roma, durante una manifestazione di piazza. Era il 12 maggio ’77, i radicali festeggiavano con un corteo non autorizzato la vittoria al referendum sul divorzio, ma quella festa diventò una guerra cittadina, che andò avanti per tutto il pomeriggio fino a sera. Giorgiana fu colpita alle spalle, mentre scappava sul ponte Garibaldi, verso Trastevere. Dietro di lei c’erano i Reparti Celere che caricavano. Da allora, per ventuno anni, il suo fidanzato, i suoi amici, i suoi compagni, hanno pensato e strillato che ad ucciderla fu la «violenza del regime», come è scritto anche sulla sua lapide a ponte Garibaldi.

Ieri, invece, è arrivata un’altra chiave di lettura. In un rapporto segretissimo della Digos di Roma, depositato in Procura, c’è scritto che a uccidere la povera Giorgiana potrebbe essere stata un’arma che poi fu ritrovata in un arsenale brigatista. E che a premere il grilletto potrebbe essere stato un giovane che non faceva parte delle forze dell’ordine, neanche degli agenti in borghese che quel pomeriggio si travestirono da autonomi e furono visti puntare le loro pistole. Quel ragazzo che potrebbe aver ucciso Giorgiana Masi morì qualche tempo dopo; era il fratello di una brigatista rossa, Mara Nanni, arrestata nell’ottobre ’79 insieme a Prospero Gallinari, grazie ad una soffiata arrivata dalla Germania. E’ questa l’ultima pista per spiegare la morte assurda di una ragazza che credeva che la politica significasse aiutare gli anziani e quelli più poveri di lei, che non sapeva nulla di trame e di agenti provocatori, che aveva un fidanzato che subito dopo il delitto provò lui stesso a suicidarsi.

Oggi, sarà il pm Giovanni Salvi a dover accertare se la pista investigativa della Digos è quella giusta. Se davvero la povera Giorgiana fu uccisa da uno degli autonomi che quel giorno, anche loro travestiti da tranquilli manifestanti, soffiarono sul fuoco per far esplodere la violenza. Ieri il magistrato ha alzato un muro di silenzio: «Stiamo indagando in tutte le direzioni possibili, nessuna esclusa. Non si può dire di più». Sembra già un passo avanti, perché fino a qualche tempo fa la pista investigativa privilegiata portava nella direzione opposta a quella suggerita dalla Digos. Esattamente un anno fa, il pm Salvi raccolse la testimonianza del senatore verde Athos De Luca, che a sua volta aveva ascoltato in carcere il racconto di Angelo Izzo, estremista di destra e condannato per il massacro del Circeo. Secondo Izzo, a uccidere Giorgiana Masi era stato Andrea Ghira, suo ex camerata, condannato anche lui per il massacro del Circeo. Ghira, al contrario di Izzo, è rimasto latitante fin dai tempi del processo. Quindi anche quando fu uccisa Giorgiana Masi. E secondo Izzo, quel 12 maggio ’77 era a Roma, a Ponte Garibaldi, per sparare sui manifestanti. Per la precisione, secondo la ricostruzione di Izzo, Andrea Ghira avrebbe sparato «per colpire una femminista».

La prima inchiesta sulla morte di Giorgiana Masi si concluse a maggio del 1981, quattro anni dopo i fatti. Non ci fu nessuno processo, ma solo una sentenza istruttoria di «non doversi procedere per essere rimasti ignoti i responsabili del reato». La firmò il giudice istruttore Claudio D’Angelo, dopo aver esaminato una per una le numerose denunce che arrivarono in Procura dopo il delitto. Tutte le denunce, sostanzialmente, ipotizzavano la responsabilità delle forze dell’ordine, segnalando la presenza di agenti di polizia in borghese, in maglione e borsa di Tolfa, mischiati ai manifestanti e con la pistola in mano. D’Angelo, nella sua inchiesta, accertò che era vero: c’era una squadra in borghese agli ordini del commissario Gianni Carnevale, ma intervenne dopo gli scontri. E chiuse la sua sentenza istruttoria con un passaggio che, riletto oggi, fa pensare: «E’ netta sensazione dello scrivente che mistificatori, provocatori e sciacalli (estranei sia alle forze dell’ordine sia alle consolidate tradizione del partito radicale, che della non-violenza ha sempre fatto il proprio nobile emblema), dopo aver provocato i tutori dell’ordine ferendo il sottufficiale Francesco Ruggero, attesero il momento in cui gli stessi decisero di sbaraccare le costituite barricate e disperdere i dimostranti, per affondare i vili e insensati colpi mortali, sparando indiscriminatamente contro i dimostranti e i tutori dell’ordine». All’epoca, la complicata prosa giuridica di D’Angelo fu bollata come il goffo tentativo di proteggere responsabilità di Stato. Oggi potrebbe arrivare invece la conferma che quella volta, a piazzale Clodio, qualcuno aveva intuito la verità.

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