XIII.
Lo schifo
Ho
dentro tutto lo schifo del mondo, ne sono gonfio.
La mia pelle all’estremo fino a farsi trasparente nello spazio dove lo schifo
ha deciso di premere per crearsi un varco, e spinge, prova una lacerazione.
Per tre lunghe ore la nausea mi ha piegato come una camicia bianca appena
stirata aleggiandomi intorno come celofan.
Ho impiegato tre lunghe ore a capire individuare enumerare tutto il pattume e il
marciume che mi stava infettando fra una scoreggia e una carezza sull’anca
sinistra.
Per tre ore ho urlato, mi sono scarnificato la gola chiamando tutta la mia
latitante forza fra una bestiemma e un insulto, mentre divise estasiate dal
proprio mestiere m’aprivano con la lama sottile d’un temperino.
Mi aprono il colon e scoppiano a ridere quando la biscia che mi abita le viscere
fa capolino e impaurita da tanta luce subito si va a nascondere sotto il fegato
squarciandolo dopo avermi sbavato il pancreas. Saltano i denti alle cicatrici
dello stomaco disgustato da tanto viscidume e dalla patta sbottonata gli schizza
fuori un fiotto di blob rosso sangue turbato dalle intromissioni impudenti di
puss giallo-diarrea e ocra. Conati di vomito si susseguono senza avere il tempo
di raccontarsi qualcosa o salutarsi. Il cuore mi sbatte in gola.
La grandine sbatte su vetri unti e rattoppati con lo scotch; i tuoni e lo
scroscio dell’acqua da una gronda rotta afferrano l’attenzione
dell’attonita bimba di uno dei miei carnefici: ride di cuore quando dalle
nuvole esce fuori il sole.
Almeno negli ambulatori le immagini sono un po’ più vive.
Mi hanno aperto alla ricerca di prove indiziarie dell’esistenza reale dello
schifo. Eccolo! prendetevelo pure; io non so riciclarlo, non so farne merce, non
ne sono capace!
Mi riportarono nella mia stanza: Il mio compagno poggiato su un fianco sul letto
leggeva. Mi poggiarono sul letto – Y913 –, quindi uscirono. Lui venne verso
me.
Hai mai letto la condanna?
No. La testa mi girava insetti bianchi
danzavano fra me e la mia vista.
Tieni. Tornò verso il letto; da sotto
il materasso tirò fuori una borsa e ne vuotò il contenuto sul cuscino: un
diario delle foto una corda e altro che dal mio letto non riuscii a distinguere.
Con una scatola nera venne verso me, accostò la sedia al letto e all’altezza
del mio fianco l’aprì. Era foderata d’un morbido indaco e conteneva un set
di oggetti in cristallo lavorato a losanghe: una ciotola un piccolo scrigno e un
lungo e sottile bocchino. Dallo scrigno tirò fuori una barretta di fondente e
la sciolse nella ciotola mischiandola con del tabacco; con questa mistura riempì
il bocchino e accese.
Ma ti vedono! – mi preoccupavo senza
un reale motivo.
E chi se ne frega, tanto qui siamo tutti condannati, io soprattutto. E
poi per me questa è una nottata particolare. Tu fumi?
Sì, sì! Grazie.
Perché non mi racconti qualcosa di te? Che ne so … tipo, perché sei qui …