Questo sistema di regolazione complessiva è saltato, è entrato in crisi sotto una doppia pressione: una trasformazione dei mercati (globali e saturi) e dello sviluppo tecnologico che ha determinato tassi di produttività e di crescita dei mercati elevatissimi. E' entrato in crisi con la crisi della società salariale, della società in cui il lavoro salariato era elemento centrale. Ci ha posti di fronte ad un'economia che si sviluppa producendo non più ordine ma disordine, ed una politica che non riesce a compensare il disordine generato.
Su questo nasce e si espande un'area che si dichiara né stato né mercato e che cerca ancora di definire i propri confini. Come spesso accade nei processi di trasformazione profonda, nelle rivoluzioni passive come le chiamava Gramsci, processi che cambiano alla radice la natura dei rapporti sociali, pur non esprimendo un soggetto rivoluzionario capace di gestire la trasformazione e pur confermando dei rapporti di potere sostanziali (come nella terza rivoluzione industriale) i fenomeni di novità si pongono all'incrocio tra la domanda del capitale e la domanda antagonistica e sono attraversati completamente dell'ambivalenza e dall'ambiguità di questa natura.
Il no-profit non fa eccezione: ha tutti i segni del post-fordismo e sicuramente in U.S.A. è l'espediente attraverso cui si gestisce lo smantellamento del Welfare, è ilo puntello attraverso il quale si cerca di impedire che il disordine dilaghi, pur in presenza di una forte deresponsabilizzazione dei poteri centrali del capitale rispetto all'ordine sociale. In Italia, ancor peggio, è il modo in cui le grandi burocrazie pubbliche praticano l'outsourcing, l'equivalente di ciò che praticano le imprese attraverso il decentramento produttivi e l'esternalizzazione delle funzioni, la precarizzazione del lavoro per ricercare la riduzione dei costi. Sicuramente c'è questa dimensione nella grande crescita del no-profit e prove ne è che spesso i protagonisti sono le grandi istituzioni finanziarie, capitalistiche, tra cui una delle prime ad intervenire nel dibattito è stata la fondazione Agnelli. Molto spesso è il sistema bancario che gestisce il drenaggio delle risorse da orientare, poiché il no-profit viene concepito come un settore tampone delle contraddizioni che l'economia generalizzata post-fordista genera. Nello stesso tempo, si colloca su un'altra domanda che cresce ed è cresciuta come disagio all'interno del Welfare, e che tende ad estendersi sempre più mano a mano che le vecchie strategie della trasformazione entrano in crisi. C'è sicuramente un disagio dello Stato Sociale. Oggi, di fronte alla sua ritirata la sinistra prova una sorta di riflesso condizionato e tende ad idealizzare il Welfare. In realtà questo, oltre ad essere una macchina che ha generato diritti universali e sicurezza generalizzata, è stato anche un gigantesco dispositivo che ha distrutto autonomia, autonomie sociali e individuali, che ha trasformato soggetti collettivi attivi sulla scena sociale in passivi percettori di servizi, che ha dato un forte potere alle burocrazie pubbliche ed alle loro logiche impersonali rispetto alla ricchezza in sé dei soggetti. E' stato il prodotto di uno scambio in cui alla sicurezza ricevuta si è risposto alienando autonomia. La precondizione di quel meccanismo era l'accettazione da parte del lavoro salariato della propria condizione di merce, era la rinuncia a far valere nel processo di lavoro la propria autonomia strategica. Era l'accettazione piena delle gerarchie di consumo che venivano definite.
E' cresciuto un senso di malessere nei confronti della perdita di autonomia che il Welfare ha generato, proprio mentre entrava in crisi la strategia della trasformazione sociale che ha dominato il '900. Le diverse anime della sinistra (sia quella "bolscevica", comunista, che quella socialista, gradualista) pur nelle differenze, immaginavano la rivoluzione o la trasformazione qualitativa della società come un processo trainato dallo Stato. Era lo Stato la grande scoperta della II e III internazionale. Lo Stato, la leva per far saltare la società del capitale, o correggerla dall'interno e guidare la transizione ad una società diversa. L'alterità, che è sempre stato un elemento d'identità della sinistra, aveva individuato come mezzo strategico lo Stato: la statualità per ridare socialità a una serie di relazioni sociali che rischiavano di perderla per combattere l'egoismo capitalistico. Questa idea forte è saltata: incentrata sull'asse del conflitto di fabbrica, anzi la fabbrica come straordinario collettore di energie sociali unificate, centralizzate e canalizzate dal partito e trasferite nello Stato, come macchina per cambiare la società. Questo meccanismo è saltato perché la fabbrica oggi funziona come luogo di scomposizione e subalternità strategica all'impresa, perché lo Stato non ha più l'autonomia che aveva nell'epoca in cui esistevano mercati strettamente nazionali, e quindi in cui esisteva una sovranità nazionale effettiva sull'economia e sulla ricchezza. In ultimo, il partito non può più svolgere questo ruolo; anzi, assistiamo al fatto perverso per cui le macchine socialdemocratiche non cessano di operare, ma incominciano a farlo alla rovescia: non per redistribuire la ricchezza all'interno di tutta la società, per gestire il conflitto distributivo verticale tra capitale e lavoro, ma si limitano a distribuire una parte della ricchezza, quella lasciata al fondo salari, in conflitti orizzontali. La macchina socialdemocratica, D'Alema ne è un emblema, redistribuisce ormai risorse tra pensionati e disoccupati, non più tra capitale e lavoro. La ricchezza generata e non redistribuita oggi viene monopolizzata dal sistema delle imprese e finalizzata alla loro conflittualità globale.
Questa posizioni dicono che la ricchezza prodotta dagli aumenti della produttività non è disponibile, perché serve alla competizione globale delle imprese, allo scontro mortale che si combatte; può essere distribuita solo una quota fissa che il capitale globale lascia alla guerra tra i poveri.
Il problema del dove si possa immaginare e costruire una società altra si pone in modo drammatico. Non più una società che possa essere progettata dallo Stato, In fondo nel leninismo vi era una forte assonanza con il taylorismo: il progetto passava per l'ufficio tempi e metodi del piano, o dal gruppo di decisori strategici del partito socialdemocratico. La nuova società deve essere ripensata e così i suoi luoghi di generazione. Io credo che questo terreno creato dal post-fordismo, quello del no-profit, viene ad essere un terreno su cui può e deve scaricarsi questa richiesta di alterità; diventa un luogo di conflitto su cui diversi progetti di società vengono a scontrarsi.
In realtà, il '900 si è impiantato in parte contro le forme dell'autonomia di classe originaria, di una classe non ancora "inclusa" e che elaborava i propri strumenti di autogoverno ed autoproduzione di servizi, finalizzati alla sopravvivenza, nelle casse di resistenza, casse di malattia autogestite. Il modello novecentesco che si esprime nella vittoria di Turati in Italia, in quella di Kautsky in Germania e che ha nel primo dopoguerra un momento di conflitto violento con le esperienze dissidenti: abbiamo l'esperimento consiliare tedesco del 1919, represso dai Freikorps e di Noske, abbiamo Kronstadt spianata dalle guardie rosse di Trockij, abbiamo la dissoluzione e il pervertimento di una parte del sindacalismo rivoluzionario, che si spacca. Questo percorso non è affatto lineare. L'autonomia originaria viene sconfitta e resiste nell'altro movimento operaio, quello analizzato da Karl Heinz Roth, in una tendenza sotterranea che si esprime in qualche movimento di rottura della superficie fordista, ma non vince.
Oggi si tratta, all'uscita di questa parentesi, uscendo dallo scavo che quest'enorme talpa ha prodotto nel '900, laddove il fordismo entra in crisi, si tratta di rivalorizzare queste domande d'autonomia che sono antiburocratiche, fondate sull'idea dell'autovalorizzazione, dell'autogoverno, dell'autorganizzazione, che hanno l'autonomia di classe, soggettiva al proprio centro e la cui sfida è quella di riuscire a realizzare la trasformazione attraverso il "fare". In fondo la trasformazione novecentesca era affidata al potere, ora si tratta di affidarla alla cooperazione, ai modi del cooperare. Di qui l'importanza strategica del no-profit, non giudicando solamente l'output che questo genera e non valutando no-profit una realtà solo in relazione al tipo di beni prodotti, ma soprattutto tenendo conto del modo in cui li produce. Qui il conflitto si apre: perché il no-profit subalterno al mercato continua a riprodurre rapporti di lavoro di tipo capitalistico, in cui non viene messo in discussione il modo di produrre, tutt'al più il modo di distribuire il prodotto secondo criteri non legati al massimo utile...
Io credo, per esempio, che sia necessaria una lotta contro i processi di concentrazione, i quali sono anche processi di burocratizzazione che riproducono rapidamente i modelli statalistici del '900, poiché nel momento in cui si scatenano, in cui è l'ARCI a gestirli nella sua megadimensione, tutto il reticolo dell'autorganizzazione viene di conseguenza schiacciato. E' possibile una battaglia contro tutto ciò organizzando in rete le strutture e le esperienze d'economia sociale contro la monopolizzazione delle risorse da parte delle nuove burocrazie. Credo che una delle opposizioni discriminanti dell'epoca in cui viviamo e stiamo entrando sia quella periferia/centro, autorganizzazione contro burocratizzazione. Su questo terreno lo scontro si va sviluppando a tutti i livelli, comprese le contraddizioni intercapitalistiche: ad esempio nel territorio torinese vediamo la crescente contraddizione tra il modo in cui si muove la FIAT e la logica con cui si muove il pulviscolo di piccole imprese asservite alla catena della subfornitura. In ciò che avviene nell'amministrazione pubblica vi è una divaricazione crescente tra il modo con cui le autonomie locali cercano di strutturarsi e le burocrazie centrali cercano di mantenere monopoli di decisione. Così nel no-profit vediamo come lo scontro sia tra chi tende a ridurre ai processi di ristrutturazione complessivi l'area della spontaneità, del volontariato, dell'antagonismo e chi cerca di difenderli. Credo che questo sia il crinale...
Il secondo merito è l'aver messo insieme tre obiettivi che tradizionalmente venivano agitati separatamente, quando non in maniera contrapposta. I teorici della riduzione d'orario guardavano con sospetto l'economia sociale, i teorici di quest'ultima consideravano con severità ipotesi di reddito di cittadinanza, anzi loro parlavano di reddito minimo incondizionato. I promotori di questo, infine, se ne fregano della riduzione d'orario e manifestavano spesso ostilità verso il terzo settore.
I 35 hanno coniugato queste tre posizioni/obiettivi dimostrando come ognuno di questi, separatamente, rischi di essere ambiguo e controproducente. L'unica possibilità di farli funzionare come motore di trasformazione è tenerli insieme e considerarli inseparabili. Rappresentano una macchina circolare dove se ci si limita a sostenere il terzo settore senza lottare per la riduzione d'orario rischiamo il conflitto orizzontale tra lavoratori industriali centrali o dipendenti pubblici e cooperatori del terzo settore. Se ci limitiamo a produrre un reddito minimo di cittadinanza senza costruire contemporaneamente un terreno di economia alternativa non facciamo altro che oliare la macchina della flessibilità della forza lavoro, desocializziamo il lavoro dando libertà agli imprenditori di liberarsene. Mettere insieme le tre cose avvia un meccanismo capace di generare riaggregazione conflittuale, la quale non passi accanto alle contraddizioni del nostro tempo ignorandole, ma sia in grado di intervenire, dando loro un senso, strutturando il conflitto.
Oggi mi sembrano in sofferenza. Per certi versi, l'aver occupato un terreno prima degli altri invece di liberarne le potenzialità mi sembra li abbia lacerati, soprattutto nell'ultimo anno, e divisi in due tentazioni entrambe minoritarie. Da una parte la tentazione di fare del microsindacalismo di nicchia, quindi di rappresentare in modo fordista i lavoratori post-fordisti in alcuni settori dove il sistema della rappresentanza sociale sindacale non opera,
Dall'altra parte, la tentazione di fare il passo verso l'impresa sociale, di porsi il problema di produrre per la propria composizione sociale, senza però riuscire a generare al proprio interno la cultura capace di esercitare controllo su questo processo; senza la quale su questo terreno si assumono dei rischi, il rischio di trasformarsi in microimprese, anch'esse di nicchia, che gestiscono l'alterità sociale, fornendogli "gadgets et circenses"; un altro rischio dell'oggi è il pericolo di trasformarsi in una rete di birrerie territorializzate di sinistra che godano di un indubbio vantaggio competitivo e di un regime fiscale incerto.
Invece, mi sembra che non dovrebbe sfuggire la grandezza del compito, della sfida. Qui si tratta di aprire una nuova via alla costruzione di un modello antagonistico di società, attraverso l'apertura di microlaboratori di società. In fondo, la rivoluzione borghese è maturata così, non è esplosa con il 1789, si è preparata attraverso una costruzione lenticolare di spazi sociali governati da forme altre ed antagoniste di cooperazione...
Sui linguaggi i CSOA hanno sviluppato molto, ma molto era espressione di un circuito basso, artigianale, spesso poi attraversato verso un circuito alto, di mercato.
Oggi, la necessità è riuscire a costruire rapporti di produzione di società altra, su basi di eccellenza tecnologica, perché oggi vi sono le potenzialità per un rapporto sovversivo con le tecnologie di punta. Si pone la possibilità di costruire negli spazi liberati linguaggi, modelli di interazione, controllati culturalmente. Non possono essere lasciati allo stato di natura. Bisogna costruire un'etica antagonistica, che sia in grado di controllare questi esperimenti e dargli fiato.