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Fonte: pubblicato sul sito http://www.autprol.org
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Presentazione
Sabato 14 Dicembre 2002 si è svolta a Milano presso i locali dell'USI
in via Bligny una assemblea "contro il carcere, l'art. 41bis e i reati
associativi, contro l'attacco alle lotte sociali, a sostegno dei prigionieri
rivoluzionari e delle lotte di tutti i detenuti". Tale iniziativa, in
preparazione da alcuni mesi, è stata promossa da compagni con impostazioni,
metodologie di lavoro, esperienze differenti, accomunati dalla necessità
di far maturare, dentro il panorama di lotte politiche e sociali, un agire
collettivo contro il potere e i suoi strumenti di prevenzione, controllo e
repressione dello scontro di classe. Gli incontri settimanali che hanno preceduto
questo momento di discussione pubblica e l'attività di ricerca e di
elaborazione pregressa, anche e soprattutto frutto dell'impegno dei singoli
compagni, hanno portato alla pubblicazione di un dossier in una serie limitata
di copie, come occasione di contro-informazione e di socializzazione del lavoro
svolto, che preparasse il terreno per un primo tentativo di sensibilizzazione
e confronto. L'interesse riscosso per l'iniziativa, il dibattito formale e
informale, gli scambi e gli incontri avvenuti, hanno rafforzato la convinzione
di andare sempre più a fondo alle questioni sollevate.
Abbiamo sottolineato il dato positivo della partecipazione, anche se alcuni
tra di noi hanno rilevato che la strutturazione dell'assemblea - in particolare
le lunghe relazioni per lo più scritte che riprendevano largamente
i contenuti del dossier - abbia minato la possibilità di un dibattito
più vivace.
Vista la sostanziale novità dell'appuntamento, la particolarità
dei temi trattati e i vari orientamenti politici dei partecipanti, si pensa
che alcune rigidità dell'incontro non potevano essere smussate più
di tanto e che comunque sia servita anche per rompere il ghiaccio.
Non sono mancate proposte differenti e, implicitamente, l'invito a confrontarle
e a renderle operative, partendo dalla constatazione comune che il controllo
e la repressione sono un fatto quotidiano di ampie fette del proletariato,
delle minoranze agenti all'interno della classe, specificamente dei militanti
rivoluzionari. Si è scelto di aprire un confronto fuori da logiche
per così dire "emergenzialiste" e "individualiste",
che ci pongono sempre sul terreno della semplice reazione, quando si viene
colpiti dalla repressione, e che mobilitano i diretti interessati soltanto
nell'impellente necessità di auto-difesa giuridica, si tratti di singoli
compagni, gruppi o organizzazioni, come di aree politiche.
Controllo sociale e repressione sono aspetti inerenti allo scontro di classe
con cui fare i conti attraverso una progettualità di ampio respiro,
che abbia come proprio orizzonte la trasformazione radicale degli attuali
rapporti sociali e la distruzione di ogni sistema di dominio e delle sue articolazioni.
Fare contro-informazione, sviluppare iniziativa, lavorare concretamente sulla
complessità carceraria, cercando di stabilire quel rapporto di interazione
reciproca dentro/ fuori dal carcere e quella comunità d'intenti contro
le istituzioni totali, è una necessità imprescindibile per chi
non voglia avere sempre il fiato corto e stupirsi continuamente delle pratiche
repressive dello stato.
Solo i più criminali tra i mistificatori democratici vogliono occultare
la natura controrivoluzionaria dello stato, mitigando ogni spinta tendente
ad oltrepassare la timida reazione di indignazione innocentista, respingendo
con forza ogni pratica di azione diretta, bollata, sempre e comunque, come
criminale e destabilizzatrice dell'ordine sociale di cui sono i "sinistri"
custodi.
Mentre la macchina della detenzione offre ogni giorno prove della sua produttività
e la spirale della criminalizzazione e della carcerizzazione aumenta, dovremmo
forse rassegnarci ad una posizione di subalterna richiesta di clemenza attraverso
il ponte traballante delle forze politiche istituzionali?
Nel delirio feticista della salvaguardia dell'ordine costituito, della difesa
dell'esistente e degli spazi d'azione sempre più ridotti in tutti i
terreni del conflitto di classe, dovremmo farci complici diretti o indiretti
di una pratica che non porta solo alla sconfitta ma al martirio bello e buono
e all'abdicazione di ogni ipotesi realmente rivoluzionaria? Dovremmo infine
trattare il carcere con il piglio filantropico e umanitario che ci permetta
di lavare la falsa coscienza che questa società cristallizza, auspicando
forme alternative di controllo e repressione (lavoro coatto, terapeutici lavaggi
del cervello, carceri dal volto più umano, ecc.) oppure squarciare
la cortina di silenzio che lo circonda, insieme a chi ha lottato e lotta dentro
e fuori per la sua distruzione? La mole e la qualità del nostro sostegno
ai rivoluzionari prigionieri non deve semplicemente limitarsi alla contro-informazione
e alla raccolta di fondi, né tantomeno nascondersi dietro la difesa
umanitario-democratica delle vittime della repressione, magari di "regimi
dittatoriali" lontani, secondo una logica opportunistica di proporzionalità
tra solidarietà e distanza geografica.
Non bisogna unirsi a questo silenzio ipocrita e censorio che non fa che rafforzare
il potere stesso: il sostegno ai rivoluzionari prigionieri deve svilupparsi
all'interno di ogni ambito di intervento politico, come elemento qualificante
l'attività militante complessiva. Occorre far conoscere la voce di
tutti i compagni che sono e saranno incarcerati per le loro pratiche, la loro
scelta risoluta di non collaborare con la Giustizia, che non rinnegano il
proprio patrimonio di rivoluzionari, che non si rendono complici delle strategie
e delle tattiche che il potere usa per indebolire il conflitto.
La percezione di questa moderna malattia sociale, il carcere, sta cambiando
perché l'evidenza dei fatti, là dove la crisi si manifesta più
apertamente (Argentina, Palestina, Algeria, Corea del Sud, ecc.) e il compromesso
sociale ha meno capacità di tenuta, rende cosciente a sempre più
proletari la natura di classe del carcere e la sua necessaria distruzione.
Abbiamo prodotto questo nuovo dossier che comprende sia i contributi portati
in assemblea, sia le relazioni esposte dai compagni, che quelle che sono state
inviate per essere lette. Alcuni contributi sono stati modificati personalmente
da coloro che sono intervenuti affinché questi fossero più intelligibili
dai lettori. Abbiamo ritenuto importante ripubblicare, insieme alla totalità
degli interventi, il documento introduttivo all'assemblea del 14 Dicembre
perché ne erano state stampate soltanto un numero limitato di copie,
tra l'altro esauritesi in breve tempo.
Gli interventi si sono così strutturati:
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Parte prima
Dossier preparatorio all'assemblea del 14.12.2002
Quello che segue è un lavoro "a più mani", espressione
di punti di vista e esperienze di lotta differenti.
Pur conservando queste "diversità", ciò che accomuna
i compagni che hanno raccolto e prodotto il materiale di controinformazione
è il sentire comune della necessità di far maturare, dentro
il panorama di lotte politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere
e i suoi strumenti di prevenzione, controllo e repressione dello scontro di
classe.
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Introduzione
In vista, o agli albori, dell'applicazione dell'articolo 41bis in via definitiva,
e della sua messa in pratica non solo ai cosiddetti "mafiosi" e
a chi "traffica in esseri umani" ma anche ai rivoluzionari prigionieri,
riteniamo indispensabile stimolare un dibattito sia tra le diverse realtà
del movimento rivoluzionario, sia tra i detenuti e i loro familiari. Ci rendiamo
conto dell'enorme ritardo con cui ci approcciamo a questo dibattito, considerato
che l'articolo 41bis è in vigore dal 1991, ma questo ci è di
maggiore stimolo per mettere a punto una discussione che sappia socializzare
le diverse esperienze di lotta, confrontando le proposte che ne emergeranno
per poter meglio affrontare le lotte che questa ennesima manovra repressiva
potrà far scaturire all'interno e all'esterno del carcere. Tale dibattito
è indispensabile per non ritrovarsi ancora una volta impreparati di
fronte al nascere di una protesta, o rivolta, all'interno delle prigioni e
per poter meglio valutare le possibilità esistenti per uno sviluppo
ulteriore delle proteste, magari con metodi differenti da quelli fino ad ora
usati. Inoltre per riflettere e trovare soluzioni sulle modalità delle
possibili lotte fuori dalle galere in sintonia con quanto da dentro si porta
avanti. Le prigioni sono lo specchio del sociale, l'appendice di un ordine
imposto da quanti pretendono di dividere per sempre l'umanità in ricchi
e poveri, dove i poveri dovrebbero accontentarsi di elemosinare briciole al
banchetto dello Stato-Capitale. Parlare di galera significa parlare di punizione,
parlare di punizione significa parlare di trasgressione delle regole, e di
conseguenza, delle regole stesse. Chi impone queste ultime conoscerà
sempre chi, per desiderio o necessità, cercherà di infrangerle;
finché ci saranno ricchezza e povertà, ci sarà il furto;
finché ci sarà il danaro, non ce ne sarà mai abbastanza
per tutti; finché esisterà il potere, nasceranno i suoi fuorilegge.
È proprio nel tentativo di eliminare ogni fermento sociale che possa
fomentare rivolte contro l'ordine costituito, che i paesi europei - adeguandosi
al modello statunitense - si applicano nel dimostrare di saper tenere in pugno
la situazione sociale interna e nell'appianare i contrasti perfezionando il
controllo sociale e reprimendo il dissenso (dalle manifestazioni di piazza
alle lotte dei lavoratori, dall'occupazione di case ai sabotaggi diffusi contro
tutte le nocività).
Ciò avviene anche attraverso un rapido processo d'integrazione, legislativo,
giudiziario, militare (coordinamento delle polizie locali e dei servizi segreti,
mandato d'arresto europeo e internazionale, "liste nere" delle organizzazioni
rivoluzionarie, di liberazione nazionale o islamiche, applicazione del reato
di "terrorismo internazionale" a chiunque ne appoggi o ne condivida
la prassi o l'ideologia). Si rende necessario per il potere, Stato per Stato,
di rifunzionalizzare gli apparati repressivi adeguando il controllo sociale
allo scontro di classe in corso e alle contraddizioni che questa fase apre.
Assistiamo quotidianamente al suo funzionamento con l'aumento del fenomeno
d'irruzione nelle case dei compagni, delle perquisizioni nei centri sociali,
nella continua applicazione dei reati associativi, nel monitoraggio costante
e nel rastrellamento d'interi quartieri popolari per l'«emergenza criminalità»,
all'aumento dei posti di blocco, ai fermi arbitrari, alla detenzione nei lager
- detti centri di accoglienza temporanea - con conseguente espulsione degli
immigrati senza permesso di soggiorno. Lo spettro della carcerazione serve
per prolungare il controllo sociale così come ogni forma di repressione
serve per prolungare il consenso forzato. Allo stesso modo le carceri "speciali"
e la legislazione che le legittima (in passato l'articolo 90 e oggi il 41bis)
sono studiate per favorire il massimo controllo e la massima efficienza repressiva
e rispondono, per essere legittimate dall'opinione pubblica, ad esigenze considerate
"emergenziali" diventando, di fatto, strumenti integranti e di perfezionamento
del sistema di coercizione generale.
La lotta contro il carcere comprende molte differenze ed ha bisogno di confronto,
esclude però coloro che hanno a che fare con il potere e con ogni sua
istituzione, con tutti i suoi fiancheggiatori sociali. Chi dice carcere, infatti,
dice giudice, poliziotto, secondino, assistente sociale, giornalista, politico
(di governo o all'opposizione), costruttore, impresario, appaltatore, psicologo,
prete... responsabili diretti di tutte le angherie, soprusi, torture, privazioni
e sofferenze, di chi si trova ostaggio dello Stato. Essendo il carcere uno
degli strumenti che lo Stato si è dato per esercitare il proprio potere
non dobbiamo farci trovare né impreparati, né passivi, né
divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di dominio economico e
politico del capitale. Costruiamo una rete di controinformazione e mobilitazione
che, a partire dallo "specifico carcerario del 41bis" sostenga la
difesa dell'integrità psicofisica dei rivoluzionari prigionieri, la
loro identità politica la loro storia, una mobilitazione che sappia
indirizzarsi contro l'istituzione-carcere e i suoi sostenitori, per la libertà
di tutti. Ricostruiamo un terreno di solidarietà di classe anticapitalista
e antimperialista, con l'intento di individuare i modi più opportuni
per riuscire a sostenere concretamente le lotte individuali e collettive dei
prigionieri, cioè agire direttamente contro il potere e i suoi aguzzini.
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Sugli articoli 41 bis e 4 bis dell'Ordinamento
penitenziario
L'articolo 41bis dell'ordinamento penitenziario, la cui applicazione è
stata recentemente prolungata per tutta la legislatura ed estesa ai cosiddetti
reati di "terrorismo" è, insieme all'articolo 4 bis del medesimo
ordinamento, il risvolto carcerario dell'apparato repressivo che lo stato
ha dispiegato nell'emergenza criminalità organizzata a partire dalla
fine degli anni 80.
Il carcere duro, previsto dal 41 bis, ricalca modelli detentivi già
sperimentati con le carceri speciali istituite nel 1977 e l'applicazione dell'allora
articolo 90 per la madre di tutte le emergenze: la lotta armata. 41 bis e
4 bis si inseriscono storicamente in un contesto penitenziario segnato dalla
approvazione della legge Gozzini (1986) e delle leggi sulla dissociazione
e il pentitismo.
Il carcere è diventato il luogo del reinserimento premiale. Quale ulteriore
elemento di differenziazione, gli articoli 41 bis e 4 bis inseriscono il mancato
accesso ai benefici premiali in base alla condanna. L'unico modo per potervi
accedere consiste nella collaborazione alle indagini e nell'accertamento di
cessato collegamento con l'«organizzazione» esterna. Il 4 bis
impedisce l'accesso ai benefici di legge (lavoro all'esterno, permessi, licenze,
detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento ai servizi sociali
o ai programmi terapeutici); il 41 bis, oltre ad escludere i benefici, istituisce
il carcere duro in cui sono sospese le normali regole di trattamento
penitenziario. Con lo scopo di mantenere un condizionamento premiale anche
per le persone sottoposte a 4 bis e 41 bis la liberazione anticipata è
condizionata alla buona condotta interna al carcere: essa viene conteggiata
sulla base delle relazioni semestrali di buona condotta formulate dal carcere,
in maniera analoga alle altre persone detenute.
La nascita
Gli articoli 4 bis e 41 bis dell'ordinamento penitenziario sono provvedimenti
emergenziali introdotti a partire dall'inizio degli anni '90 (entrano in vigore
nella loro forma definitiva nel 1992).
Il decennio precedente era iniziato con le uccisioni di La Torre e Dalla Chiesa,
di quell'epoca sono il pool antimafia di Palermo guidato da Falcone, i maxiprocessi
e il ricorso al pentitismo. I primi provvedimenti di questa stagione dell'emergenza
"mafia" risalgono al 1982, subito dopo i due omicidi, quando è
istituito l'alto commissariato antimafia e viene approvata la legge Rognoni
- La Torre. Il codice penale contempla la nuova formulazione del reato associativo
di tipo mafioso definendo con l'articolo 416 bis l'associazione di tipo mafioso
"[...] quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. [...]"
Insieme all'articolo 416 bis l'altro reato che più
riguarda l'applicazione di 4 bis e 41 bis è il sequestro di persona
a scopo di rapina o di estorsione definito dall'art. 630 del Codice Penale
quando si "[...] sequestra una persona allo scopo di conseguire, per
sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione
[...]".
A partire dagli anni '80 in nome della lotta alla "mafia" si estende
l'uso arbitrario di arresti e custodia cautelare, pentitismo, certificazione
antimafia obbligatoria, militarizzazione del territorio. Nel 1986 viene approvata
la legge Gozzini e tre anni dopo entra in vigore il nuovo codice di procedura
penale.
La premialità genera una prima differenziazione tra chi accede ai benefici
e chi no, oltre a creare circuiti premiali differenziati per il reinserimento
lavorativo, terapeutico o frutto della dissociazione e rivelazione di elementi
utili alle indagini. Come ulteriore grado di differenziazione e desolidarizzazione
il 4 bis e il 41 bis introducono, in base al reato, l'impossibilità
di accedere ai benefici a chi non si dissocia e fa i nomi dell'organizzazione
criminale ed eversiva. Dal 1992 la loro applicazione, la cui validità
è temporanea (semestrale), è stata sempre rinnovata, fino a
diventare nei fatti - e ora anche formalmente - regime penitenziario permanente.
Il 4 bis e il 41 bis sono il risvolto penitenziario di un apparato emergenziale
consolidatosi in Italia negli ultimi decenni contro la criminalità
organizzata e i reati considerati di "terrorismo": comitati provinciali
per l'ordine e la sicurezza pubblica, procura nazionale antimafia e procure
distrettuali, direzione investigativa antimafia, pool giudiziari, maxiprocessi,
pentitismo, reparti speciali delle forze armate e di polizia, militarizzazione
del territorio.
L'utilizzazione
Negli anni il 41 bis, non solo è stato regolarmente rinnovato, ma la
sua applicazione si è via via estesa a nuove categorie di reato e forme
di criminalità organizzata. Analogamente l'articolo 4 bis è
abbondantemente applicato quale punizione aggiuntiva per le persone detenute
nelle sezioni comuni, che in questo modo devono scontare, per intero, in carcere
la condanna. Già da qualche anno rientrano nell'applicazione del 41
bis le persone condannate per appartenenza ad organizzazioni criminali straniere,
così come la recente disposizione del governo estende l'uso del 41
bis all'emergenza "terrorismo" e ne prolunga la durata per i prossimi
quattro anni. Grazie alla loro formulazione gli articoli 4 bis e 41 bis sono
utilizzati in maniera diffusa. Essi comprendono qualsiasi tipo di "delitto"
teso ad agevolare l'attività delle organizzazioni e qualsiasi persona
indicata dalla procura nazionale antimafia. Nella criminalità organizzata
e per i reati considerati di "terrorismo" possono essere inclusi
numerosi fenomeni associativi, così come ampio è il ricorso
alle condanne per sequestro di persona. La loro introduzione ha avuto una
ricaduta negativa sulla concessione complessiva dei benefici, orientando tribunali
e magistratura di sorveglianza in senso restrittivo anche al di là
dei casi interessati dagli articoli 4 bis e 41 bis. L'applicazione dell'articolo
41 bis (il regime di carcere duro) è cresciuta negli anni e riguarda
circa 650 persone detenute; il 4 bis, che prevede l'esclusione dai benefici
e la detenzione in istituti e sezioni carcerarie comuni, è applicato
a migliaia di persone detenute.
Circuiti differenziati
Come nel 1977 era stato per l'istituzione delle carceri speciali e dell'articolo
90, così con il 41 bis il circuito penitenziario si diversifica con
propri regimi detentivi, istituti, sezioni, personale e strutture di riferimento
esterne. Le persone detenute in 41 bis sono sorvegliate da agenti di polizia
penitenziaria che non entrano in contatto con le sezioni comuni delle carceri.
I GOM (gruppo operativo mobile), quei massacratori che "pare" siano
stati scoperti per la prima volta durante il G8 di Genova, sono agenti speciali
della polizia penitenziaria, alle dirette dipendenze del ministero, incaricati
di effettuare ispezioni, trasferimenti e attività di intelligence carceraria
relativamente alle persone in 41 bis. Gli articoli 41 bis e 4 bis contengono
anche una differenziazione al proprio interno basata sulla creazione di tre
fasce di pericolosità dei reati cui corrispondono diversi gradi di
possibilità di accesso ai benefici.
Reati di prima fascia: 416 bis CP (associazione mafiosa), al fine di
agevolare l'attività delle associazioni del 416 bis CP, delitti art
630 CP (sequestro di persona), art 74 decreto del Pres. della Repubblica 9
ottobre 1990 n. 309 (traffico stupefacenti). Rientrano in questa fascia le
recenti formulazioni di reato di terrorismo (2002).
Reati di seconda fascia: come la prima fascia con circostanze attenuanti
art. 62 numero 6, art. 114 CP, art. 116 secondo comma.
Reati di terza fascia: delitti commessi per finalità di terrorismo
o di eversione dell'ordinamento costituzionale, art. 575, 628 terzo comma,
629 secondo comma, art. 73 nelle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80 comma
2 del decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309.
Il procuratore nazionale antimafia e il procuratore distrettuale, su segnalazione
del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, hanno inoltre la facoltà
di stabilire l'applicazione degli articoli 4 bis e 41 bis a qualsiasi persona
detenuta ritenuta in collegamento con la criminalità organizzata, al
di là dei reati per cui essa è condannata.
Per i reati di prima fascia l'unica alternativa al carcere duro è
la collaborazione con l'autorità giudiziaria che porti benefici concreti
all'azione repressiva. Tale forma di collaborazione sulla base di una propria
disciplina specifica dà accesso a benefici e programmi di protezione.
Per i reati di seconda fascia occorre una collaborazione anche senza
effetti pratici sulle indagini e l'accertamento dell'esclusione di collegamenti
con la criminalità organizzata. Rispetto ai reati di terza fascia
la revoca è condizionata dall'esclusione di qualsiasi collegamento
con l'«organizzazione» esterna.
La differenziazione si ripercuote anche nei regimi detentivi di sicurezza
del 41 bis. Un regime iniziale di massima sicurezza estremamente duro, della
durata di almeno un anno e un regime ordinario di sicurezza speciale. Il primo
viene applicato con lo scopo di creare un isolamento completo e favorire la
confessione.
Limitazioni della difesa
La discrezionalità che l'articolo 41 bis prevede per gli apparati preposti
a verificarne la legittimità rende vano qualsiasi tentativo di ricorso
contro la sua applicazione, anche prima della sentenza di condanna definitiva.
Per revocare 41 bis e 4 bis, fuori dai casi di collaborazione, si deve escludere
qualsiasi collegamento con l'«organizzazione»esterna secondo le
informazioni fornite dall'apparato investigativo (sia giudiziario sia di polizia).
I collegamenti comprendono qualsivoglia rapporto o relazione con ambienti
o persone appartenenti alla criminalità organizzata, anche se non condannate
a tal riguardo. Rispetto ai collegamenti con le organizzazioni esterne vige
una presunzione di colpevolezza dettata dalla sentenza di condanna che ne
stabilisce l'esistenza al momento della commissione del delitto.
Per la revoca del 4 bis e 41 bis occorre una prova negativa che dimostri
la scomparsa di tali collegamenti e a fornirla devono essere gli apparati
giudiziari e di polizia. I colloqui con l'avvocato dentro il carcere si svolgono
con vetro divisorio e citofono o interfono. Nell'applicazione del 41 bis sono
previsti anche i processi in video-conferenza con la lontananza della persona
imputata dall'aula del dibattimento e il collegamento telefonico con la difesa.
Limitazioni dei contatti esterni
I contatti tra la persona detenuta e l'esterno sono volutamente limitati,
anche per quanto riguarda il nucleo familiare che è considerato dall'istituzione
un potenziale tramite con l'organizzazione esterna. Le persone sottoposte
a 41 bis sono detenute in carceri speciali, o sezioni speciali di istituti,
in città distanti da quelle di provenienza; i colloqui sono limitati
nel tempo (più di quanto imposto alle altre persone detenute) e nelle
forme (vetri divisori e controlli).
Il regime 41 bis di massima sicurezza prevede un unico colloquio al
mese, quello di speciale sicurezza ne prevede da due a quattro che
si svolgono in un locale molto piccolo, una sorta di acquario col vetro divisorio
fino al soffitto, telecamera e citofoni per parlare con i parenti; a volte
questi "locali" sono di 1 metro per 1 metro e i familiari devono
fare i turni per parlare al citofono.
Le restrizioni riguardano anche i colloqui telefonici che non possono essere
effettuati verso le abitazioni di residenza della famiglia né ad apparecchi
mobili. I famigliari, su appuntamento, si devono recare presso il carcere
cittadino e da lì ricevere le telefonate per una durata inferiore di
quella concessa con la detenzione ordinaria. Sono penalizzati anche i pacchi
dall'esterno e la posta. C'è il visto di controllo sulla corrispondenza
in arrivo e in partenza: le lettere in arrivo vengono aperte e controllate,
quelle in partenza devono essere consegnate aperte.
Limitazioni della vivibilità interna
Le sezioni del 41bis sono sempre in una palazzina separata dal resto del carcere
e 6 di queste hanno una cosiddetta "Area Riservata" per i detenuti
definiti "eccellenti". Solitamente sono al piano terra della sezione,
quella meno areata e illuminata del carcere, con il cesso nella cella posto
dietro un muretto. Il "passeggio" di quei detenuti più "speciali"
degli altri è una sorta di gabbia in cemento armato di due, tre metri
per cinque e alta tre metri, chiusa in cima da una pesante rete metallica
a maglie molto strette, il tutto video sorvegliato. In queste aree possono
finirci anche detenuti che non hanno commesso grossi reati o che sono prossimi
al fine pena.
Le sezioni "normali" del 41bis hanno un bagno separato.
In alcune sezioni (Cuneo, L'Aquila, Viterbo) ci sono fino a tre sbarramenti
alle finestre delle celle: il primo di sbarre vere e proprie, il secondo di
una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una serie di fasce di ferro o
di vetro anti-scasso attaccate una sopra l'altra a formare una specie di tapparella
("gelosia" in gergo penitenziario) leggermente inclinata verso l'esterno,
dalla quale filtra poca aria e poca luce, con conseguente abbassamento della
vista. Il 41 bis prevede poche ore d'aria e durante queste limita le possibilità
d'incontro tra le persone detenute a piccoli gruppi (da due a otto persone)
o in solitudine. Non si ha accesso alle strutture sportive e ai luoghi di
socialità comune. Il passeggio è confinato a vasche di cemento.
La lista di beni alimentari acquistabili con la spesa è limitata, non
si possono cucinare le pietanze, né si ha accesso alla commissione
di controllo in cucina. Le numerose restrizioni riguardano gli oggetti consentiti
in cella, comprese le fotografie, le musicassette e le bottiglie. Le persone
sottoposte a regime 41 bis sono escluse dai programmi didattici e dalla frequentazione
di scuole e corsi interni al carcere. È limitato l'accesso alle biblioteche
e i contatti con il volontariato, così come la scelta di giornali e
riviste. Si può tenere in cella un numero ridotto di libri, fascicoli,
quaderni e penne. Sono vietate le pubblicazioni con copertina rigida.
E ancora...
Oltre a tutto ciò che il 41 bis prevede per legge e nelle circolari
di applicazione, c'è un settore sommerso di diversi comportamenti extra
legali che ha luogo nelle diverse carceri e sezioni. Notizie di maltrattamenti,
pestaggi, torture, soprusi e vere e proprie esecuzioni sono emerse da dietro
le mura. In ogni istituto o sezione 41 bis esistono particolari tipi di vessazione
imposti dagli agenti penitenziari, dalla direzione o dalla magistratura e
tribunali di sorveglianza.
Conclusioni
Sino a qui, ciò che è stato e ciò che è a tutt'oggi.
Con le nuove leggi europee si allargano le possibilità repressive che
gli Stati si sono dati per controllare e reprimere il dissenso.
Difatti, in materia di legislazione europea, si arriva a prevedere il fine
terrorista anche per i reati di "occupazione abusiva o danneggiamento
di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto pubblico, luoghi
e beni pubblici (...) cui potrebbero rientrare gli atti di guerriglia urbana".
Qualsiasi forma di dissenso politico che travalichi o minacci la legalità
è terrorismo, quindi anche qui è possibile che venga applicato
l'art. 41bis a chi verrà imputato di tali azioni.
Appare subito evidente che se non iniziamo ad opporci concretamente, presto
ci ritroveremo di fronte ad enormi difficoltà di movimento.
La storia ci ha insegnato che è sempre nei momenti di abbassamento
del livello di scontro che il potere trova il tempo e i modi per razionalizzarsi
e approntare i propri mezzi di difesa e attacco contro gli sfruttati e chi
si ribella. E non credano, coloro che sono abituati a dialogare con le Autorità,
o che pensano (ragionando in termini di slogan) che "fare la tal cosa
non è reato", di essere esenti dalle attenzioni repressive.
Le ultime incriminazioni per il reato di associazione sovversiva sono state
costruite partendo dalla contestazione di reati di entità notevolmente
differente, come l'attentato, la rapina, il danneggiamento, la propaganda,
il furto di un auto e, da ultimo - per le nuove disposizioni europee - anche
gli incidenti durante le manifestazioni e l'interruzione di pubblico servizio.
Qualsiasi reato potrà essere contestato con l'aggravante "terrorismo",
di conseguenza chiunque potrà finire nei circuiti del 41bis.
È una cosa che riguarda tutti, ladri, ribelli, rivoluzionari e antagonisti,
chiunque violi, per scelta o necessità, il Codice Penale.
Carceri con sezioni del 41bis | Cuneo; L'Aquila; Marino del Tronto (AP); Novara; Parma;
Pisa (centro diagnostico terapeutico); Roma Rebibbia (femminile e maschile);
Secondigliano (NA); Spoleto; Terni; Tolmezzo (UD) Viterbo |
Detenuti in 41bis al 27.07.02 |
645 di cui 17 nell'area riservata |
Posizione giuridica | 421 definitivi; 55 ricorrenti; 81 appellanti; 79 in attesa di primo giudizio; 9 non classificati |
***
I GOM (Gruppo Operativo Mobile)
È un gruppo scelto di agenti di Polizia Penitenziaria che opera alle
dipendenze dirette del Direttore del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria
presso il Ministero di Giustizia. Questo corpo speciale nasce da un decreto
interno al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria nel 1997, sulla
base di indicazioni già contenute in un decreto del 1994, dopo che
era scoppiato lo scandalo dei pestaggi nel carcere di Napoli Secondigliano
- vedi il dossier del Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli "Da
Sassari a Poggioreale" del 2000 (http://www.ecn.org/ska/carcer/dossier.html)
-. Tra le finalità ufficiali di questa struttura vengono indicate il
mantenimento dell'ordine e della disciplina negli istituti penitenziari, con
priorità a interventi in occasione di "gravi situazioni di turbamento";
inoltre i Gom sono impegnati nel garantire la sicurezza delle traduzioni e
piantonamento relativi a detenuti ed internati definiti ad altissimo indice
di pericolosità e con particolare posizione processuale (collaboratori
di giustizia e altri), che possono essere effettuati, per motivi di sicurezza
e riservatezza, in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia,
con particolari modalità operative. Il GOM provvede, sia in via esclusiva
che di concorso, secondo specifiche disposizioni impartite dal Direttore Generale,
al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime di cui all'art.
41 bis dell'Ordinamento Penitenziario (carcere duro), laddove esista l'opportunità
di ulteriori misure di sicurezza, e dei "collaboratori di giustizia"
in stato di detenzione, ritenuti maggiormente esposti al rischio di aggressioni.
Infine al GOM competono i servizi di tutela e scorta del personale in servizio
presso l'Amministrazione penitenziaria esposto a particolari situazioni di
rischio personale (effettuati dal Nucleo Tutela e Scorte costituito da circa
50 unità), la traduzione di tutti i detenuti "collaboratori di
giustizia", ad altissimo rischio, la gestione del servizio di multivideocomunicazione
(processi in videoconferenza) e gli interventi disposti dal Direttore Generale
nei casi di emergenza previsti dall'art. 41 bis (irruzioni nelle celle, intercettazioni).
Il GOM, diretto dal Generale Alfonso Mattiello, è costituito da circa
600 uomini alle dirette dipendenze della Direzione del Dipartimento dell'Amministrazione
Penitenziaria. Ufficialmente ha compiti di sorveglianza e protezione dei detenuti
di massima pericolosità.
Come già scritto, il GOM nasce nel 1997, dalle ceneri dello Scop (Servizio
coordinamento operativo), un corpo composto da 500 uomini sparsi in tutta
Italia e pronti a correre da un carcere all'altro in caso di rivolte o di
particolari necessità.. Lo Scop infatti, oltre a sedare le proteste
ha avuto la funzione, poi ereditata dal Gom, di acquisire informazioni. Il
corpo speciale del GOM è il fiore all'occhiello del corpo di Polizia
Penitenziaria - si veda il sito http://www.poliziapenitenziaria.it
- e gode di cospicui finanziamenti. In realtà l'operato degli agenti
GOM si contraddistingue dalla particolare brutalità nelle ispezioni
che regolarmente si trasformano in devastazioni delle celle, degli oggetti
personali delle persone recluse, nonché maltrattamenti e soprusi nei
loro confronti. Proprio per questo si era pensato a un coinvolgimento dei
GOM nel pestaggio del carcere di Sassari dell'aprile 2000, sebbene sia poi
emerso che la presenza di agenti GOM fosse limitata a poche unità.
I GOM sono coperti dalla più totale impunità in quanto non rispondono
delle loro azioni né alla Direzione né al Comando delle guardie
dell'Istituto penitenziario in cui intervengono e godono dell'autorizzazione
a intervenire direttamente dal Ministero. Vengono anche utilizzati in modo
mirato per colpire i traffici che vedono il coinvolgimento di agenti penitenziari
locali. Durante gli anni '90 furono aperte due grandi inchieste per maltrattamenti
avvenuti nelle carceri di Secondigliano e Pianosa. Vennero rinviati a giudizio
65 agenti dello Scop diretti dal generale Enrico Ragosa, poi passato al Sisde
e adesso alla direzione dell'UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che dirige
l'attività dei GOM (http://www.giustizia.it/guidagiustizia/dap_ugap.htm).
Il carcere di Pianosa venne in seguito chiuso per intervento dell'ex direttore
del Dap, Alessandro Margara, all'epoca magistrato di sorveglianza a Firenze.
Oggi il ministro della Giustizia Castelli chiede la riapertura del carcere
di Pianosa, insieme a quella di altri istituti dismessi. Lo Scop fu poi disciolto
ma il suo posto fu preso dal GOM, dove confluirono gli stessi agenti. Nel
1998, 15 agenti GOM entrano nel carcere milanese di Opera per effettuare una
perquisizione straordinaria. Anche in quell'occasione si utilizzò il
paragone cileno: "Detenuti spogliati, qualcuno anche tre volte, costretti
a ripetuti piegamenti, pure i cardiopatici e gli anziani; quindi raggruppati
nel cortile, al freddo dalle 9.30 alle 13.30, chi in accappatoio, chi scalzo,
mentre le celle venivano perquisite". "Alcuni agenti di Opera erano
sconcertati, ed hanno raccontato di aver rischiato di arrivare alle mani con
i loro colleghi del Gom". Le richieste di scioglimento dei GOM in quell'occasione
non portarono a nessun risultato, anche se, come in passato per gli scandali
riguardanti lo Scop, nacque l'esigenza di cambiare la sigla del corpo, o confonderla
in quella di un ufficio di coordinamento. Nel 1999 Diliberto, ministro della
Giustizia del governo D'Alema, dopo aver posto ai vertici dell'Amministrazione
Penitenziaria Giancarlo Caselli in sostituzione di Margara, fa nascere l'UGAP
(Ufficio Garanzie Penitenziarie) che attualmente dirige l'attività
dei GOM. A capo dell'UGAP viene messo il generale Enrico Ragosa, già
degli Scop e del SISDE, che guiderà anche la spedizione di funzionari
del ministero di giustizia italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione
e riorganizzazione post-bellica del sistema penitenziario Kosovaro. Nel febbraio
del 2000 il GOM ottiene un distintivo di appartenenza, nel marzo 2000 agenti
dei GOM intercettano, in palese violazione della legislazione vigente, le
comunicazioni tra un imputato e il suo avvocato durante un processo per associazione
camorristica. Il Gruppo Operativo Mobile dispone di automezzi e autovetture,
anche protette. Il perfetto stato di efficienza dei mezzi, per l'immediato
impiego, è garantito dal Centro Servizi, ove opera personale di polizia
penitenziaria con specifica esperienza nel settore (circa 15 unità),
per il quale l'aumento delle esigenze operative, unitamente al potenziamento
della dotazione di veicoli, ha comportato un incremento notevole delle attività.
Il GOM ha operato ed opera presso le Case Circondariali di Roma "Rebibbia
Nuovo Complesso", Roma "Regina Coeli", Velletri, Viterbo, L'Aquila,
Ascoli Piceno, Pisa, Cuneo, Napoli "Secondigliano", Catanzaro, Agrigento,
Palermo "Ucciardone", Palermo "Pagliarelli", Trapani,
Novara, Tolmezzo, Alessandria, nonché presso le Case di Reclusione
di Spoleto, Sulmona e Parma.
***
Le carceri turche e le celle tipo "F"
La carcerazione speciale in Turchia necessita un discorso differente dal resto
dei regimi di detenzione europei. Essa deve la sua metamorfosi ad un percorso
d'integrazione al modello occidentale dei sistemi di contro rivoluzione preventiva
intrapreso dallo Stato turco.
La Turchia, dal punto di vista strategico militare, riveste un ruolo particolarmente
importante tra occidente e medio oriente, è quindi una base strategica
fondamentale per il guerrafondismo capitalista americano/occidentale - vedi
Iraq e Afghanistan. Lo Stato turco, come membro della Nato, fedele alleato
con le forze statunitensi nella nuova "guerra infinita al terrorismo"
e prossimo all'ingresso nell'Unione Europea, deve adeguare la propria immagine
di Paese dalle maniere repressive "primitive" ad una più
consona di Stato democratico, questo anche a riguardo alle patrie galere.
Esso deve rimodellare le sue carceri introducendo l'isolamento, prendendo
a modello le celle come quelle americane e spagnole, pur non disdegnando la
vecchia ma sempre praticata tortura e guadagnandosi il rispetto a suon d'asservimento
agli U.S.A., i quali contraccambiano regalando al regime di Ankara armi ed
elicotteri di propria fabbricazione.
Nel 1996 viene introdotta la prima cella di tipo "F" (F type).
Questa "innovazione" in campo carcerario persegue l'obiettivo d'isolare
i prigionieri politici dai detenuti comuni. L'applicazione dell'isolamento
nelle attuali condizioni delle carceri turche, peraltro, è di difficile
attuazione dato l'ammassamento dei prigionieri nelle celle comuni. Questa
prima cella tipo "F" fu accolta dai detenuti con uno sciopero della
fame che vide coinvolte 69 persone, tra le quali aderirono prigionieri comuni
islamici. Morirono 12 persone, riuscendo col loro gesto a far chiudere il
carcere in questione, non rendendo vana la loro lotta.
L'obiettivo delle celle di tipo "F" oltre che a voler dividere i
detenuti, è anche quello di distruggere l'identità rivoluzionaria
dei prigionieri politici, oltre che spingere al pentitismo, alla delazione
o alla dissociazione.
Numerose furono le rivolte, represse brutalmente dai secondini congiunti alla
Cevik Kuvvetleri (forze di azione rapida) e squadre anti-sommossa che
usarono largamente armi da fuoco e liquidi infiammabili. Clamorosi furono
i casi delle sanguinose sommosse negli anni '95, '96 e '99, costate la vita
a molti detenuti, e il ferimento di altre centinaia, che furono mutilati,
stuprati, torturati, resi irriconoscibili. I prigionieri di fronte a simili
barbarie, hanno sempre fronteggiato dignitosamente le istituzioni carcerarie
e la mafia interna (utilizzata per vere e proprie esecuzioni specialmente
per i detenuti in sciopero della fame) resistendo anche fino alla morte. Strumento
importante, per le lotte contro il carcere, utilizzato dai detenuti in Turchia
è lo sciopero della fame. Tra gli ultimi nell'Ottobre del 2000, 819
prigionieri politici in 18 carceri differenti iniziano uno sciopero della
fame ad oltranza. In seguito, in 13 carceri, 203 prigionieri politici trasformarono
la loro resistenza in uno sciopero della fame sino alla morte: 50 donne, 153
uomini.
Nel Dicembre 2000 questa lotta fu repressa brutalmente dallo Stato col fuoco
e le pallottole.
Ci sono state manifestazioni di protesta di massa in Turchia, con la partecipazione
di decine di organizzazioni, sindacati ed associazioni per i diritti umani:
tutti quelli che hanno protestato sono stati colpiti dalla repressione, con
diversi arresti e la chiusura di varie associazioni (tra cui quella delle
famiglie dei prigionieri, Tayad), giornali censurati, avvocati minacciati.
Lo Stato non è comunque riuscito, attraverso i massacri, a fermare
la campagna di scioperi della fame, nemmeno minacciando i dottori e continuando
la tortura attraverso l'alimentazione forzata e l'incatenamento dei prigionieri
ai letti.
Il 28 maggio 2002 i detenuti sanciscono la cessazione dello sciopero della
fame ad oltranza, ma questo non segnerà la fine delle lotte contro
le celle di tipo "F" promosse e appoggiate dai militanti rivoluzionari
e da molti detenuti comuni. La lotta cambierà le modalità ma
non perderà la sua forza nonostante la repressione tuttora in atto.
I prigionieri, quindi, continueranno a rivendicare: l'abolizione delle celle
di tipo "F"; la fine delle torture, sia fisiche sia psicologiche,
e dell'isolamento; l'introduzione periodica di controlli alle prigioni da
parte di avvocati addetti a questo compito, medici selezionati dai prigionieri,
delegati di organizzazioni che appoggiano i detenuti, O.N.G. per i diritti
umani e il sindacato della Magistratura; controlli non arbitrari e tutelati
dalla legge; l'abolizione della legge antiterrorismo n° 3713; la cancellazione
del protocollo tripartito (del Ministero della Giustizia, degli Affari Interni
e della Salute) che abolisce la difesa e legittima il trattamento coatto dei
malati e la tortura; l'abolizione del DGM (Corti di Sicurezza Statali) risalenti
al periodo della giunta; che siano processati i responsabili delle morti e
dei feriti causati dagli attacchi a diversi carceri; il rilascio dei malati
e dei feriti.
Tratto da "Solidaridad, por un Socorro Rojo international"
N. 5 ottobre 2002
Lo sciopero della fame più lungo di tutta la storia continua a verificarsi
nelle carceri turche di sterminio. I dati affermano che i nostri prigionieri,
quelli del TKEP/L, continuano la protesta ad oltranza. In maggio molte organizzazioni
decisero di porre fine allo sciopero ad oltranza fino alla morte, per ragioni
che non condividiamo fino in fondo, ma che sono da rispettare, soprattutto
quando continuano a dimostrare che la loro resistenza continua nelle carceri
di sterminio. Gli scioperi della fame, comunque, continuano e fino ad oggi
i morti rivoluzionari arrivano a 92. Anche le azioni di solidarietà,
gli incontri, le proiezioni di video e le iniziative contro la situazione
turca nel resto d'Europa stanno continuando apportando un grosso contributo
d'appoggio ai prigionieri in lotta. In risposta a queste rivolte ed espressioni
di resistenza e lotta, il DHKP/C è stato incluso nella lista delle
organizzazioni terroriste.
***
La carcerazione speciale in Spagna (i moduli
FIES)
Durante gli anni '70 e '80 in molte carceri della Spagna vi furono diverse
sommosse caratterizzate da vere e proprie rivolte, scioperi della fame e dei
laboratori di lavoro e parecchi morti e feriti tra i prigionieri e tra i carcerieri.
Alla fine di Gennaio del 1977 esce pubblicamente il "Manifesto dei prigionieri
sociali di Carabanchel", che è il risultato dello studio delle
cause della loro situazione e la sua possibile soluzione.
Si forma il coordinamento dei prigionieri in lotta (COPEL) che rivendica miglioramenti
concreti nelle carceri, un'amnistia totale, e l'abbattimento delle leggi e
delle strutture ereditate dal franchismo. A questa situazione lo Stato rispose
con una forte repressione, che comportò l'indebolimento e la successiva
scomparsa del COPEL. Nel 1991, mentre in Italia veniva istituito il 41bis,
in Spagna vengono instaurati i regimi speciali per i prigionieri F.I.E.S.
(archivio di interni in speciale osservazione), su richiesta dell'esponente
del partito socialista spagnolo (P.S.O.E.), Antoni Ansuncion.
Nel 1994 il Tribunale Costituzionale accordò di sospendere questo regime
FIES fino a quando si trasmise a questo Tribunale il ricorso di tutela di
diritti presentato da alcuni detenuti.
Dopo la promulgazione del nuovo regolamento penitenziario, la filosofia della
circolare del 2/8/91 che regola il regime al quale sono sottoposti i prigionieri
FIES, continua ad esistere.
Questo regime, la cui durata è a tempo indeterminato, prevede un isolamento
pressoché totale; i piccoli cortili per l'ora d'aria sono coperti da
reti metalliche; vengono effettuate perquisizioni integrali; esposizioni arbitrarie
ai raggi X; torture fisiche; trattamenti farmacologici con psicofarmaci e
letti di contenzione.
I moduli sono progettati e suddivisi in cinque sezioni e vi sono rinchiusi
individui catalogati in base alla loro pericolosità sociale:
Testimonianza tratta da una lettera di Claudio Lavazza,
arrestato nel '96 e da allora rinchiuso in un modulo F.I.E.S.
(...) "La proposta seria di lotta l'abbiamo pure lanciata ai quattro
venti ed è pubblicata nella rivista Senza Censura n°5 (giugno
2001, pag. 47) che, riassumendo, diceva: 'se ci costringete a vivere nella
merda, che nella merda ci vivano anche quelli che ci sorvegliano'. Si trattava
di otturare i cessi per far si che la tubatura scoppiasse in tutto il modulo
FIES, ed è quello che successe nel carcere di Picassent, a Valencia.
Dopo una settimana impiegata ad otturare i W.C. con stracci, borse di plastica,
ecc ... le tubature saltarono inondando di merda anche i locali normalmente
frequentati (per il loro lavoro) dai secondini, obbligandoli a chiudere immediatamente
l'intero modulo per il grave pericolo di infezioni, e anche perché
non avevano il coraggio di lavorare con mezzo metro di merda nel pavimento.
A me, noi non ce ne frega niente di rimanere mesi con la merda nelle celle...
però ai secondini sì che gli dà fastidio... eccome! Quante
volte abbiamo chiesto la chiusura dei Bracci FIES con i nostri scioperi della
fame? Però è bastato riempirli di merda per chiuderli momentaneamente...
Vi immaginate se tutti i Bracci FIES fossero riempiti di escrementi? Al potere
gli interessa solo l'economia, e l'esistenza sicura dei suoi servi, a questi
non basta un buon salario, chiedono anche buone condizioni nel posto di lavoro...
e con la merda non si scherza. Nessuno ci vuole avere a che fare. Questa grande
proposta l'abbiamo fatta circolare un po' dappertutto, assieme ad altre di
sabotaggi continui e ripetuti alle strutture di vigilanza e controllo, camere,
metal detector ecc., però non c'è stata risposta, se
non in poche situazioni. Il trucco, se così lo possiamo chiamare, è
di rompere e sabotare senza essere visti, senza che i cani possano accusarti
di aver fatto... Anche perché, per un vetro rotto ti possono aumentare
la condanna di due anni. (...) C'è chi si lamenta che le cose non sono
più come erano anni fa quando c'erano i compagni/e. Tenete presente
che quando circa 400 prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame solo
il 10% sarebbe stato d'accordo ad una lotta di bassa intensità (sabotaggi);
quella ad alta intensità (senza armi) non possiamo dichiararla, anche
perché queste strutture sono concepite in modo che la custodia ti possa
bloccare da solo con 15 o 20 secondini armati di tutto punto (anti-sommossa).
Però una cosa è chiara e deve esserlo per tutti quelli che soffrono
le torture e le ingiustizie, e cioè che niente deve essere dimenticato
e alla prima occasione, quando tu lo decidi e non loro, abbiamo il dovere
di vendicarci del torturatore. Ad es., a Jaen, nel carcere dove stavo prima,
se un compagno veniva torturato o insultato, quel giorno stesso e quella notte
si picchiavano le porte (non dormiva nessuno perché il rumore si poteva
sentire fino a parecchi Km di distanza), e poi insulti al direttore dalle
finestre, senza poi dimenticare la guerra di bassa intensità. Ci costava,
però quasi sempre ottenevamo quanto richiesto, vale a dire l'allontanamento
dei secondini torturatori, e ciò era sempre festeggiato da noi come
una vittoria. Di idee ce ne sono un mucchio, tanto scritte quanto dette, noi
le abbiamo anche messe in pratica e hanno funzionato. Se non si fa è
perché non si vuole o perché c'è molto da perdere. Chiaramente
se ci fosse un buon appoggio dal movimento esterno forse sarebbe diverso.
(...) A Cordoba si sente come maltrattano un prigioniero, però nessuno
protestava, cosa del tutto impensabile in un Modulo dove ci sono solo i più
ribelli con o senza preparazione politica. Questa mancanza di solidarietà
è dovuta alle differenze che creano i benefici penitenziari. Come nella
società libera chi ha di più è meno interessato alla
situazione di chi ha nulla. Un prigioniero FIES ha niente, per lui il carcere
è un inferno; uno in 2° grado ha quasi tutto, questo fa la differenza
e, credetemi, la distanza tra una realtà e l'altra la si può
calcolare in anni luce. (...)".
Maggio 2002
***
Dall'art. 90 alle carceri speciali al 41
bis
Il carcere imperialista e il suo funzionamento sono una delle più alte
espressioni del domino coercitivo imposto nella società divisa in classi
come quella in cui viviamo. Proprio per questo esso può rappresentare
un'illuminante chiave di lettura per comprendere i codici che regolano la
società attuale, la lotta di classe e i rapporti di forza in campo.
Non a caso si sente spesso ripetere: "Il carcere è lo specchio
della società". Analizzando le trasformazioni avvenute nel suo
ordinamento negli ultimi decenni ci accorgiamo infatti che esse portano con
sé parte importante della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria
nel nostro paese e indicano le idee guida che ha seguito la borghesia non
solo per rimodellare il sistema carcerario ma anche per imporre il suo sistema
di dominio in tutta la società. Ci accorgiamo anche che ogni trasformazione
non è transitoria e atta a far fronte a qualche emergenza ma è
già inscritta nella natura stessa del carcere e del dominio di classe
che esso tutela. Si tratta di modifiche che registrano lo stato del rapporto
di forza tra le classi e mettono in luce la funzione non solo repressiva (del
castigo) ma anche quella preventiva (di deterrenza) sia per i comportamenti
sociali che escono dalle regole prestabilite della cosiddetta "convivenza
civile" sia per i comportamenti politici rivoluzionari che coscientemente
mettono in discussione il potere. Il carcere è quindi uno degli strumenti
della controrivoluzione preventiva, attività costante e strutturata
di ogni stato "democratico" imperialista che fonda il suo potere
sull'oppressione di una classe sull'altra.
Queste riflessioni trovano verifica se andiamo a vedere il percorso che porta
dall'art. 90 all'art. 41 bis. Ripercorrendo questo itinerario siamo in un'ottima
posizione per studiare la realtà perché la guardiamo da uno
dei punti più alti dell'apparato repressivo: il carcere nel suo primo
girone, quello di massima sicurezza. Questa istituzione totale è infatti
organizzata come i gironi dell'inferno dantesco regolati dal codice della
premialità, questi gironi trasbordano fin fuori dalle mura attraverso
le misure alternative alla detenzione. Proviamo ora a vedere i passaggi della
modifica del sistema detentivo negli ultimi decenni.
L'art. 90 fa parte della legge sull'ordinamento penitenziario del luglio '75,
comunemente conosciuta come riforma carceraria, ma esso non viene immediatamente
applicato. Esso dice: "Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di
ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà
di sospendere, in tutto o in parte, l'applicazione in uno o più stabilimenti
penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole
di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano
porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza".
Con questo fatto lo stato si arroga la possibilità che il suo esecutivo
possa, a suo piacimento, sospendere una legge e definire che a una parte di
cittadini vengano sospesi dei diritti.
La riforma carceraria, di cui fa parte questo articolo, è stata la
risposta a un grosso ciclo di lotte dei detenuti e il codice che la informa
è la premialità e la pena a seconda del comportamento dei prigionieri.
Si fa strada il tentativo borghese, sperimentato nel carcere ma applicato
a tutta la società, di costruire un enorme setaccio con cui dividere,
a secondo delle compatibilità con il sistema capitalistico, i buoni
dai cattivi, quelli che si possono "recuperare" e quelli che si
devono annientare. Anche nella fabbrica, nel mondo del lavoro e nel territorio
viene applicato lo stesso sistema attraverso una modulazione di interventi
e misure repressive con la logica dell'integrazione o dell'esclusione. Il
fine è quello di far fronte e fermare le lotte operaie e proletarie
e la ribellione sociale espressione delle contraddizioni di un sistema che,
dall'inizio del decennio, è entrato in una crisi che poi si verificherà
come strutturale. Ed è anche quello di assestare un colpo alle organizzazioni
combattenti che hanno visto, lungo tutto il decennio precedente, un rigoglioso
sviluppo.
Ma anche dopo l'approvazione della legge, le lotte dei prigionieri non si
fermano e si collegano con il movimento rivoluzionario all'esterno, per lo
stato le carceri diventano ingovernabili. Si verificano rivolte e proteste
di massa con la particolarità italiana dell'unione nella lotta fra
detenuti politici e comuni. Per questa unità le basi erano state gettate
dai Nuclei Armati Proletari (NAP) che avevano teorizzato e praticato l'unione
tra i proletari prigionieri, i prigionieri politici e il proletariato extralegale.
Le Organizzazioni Combattenti promuovono nelle carceri organismi di massa,
i Comitati di Lotta in dialettica con la loro iniziativa esterna sul fronte
delle carceri.
La risposta dello Stato è, nel 1977, l'istituzione delle carceri speciali
sorvegliate dai carabinieri. L'art. 90 viene applicato a partire dal 1980.
Questo passo avviene gradualmente con l'istituzione dei cosiddetti "braccetti"
cioè sezioni di massimo isolamento con la riduzione o l'interruzione
dei contatti con l'esterno. L'attuazione di questi passaggi nelle carceri
è contemporanea alla modifica del codice penale con l'approvazione
del 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo) e
quella delle leggi su pentitismo e dissociazione (la famigerata legge Cossiga).
Contro l'art. 90, dalle carceri all'esterno, prende corpo un vasto movimento.
L'art. 90 non viene più rinnovato dall'ottobre del 1984 ma viene di
fatto incorporato nella istituzionalizzazione del regime differenziato dove
i carceri speciali sono disciplinati per legge attraverso la proposta degli
art. 14 bis, ter e quater che stabiliscono le norme che regolano il raggruppamento,
l'assegnazione e le categorie dei detenuti nelle sezioni di massima sicurezza.
Viene applicato anche l'art. 4 che esclude alcune categorie di detenuti dall'ammissione
a forme alternative di detenzione. Si arriva quindi a rendere permanente l'art.
90 anche se sotto altro nome.
Tutte queste norme trovano vita e vengono applicate lungo tutti gli anni 80
parallelamente alla campagna orchestrata dal potere sulla fine del comunismo
e sulla sconfitta del "terrorismo". Questa campagna è la
premessa e l'altra faccia di quello che sarà l'inizio dispiegato dell'attacco
alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari. Essa verrà
attuata cercando di isolare e annientare ogni identità politica rivoluzionaria
attraverso la dissociazione e la differenziazione, con la vessazione dei prigionieri
politici sottoposti alla tortura dell'isolamento e alla tortura vera e propria.
Il fine è quello di diffondere la cultura della desolidarizzazione
e di dichiarare sconfitta e fuori dal tempo ogni prospettiva di cambiamento
radicale della società. E anche quella di sotterrare la memoria storica
del proletariato e del movimento comunista. Ma, l'illusione del potere di
mettere una pietra sopra definitivamente alla formidabile forza che il movimento
rivoluzionario aveva espresso in Italia si scontra con la realtà della
crisi del suo sistema che produce incessantemente contraddizioni sempre più
acute che fanno rigenerare la lotta di classe. Esso deve continuamente mettere
mano all'ordinamento penitenziario per perfezionare le norme che regolano
la differenziazione dei regimi detentivi.
Nei primi anni 90 vengono approvati gli art. 41 bis e 4 bis che, come ulteriore
elemento di differenziazione dentro al carcere, inseriscono il mancato accesso
ai benefici premiali (previsti dalla legge Gozzini del 1986) in base alla
condanna. Il 41 bis inoltre prevede il "carcere duro" in cui vengono
sospesi i normali diritti dei detenuti. Il trattamento duro non riguarda più
solo intere aree di prigionieri che vengono per questo raggruppati nelle sezioni
speciali ma diventa "ad personam". Questo trattamento attraversa
la struttura carceraria sia verticalmente (nelle strutture) che orizzontalmente
(nelle persone), è l'asse portante del funzionamento della deterrenza
e della premialità. Si tratta in pratica di una riedizione allargata
del vecchio art. 90.
Questi articoli vengono resi esecutivi dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino,
hanno natura transitoria e devono essere rinnovati individualmente in base
a criteri di "pericolosità". Già dalla loro approvazione
prevedevano una divisione in fasce per la loro applicazione, la prima e la
seconda riguardante delitti di mafia, la terza i reati commessi per finalità
di "terrorismo" o di eversione dell'ordinamento costituzionale.
La revoca dell'applicazione del trattamento duro è subordinata alla
collaborazione con la giustizia e, in particolare, per la terza fascia, cioè
per i prigionieri politici, all'esclusione di ogni collegamento con organizzazioni
esterne. Di fatto viene richiesta la dissociazione. Arriviamo ai giorni nostri
perché venga richiesta l'estensione dell'applicazione del 41 bis ai
rivoluzionari prigionieri e ne venga chiesta la validità permanente.
Così il cerchio si chiude, la differenziazione e il carcere duro vengono
definitivamente istituzionalizzati. Lo stato democratico prevede che la sospensione
dei "diritti" è legale, che la tortura dell'isolamento e
ogni procedura che può avvenire in assenza di "diritti" sono
praticabili. Queste misure che lo stato prende fanno parte della necessità
che la classe dominate ha di salvaguardare il suo potere e vanno analizzate
e fatte conoscere non solo per denunciare la natura fascista del suo dominio
ma soprattutto perché mostrano la sua debolezza e la paura che il suo
potere venga messo in discussione. L'approfondimento e l'allargamento della
detenzione accentuata sono in stretta dialettica con la crisi e con lo sviluppo
delle contraddizioni sociali. Non è infatti un caso che i momenti in
cui le misure sono state promosse sono principalmente quello a ridosso dell'avanzata
del movimento rivoluzionario (fine anni '70, primi anni '80) e, oggi, quello
del possibile riaffacciarsi di prospettive di cambiamento. Oggi, a fronte
della crisi e della tendenza alla guerra, al rinvigorirsi della lotta di classe
e antimperialista, al ribollire del malcontento delle masse e al manifestarsi
di comportamenti di ribellione vengono attuate nel nostro paese queste misure
preventive.
Vengono attuate all'interno di una situazione internazionale incandescente
seguendo i dettami dell'imperialismo USA e delle legislazioni di guerra che
ha varato. A questo proposito è un fatto rilevante che in Italia esistano
oltre un centinaio di prigionieri islamici sulle cui condizioni vige il più
assoluto silenzio.
Le attua anche nei confronti dei rivoluzionari prigionieri che hanno mantenuto
la loro identità politica perché essi, pur non rappresentando
un pericolo emergente come quantità, turbano ancora il sonno del potere.
Lo Stato, nel corso di più di due decenni, dopo averle tentate tutte
per annientarli ha ancora paura di loro, della prospettiva politica rivoluzionaria
che incarnano e si pone il problema di limitarne l'influenza e la capacità
d'azione.
***
Il carcere come rapporto sociale
Introduzione
Le carceri sono una polveriera che accumula le contraddizioni prodotte dalla
crisi economica e sociale. I movimenti sociali fuori hanno scosso e scuotono
in profondità le galere, compenetrandosi e saldandosi con le istanze
e le lotte portate avanti dentro le istituzioni totali stesse.
Questo è avvenuto, e tuttora avviene, per la natura di classe di queste
istituzioni.
Nelle carceri:
- possono avvenire rivolte spontanee: bambule, come le chiamavano le ragazze
degli istituti di rieducazione femminili in Germania;
- possono verificarsi timidi tentativi di denuncia della propria condizione
e lotte per parziali miglioramenti;
- può prendere piede un movimento in grado di comunicare con i soggetti
e le esperienze politiche fuori dal carcere, e viceversa, grazie alla sedimentazione
di precedenti esperienze di lotta e alla specifica struttura e composizione
sociale delle carceri, nonché alla presenza all'interno di militanti
rivoluzionari o di ribelli sociali permeabili ad una sensibilità antagonista.
Oggi risentono del clima di rinnovato fermento sociale e di mobilitazioni,
anche se, tranne alcuni casi isolati, non è emersa una reazione soggettiva
dentro, in grado di far precipitare le sue contraddizioni e di confrontarsi,
almeno parzialmente, con lo scontro in atto.
Il carcere è un sismografo che registra i cambiamenti più profondi
della società nel suo complesso, si riorganizza continuamente in funzione
del ciclo di lotte precedenti, e del ruolo affidatogli di volta in volta dal
potere. Si differenzia la durata e la condizione detentiva, come il suo affidamento
e la sua amministrazione, sia a seconda delle esigenze pragmatiche del potere
politico, sia rispetto alle necessità dovute al governo interno dell'istituzione:
se da un lato si può arrogare il diritto di concedere, dall'altro si
riserva la possibilità di reprimere; se da un lato cerca di "rieducare",
dall'altra reprime e basta. Essendo parte integrante dell'organizzazione sociale,
ha ispirato e ispira, con il suo modello, ogni serio paradigma del controllo
ed ogni codificazione comportamentale; rimane un ganglio vitale del sistema
di riproduzione dei rapporti sociali, e insieme alle articolazioni militari
e poliziesche rappresenta il baluardo delle ragioni di stato e della loro
volontà di potenza.
Rimane così una palestra di disciplina, di introiezione dei valori
capitalistici magari assunti per il tramite dei vari racket, della cultura,
della sopravvivenza individuale e dell'affiliazione ad un gruppo, della subordinazione
all'arbitrio di un beneficio concesso o negato, dell'autolesionismo suicida.
La prassi detentiva incorpora e sperimenta le tecniche di controllo più
avanzate come le più arcaiche; utilizza sia le millenarie discipline
e dottrine del controllo sociale come le religioni, sia le più attuali
come la psichiatria, la medicina, la farmacologia, la psicologia sociale;
usa sia la forma più estrema di alienazione dalla comunità umana
come l'isolamento tout-court - istituzionalizzata dal carcere speciale
-, sia la più moderna forma di ri-socializzazione correttiva e trattamentale
attraverso il lavoro esterno e la premialità della regolare condotta,
giudicata da quella specie di tribunale permanente costituito dagli organi
della Magistratura di Sorveglianza e dalle varie figure addette al giudizio-recupero
del detenuto. In sintesi, il carcere come rapporto sociale è l'esempio,
insieme alla guerra, del pressoché assoluto monopolio della violenza
da parte dello stato. Che entrambi questi fenomeni riguardino fasce sempre
più ampie di proletari, non fa che rinvigorire la necessità
della distruzione di questo edificio sociale, che passa anche attraverso l'abbattimento
di tutte le istituzioni totali.
Col sangue agli occhi: il movimento dei comuni contro il carcere ('60-'70)
Nel secondo dopoguerra, terminato il periodo cosiddetto della "Ricostruzione",
la necessità di manodopera, per lo sviluppo dell'economia italiana
nel triangolo industriale, fece affluire braccia dalla campagna delle zone
contigue alle aree metropolitane e poi dall'esercito industriale di riserva
del meridione, delle isole e delle zone settentrionali di tradizionale emigrazione,
come il Veneto e il Friuli.
Questo fiume di persone che si riversò nelle città si barcamenava
tra occupazioni dell'economia informale, una situazione abitativa precaria,
senza trovare una comunità e un canale, che non fosse quello della
parentela e del paese d'origine. Negli anni sessanta la composizione sociale
delle carceri mutava e faceva il suo ingresso nelle galere quel proletariato
marginale, di cui la provenienza geografica, la condizione di precarietà
lavorativa, la collocazione urbana, la sensibilità sociale, erano proprie
del proletariato metropolitano in formazione e della moderne classe pericolose
per l'ordine capitalista. Furono proprio le carceri delle realtà urbane
più significative, soprattutto del nord, che incominciarono a ribollire
e in cui cominciarono a formarsi le prime avanguardie di lotta forma e a sedimentarsi
livelli di organizzazione.
Venne messa in discussione la gerarchia e i Kapò che servivano
da strumento di governo interno al carcere. Per esempio, con i pestaggi dei
fascisti, vennero messi in discussione gli atteggiamenti di implicita collaborazione
con i secondini e il qualunquismo opportunista teso ad accattivarsi le simpatie
dei propri carcerieri; soprattutto, prese forma una critica della propria
condizione da un punto di vista classista, e non "innocentista",
che venne collocata all'interno di un meccanismo sociale, che bisognava contribuire
a distruggere.
Tra questi, i rapinatori saranno l'avanguardia del movimento carcerario di
fine anni sessanta e di inizio anni settanta; il grado di cooperazione sociale
maturata, le capacità organizzative, la cultura antistatuale, la lontananza
dalle tradizionali organizzazioni aventi la funzione di pacificatori sociali,
erano tutte caratteristiche acquisite in conseguenza della propria attività,
che li accomunavano ai proletari più combattivi formatisi nelle lotte
di fabbrica e di quartiere.
Si crea una struttura di solidarietà con il proletariato in lotta,
anche nelle carceri, in cui alcune figure professionali tradizionalmente legate
alla classe dominante - come avvocati, medici, e altri profili di intellettuali
della classe media - fanno propria la prospettiva dell'emancipazione del proletariato,
con una precisa e organica scelta di campo. Questa presa di posizione che
si sostanzierà con l'impegno continuo di questi compagni, li renderà
non solo soggetti alla delegittimazione professionale, ma anche all'azione
repressiva vera e propria.
Il Soccorso Rosso che si formerà in quegli anni, sarà
una sponda importante del proletariato prigioniero, gli avvocati che ne fecero
parte ruppero quel legame di connivenza con le strutture del potere giudiziario,
citando un documento del Soccorso Rosso di Milano del settembre del
'71: "tutto ciò comporta, per gli intellettuali che devono fornire
questi servizi secondo le esigenze della classe operaia, un nuovo stile di
lavoro ben diverso dalla professionalità tradizionale. È anche
necessaria una mentalità completamente nuova e una disponibilità
generosa che niente ha da spartire con la diligenza mercenaria del professionista.
I concetti di legalità, diritto, salute, funzionalità, produttività
devono essere capovolti da coloro che si pongono dal punto di vista del proletariato".
Formazioni politiche della sinistra extra-parlamentare, come Lotta Continua,
costituirono una "Commissione Carcere" apposita, ospitando nel giornale,
dalla primavera del '71, lettere di detenuti e notizie sulle rivolte carcerarie
in Italia e nel mondo: "A noi i detenuti interessano non perché
«fanno pena», ma per il contributo che possono dare alla lotta
di classe e alla rivoluzione. È per questo motivo che ci interessano
le caserme e magari i manicomi, come i proletari in divisa e i cosiddetti
«malati mentali»", scrivevano i Dannati della Terra
in Liberare tutti di LC.
Altre formazioni della sinistra radicale, provenienti dal marxismo e dall'anarchismo,
dando una carica eversiva ai comportamenti del proletariato metropolitano
che si muoveva ai margini della legalità, interpretavano la lotta criminale
come la fonte più genuina di carica eversiva per il sovvertimento della
società e, nella prassi illegale, il terreno prioritario della pratica
rivoluzionaria, approccio che si tradusse nello slogan: contro lo stato
e il capitale, lotta criminale.
L'influenza delle rivolte urbane che dalla metà degli anni sessanta
costellarono l'universo metropolitano statunitense e le lotte dei prigionieri
afro-americani dal carcere, che trovarono la loro sponda politica nelle Black
Panthers, diventarono patrimonio comune di una generazione di proletari
prigionieri, che col sangue agli occhi, ribaltarono il ruolo in cui
la società li aveva relegati.
L'influenza degli scritti di Franz Fanon sul ruolo del sotto-proletariato
metropolitano nel processo di liberazione coloniale, - filtrata attraverso
l'utilizzo che ne fecero le punte più avanzate del movimento afro-americano,
come dell'esperienza algerina -, darà una spallata alla vetusta interpretazione
del marxismo tradizionale che vedeva nel Lumpen solo una massa di sradicati,
da cui l'apparato repressivo poteva sempre attingere per reclutare i suoi
sgherri.
Nel secondo numero di "Nuova Resistenza", del maggio '71, le BR
in un articolo dal titolo perentorio Bruciare le carceri è giusto,
spiegarono la posizione del giornale sulla criminalità e sulla funzione
rivoluzionaria del sottoproletariato: "La rivoluzione moderna non è
più la rivoluzione pulita [...] accumula i suoi elementi pescando nel
torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro
che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno [...]. In attesa
della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati,
il gesto «criminale» isolato, il furto, l'espropriazione individuale,
il saccheggio di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno del
futuro assalto della ricchezza sociale, il criminale rompe la monotonia a
la sicurezza quotidiana, banale della vita borghese (K. Marx). Per il fatto
stesso di esistere egli pone in crisi l'ideologia della società capitalistica:
si appropria realmente di ciò che la borghesia gli mostra come astrattamente
disponibile".
I Nuclei Armati Proletari raccolgono l'eredità politica del
lavoro svolto da LC, che imboccò ben presto la lunga marcia verso le
istituzioni in una deriva riformista che coinvolgerà anche la sua impostazione
sulle lotte dei prigionieri, compiendo il suo distacco dall'azione politica
armata, già dalle prime azioni significative delle BR, criticando più
l'immagine distorta fornita dai media che la strategia d'azione maturata da
questi compagni. Le avanguardie delle lotte dei comuni danno vita ad un organizzazione
e ad una pratica in grado di raccogliere le aspettative del proletariato prigioniero
e di reggere il livello di scontro di quegli anni, che avrà come punto
di svolta la strage di Alessandria. Nel Maggio del '74 in seguito a una rivolta
nel carcere di Alessandria, in cui tre detenuti avevano sequestrato 21 persone,
barricandosi in infermeria, il comandante dei carabinieri Carlo Alberto Dalla
Chiesa, futuro responsabile dei reparti speciali anti-terrorismo, e il procuratore
generale di Torino Reviglio della Venaria, decidono per un'azione di forza
che si concluse con un bagno di sangue.
I NAP nell'ottobre del '74, davanti ai cancelli delle carceri di Napoli, Milano
e Roma, trasmettono un messaggio rivolto a tutti i detenuti che annuncia la
loro piattaforma sul carcere.
Questa piattaforma ha come referenti sia le avanguardie detenute, alle quali
si lancia lo slogan: "rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei
nuclei all'esterno", sia la massa dei detenuti, non ancora pervenuta
alla coscienza critica del proprio ruolo, a cui i NAP indicano gli obiettivi
immediati della lotta contro i codici fascisti, per la democratizzazione delle
carceri, per l'abolizione dei manicomi carcerari, ecc.
Ad un anno circa dai fatti di Alessandria, i NAP rapiscono Giuseppe di Gennaro,
direttore dell'Ufficio studi del Ministero, in appoggio a un'azione nata nel
carcere di Viterbo a opera di tre detenuti che hanno tentato un'evasione.
Anche se l'azione, concertata tra il nucleo interno e quello esterno, non
raggiunge l'obbiettivo di liberare i tre rivoltosi ottiene, comunque, una
risoluzione positiva: nessun intervento delle forze di polizia esterne, nessuna
rappresaglia sui tre protagonisti della tentata evasione e il loro trasferimento
in carceri non punitive. In cambio, i compagni, liberano il Giudice De Gennaro.
Con la riforma del sistema penitenziario e l'incarcerazione di massa di militanti
politici, la struttura, l'organizzazione e la composizione del carcere muta
nuovamente.
I detenuti comuni, la Riforma carceraria del '75 e la Legge
Gozzini del '86
Vennero istituiti ufficialmente tre circuiti penitenziari differenziali, in
cui la vasta area della criminalità comune è soggetta a nuove
forme di controllo premiale: territorializzazione dell'esecuzione, non più
esclusivamente tra le mura carcerarie; scambio pena-comportamento, con l'istituzione
di una micro-magistratura che ha il compito di giudicare in continuazione,
in combutta con tutta una serie di nuove figure del disciplinamento democratico,
la buona condotta del detenuto e di decidere le forme e i tempi in cui deve
scontare la propria pena.
Senza dilungarci sul trapasso da un modello segregativo ad un modello correzionale,
attraverso un approccio trattamentale e non più solamente punitivo,
che si sostanzia con l'uso di disposizioni disciplinari in un regime di premialità,
ci interessa sottolineare come il detenuto comune viene e venga tuttora individualizzato.
Se qualcuno può decidere i tempi e i modi della pena, se qualcuno detiene
l'arbitrio assoluto per soddisfare ogni qualsiasi richiesta inoltrata, attraverso
la pratica della Domandina, allora il potere di ricatto delle gerarchie carcerarie
aumenta e diminuisce la possibilità dei "comuni" di riconoscere
in coloro che decidono di un beneficio nient'altro che le articolazioni terminali
dell'organizzazione del potere contro cui combattere. Lo stato interviene
modificando la configurazione dei rapporti di forza all'interno delle carceri,
attraverso questa ristrutturazione, per isolare dal resto della popolazione
carceraria, i compagni più combattivi. I meno risoluti ad iniziare
una qualsiasi mediazione con il potere si differenziano da quelli che, a seconda
della loro pericolosità sociale, possono incominciare a vedere schiudersi
la possibilità della semi-libertà, di uno sconto di pena, disposti
a sottoporsi ad un approccio trattamentale che verifica la costante volontà
di piegarsi ai dettami, la reale volontà di riscatto attraverso il
lavoro, la famiglia e la fede.
Con la riforma del '75 rimangono esclusi dai benefici sopraindicati i detenuti
a medio indice di pericolosità, sospesi tra il circuito del carcere
riformato e l'inferno degli speciali. Coloro che sono accusati o condannati
per reati di rapina, sequestro di persona, estorsione e dall'82, anche per
associazione mafiosa, vengono esclusi. Erano state figure chiave, come quella
del rapinatore, nella crescita del movimento carcerario del passato e allora,
a metà anni settanta, erano le fasce della nuova criminalità
metropolitana più permeabili al progetto politico di movimento, nonché
quelle ritenute responsabili del nuovo allarme sociale: bisogna quindi impedirne
la politicizzazione, mostrando quale condizione sarebbe riservata a loro nel
caso volessero fare una precisa scelta di campo e, allo stesso tempo, dare
all'opinione pubblica l'immagine di una rinnovata sensibilità per la
questione dell'ordine pubblico, usando il polso duro e facendo scontare il
dovuto alla delinquenza sociale che più preoccupava il belpaese. In
questo modo alla tradizionale prassi coercitiva si univa il rinnovato potere
di deterrenza degli speciali, anche nel senso opposto: passare da uno speciale
ad una sezione di questo circuito significava rompere l'isolamento dagli altri
reclusi, attraversare i vetri divisori, incontrare più spesso la famiglia,
poter telefonare e ricevere giornali e libri, entrare, cioè, in un
regime disciplinare quasi ordinario.
Più di dieci anni dopo, con la Legge Gozzini, vengono liberalizzati
gli accessi ai benefici, universalizzando il modello del governo premiale
e viene introdotta la possibilità per i condannati, che hanno tenuto
regolare condotta e che non risultano di particolare pericolosità sociale,
di poter godere di permessi premio di 15 giorni.
La Carcerazione sociale oggi
Partiamo da una fotografia della realtà.
La popolazione carceraria sfiora le 56.000 unità, di cui più
del 40% detenuta in attesa di giudizio, di questa particolare condizione di
imputato - specialità Italica nel campo del diritto penale - ne fanno
le spese quasi il 60% degli immigrati nelle prigioni. Circa un quarto dei
detenuti viene accusato, o è stato condannato, per reati che violano
le norme contro il patrimonio, circa un quinto per la violazione delle norme
del testo unico sulle sostanze stupefacenti, circa un sesto per norme a tutela
dell'ordine pubblico, poco di meno per reati contro la persona, tra cui alcuni
reati micro-criminali che poco tempo prima erano considerati contro il patrimonio
e che ora, bontà del centrosinistra, sono da considerarsi atti criminosi
contro la persona.
Ricordiamo che nella penultima categoria vanno collocati anche i detenuti
per "reati di immigrazione", quali il non avere osservato un ordine
di espulsione o l'aver dato generalità false, reati che a metà
degli anni '90 riguardavano il 43% di quelli attribuiti dalla polizia agli
immigrati, reati per cui una legge del '93 ha introdotto una condanna dai
6 mesi ai due anni!
Se pensiamo che la nuova ondata di carcerazioni nel corso degli anni novanta
è diretta conseguenza di un inasprimento legislativo e di una maggiore
produttività del sistema repressivo, che colpisce sistematicamente
il sotto-proletariato metropolitano giovanile, non ci può sorprendere
che la stragrande maggioranza dei detenuti non ha assolto l'obbligo formativo
o è in possesso solo della licenza media-inferiore e quasi i 4/5 di
coloro che svolgevano una qualsiasi professione, prima di essere sbattuti
in cella, facevano l'operaio.
Il tasso di detenzione e il numero di coloro che sono sottoposti ad una qualsiasi
misura di restrizione della libertà aumentano, nonostante non vi sia
un aumento dei crimini commessi, perché si aumenta la fascia di comportamenti
ritenuti criminali, o meglio dei profili sociali giudicati come tali. Le varie
guerre combattute dallo Stato contro le fasce più basse del proletariato,
mascherate contemporaneamente da guerra alla droga, guerra all'immigrazione,
guerra alle organizzazioni mafiose e guerre contro la micro-criminalità,
hanno cambiato la composizione sociale dei detenuti degli ultimi vent'anni.
Fanno parte dell'arcipelago carcerario le comunità terapeutiche istituite
nella seconda metà degli anni ottanta, i centri di detenzione temporanea
istituiti a fine anni novanta, le varie articolazioni del controllo sociale
per coloro che possono godere di un regime premiale, di cui beneficiano, si
fa per dire, circa 20.000 persone, oltre ai rinascenti "vecchi"
manicomi e ai sempre verdi istituti minorili. Andiamo con ordine:
Poco meno di un terzo dei detenuti è costituita da immigrati di origine
extra-Unione Europea, prevalentemente concentrati al centro-nord e nelle aree
metropolitane, dove costituiscono talvolta circa la metà della popolazione
carceraria, mentre quasi la metà delle donne detenute è di origine
extra-UE.
Su di loro pesa un inasprimento della custodia cautelare, più alta
in percentuale rispetto agli italiani, oggettive difficoltà di difesa
legale, una minore possibilità di accesso alle misure alternative alla
detenzione, difficoltà maggiori per i colloqui con le proprie famiglie,
tra cui l'impossibilità di avere colloqui telefonici fuori dall'Italia.
Il processo di criminalizzazione della condizione di immigrato, particolarmente
accelerato e intenso in Italia, rispetto alle nazioni dell'UE, è dovuto
a due specificità, una storica e l'altra geografica, del sistema-paese:
il tramutarsi dell'Italia da paese di emigrazione estera e immigrazione interna
a paese di immigrazione interna ed estera, e dalla sua posizione di confine
e di transito di differenti flussi immigratori verso l'area della Unione Europea
dei paesi firmatari del Patto di Schengen. La Legge Martelli a inizio anni
novanta, la Legge Turco-Napolitano del marzo '98, fino alla recente Legge
Bossi-Fini, insieme agli altri provvedimenti legislativi, hanno progressivamente
criminalizzato la condizione di immigrato, facilitando progressivamente la
possibilità di espulsione, istituendo i centri di detenzione temporanea
con il governo di centro-sinistra, rendendo la vita di questi proletari un
vero e proprio inferno, in cui le varie sanatorie che si sono susseguite sono
state più uno strumento di cristallizzazione della precarietà
della propria condizione, che altro. I centri di detenzione temporanea vennero
allestiti in gran silenzio in Puglia, in Sicilia e a Trieste e in altre località
ritenute "critiche". Il grande pubblico scopre la loro esistenza,
e la loro natura tutt'altro che assistenziale, nell'estate del '98, quando
ad Agrigento e a Caltanisetta alcune decine di immigrati si ribellano alle
condizioni inumane in cui sono costretti, incendiando questi lager. Senza
aver commesso nessun reato, sono tenuti a pane e acqua per diverse settimane
in edifici fatiscenti sorvegliati a vista dalla polizia che interviene con
violenza al minimo segno di protesta. L'altra componente che dalla metà
degli anni ottanta e soprattutto dopo la Legge n. 161 del 1990 ha subito un'accentuata
criminalizzazione, è quella che ha il profilo, nella stigmatizzazione
socio-mediatica, del tossicodipendente consumatore e spacciatore. L'articolo
47bis della Legge Gozzini prevede la possibilità di affidamento ai
servizi sociali per tossicodipendenti, cioè più prosaicamente
l'auto-reclusione volontaria in una comunità terapeutica per chi deve
scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni. Questo micro-cosmo carcerario
su cui non è dato indagare, da cui nessuna notizia sulle regole che
lo governano può trapelare, e a cui è stata delegata una funzione
terapeutica normalizzante, applica tutti i mezzi che ritiene necessari per
ottenere i fini sublimi della introiezione della colpa e della sua espiazione
attraverso la vita comunitaria incentrata sul lavoro gratuito.
Queste oasi del sequestro dal sociale sono proliferate, aumentando in numero
e in capacità di accoglienza, e hanno catalizzato su di sé le
aspettative illusorie di chi pensa che la permanenza in uno di questi lager
sia garanzia di un certificato di guarigione almeno dall'infame marchio sociale
di tossicomane, di soggetto a rischio, di micro-delinquente, ecc. Hanno spostato
il discorso del disagio sociale, non sulle cause di questo, ma sulle conseguenze
e sono stati uno dei primi esperimenti di privatizzazione del welfare
con operazioni mirate alla cattura di consenso e benestare della pubblica
opinione. Un buon trampolino di lancio per santoni nostrani, pretazzi con
la vocazione del sociale, uomini forti che offrivano l'immagine dell'impresa
famigliare vincente, cooperative e tutto il carrozzone variopinto dell'impresa
sociale. Il carcere cura poi la tossicodipendenza con gli psicofarmaci, che
costituiscono i farmaci maggiormente somministrati negli istituti di pena,
provocando una dipendenza di ancora più difficile rimozione!
L'ultima fascia protagonista suo malgrado del grande internamento degli anni
novanta riguarda la manovalanza della criminalità organizzata, in parte
compresa nelle componenti precedenti e delle fasce della micro-criminalità
che non ha bisogno di grandi mezzi per svolgere la propria attività
illegale: ladri di macchine, topi d'appartamento, scippatori, ecc.
Gli appartenenti al crimine organizzato in carcere sono circa settemila. L'operato
dello stato ha prodotto un notevole numero di collaboratori di giustizia.
Questo lo si deve sia alla costante instabilità delle gerarchie dei
gruppi criminali e il ricambio continuo delle elitès, sia al
trattamento differenziato riservato ai collaboratori di giustizia, comprese
le garanzie di protezione assicurate ai familiari.
***
Lettera di una compagna detenuta in un braccio morto del carcere speciale in Germania
(dal 16 giugno 1972 al 9 febbraio 1973)
... La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che il cranio possa
esserti asportato via, esplodendo),
la sensazione che il midollo spinale ti si comprima tutto nel cervello,
la sensazione che il cervello ti si raggrinzisca,
la sensazione di trovarsi sotto una corrente, continua, impercettibile che
ti trascina lontano
la sensazione che ti si spappolino le capacità sociative
la sensazione che l'anima ti pisci via dal corpo, come quando non si riesce
a trattenere l'urina
la sensazione che la cella si muova. Ci si sveglia, si aprono gli occhi, la
cella viaggia;
al pomeriggio quando entra la luce del sole, la cella, di colpo, si immobilizza.
Non riesce a respirare la sensazione di movimento, di viaggio.
Non si riesce a capire perché si tremi, si geli.
Riuscire a parlare con un tono di voce normale, fatica come se si dovesse
parlare forte, come se si dovesse urlare.
La sensazione di diventare muti.
Non si può identificare il significato delle parole, si riesce solo
ad indovinare.
L'uso delle sibilanti - come s, sch, tz, z - è assolutamente insopportabile.
Secondini, visite, cortile, sembrano un film
Mal di testa
Flashes
Incontrollabile la costruzione delle frasi, la grammatica, la sintassi. Si
scrive: due righe.
Alla fine della seconda riga non si ricorda più l'inizio della prima.
La sensazione di andare in cenere dentro.
La sensazione che se tu riuscissi a dire cosa sta accadendo, tutto ti verrebbe
fuori come un getto di acqua bollente, che bolle per tutta la vita.
Furiosa aggressività che non trova sfogo.
Questa è la prova peggiore.
La chiara coscienza di non avere più alcuna possibilità di sopravvivenza.
Totale senso di impotenza nel tentativo di opporsi a questa convinzione: le
visite lasciano dietro di sé il vuoto.
Un ora dopo una visita riesci solo a ricostruire meccanicamente se la visita
è stata oggi o la settimana scorsa.
Una volta la settimana invece il bagno ha questo significato: di scioglierti
un attimo, di riprenderti - questo anche per un paio d'ore.
La sensazione che il tempo e lo spazio si incastrino l'uno nell'altro.
La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio deformato - vacillamento
-, poi; spaventosa euforia quando si sente qualcosa - la differenza sonora
tra il giorno e la notte.
La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello nuovamente si rilassi,
che il midollo torni al suo posto, per settimane.
La sensazione che ti abbiano strappato la pelle.
Seconda volta (dal 21 dicembre al 3 gennaio 1974)
Turbinio nelle orecchie. Risveglio, come se si stesse per essere picchiati.
La sensazione di muoversi a rallentatore.
La sensazione di trovarsi sospesi nel vuoto, come se si fosse fatti di piombo.
Poi: shock. Come se ti fosse caduta in testa una lastra di acciaio.
Confronti e concetti che ti vengono in mente: sbranamento - lacerazioni fisiche
- il lupo mannaro - la colonia penale di Kafka - l'uomo sul letto di chiodi
- ottovolante che non ferma mai.
La radio: si creano tensioni minime come se il ritmo calasse da 240 a 190.
Che tutto ciò accada in una cella che esteriormente non si differenzia
dalle altre - radio, mobili, giornali, libri - significa un inasprimento della
situazione: impossibilità di comunicazioni, tra persone che non sanno
cosa significhi l'isolamento acustico e il prigioniero.
Disorienta anche il prigioniero. (Sia chiaro si tratta di celle da lazzaretto,
il terrore viene acuito dal silenzio, chi ne è cosciente dipinge, dipinge
i muri). È chiaro che là dentro si preferirebbe essere morti.
Peter Milberg, che si è trovato in questa situazione nel Preungesheim
di Francoforte ("Sezione malati da rieducare") ha accusato il suo
giudice di averlo voluto sopprimere ed è vero, poiché si tratta
in realtà di una "esecuzione".
Cioè ha luogo un processo di disfacimento - come di sostanze che vengono
corrose dall'acido, il processo lo si può ritardare, concentrandosi,
ma non si può eliminarlo.
Perfida è pure la personalizzazione totale. Nessuno, se non tu stesso,
si trova in questa situazione totalmente abnorme. Come mezzo/metodo simile
a quelli usati con i tupamaros, inchiodati in situazioni di esasperazione
e di strazio totale, uso del pentotal - conseguenza: improvviso rilassamento,
poi euforia. Il prigioniero, così ci si attende, perde il suo autocontrollo.
Balle!...
Apparsa su "Solidarietà militante" ed in "Contro-informazione" n. 3-4, 1974
***
Parte seconda
Interventi, contributi e saluti all'assemblea del 14.12.2002
***
Avv. Ugo Gianangeli
A me è stato assegnato l'ingrato compito di un intervento tecnico sul
41 bis, con tutti i limiti tipici degli interventi tecnici; vedrò di
ridurre il più possibile questo limite. Vorrei ricordare innanzi tutto
il recente 9° congresso dell'Unione delle Camere Penali che si è
svolto a Sirmione.
L'Unione delle Camere Penali è un organismo che raggruppa tutti i penalisti
italiani; in questo congresso ha prevalso la lista per il rinnovo del direttivo
che ha fatto dell'abolizione del 41 bis il proprio cavallo di battaglia elettorale;
ciò è di rilevante importanza. La Camera Penale di Milano, che
raggruppa i penalisti di questa città, ha appoggiato questa lista;
possiamo quindi dire che è passata la nostra mozione a favore dell'abolizione
del 41 bis.
La nostra Camera Penale si è espressa, al termine dell'incontro che
abbiamo avuto a Milano in vista del congresso di Sirmione, in modo molto chiaro
sul 41 bis; queste alcune righe del nostro documento approvato all'unanimità:
"Si tratta di un regime di detenzione intollerabile, caratterizzato da un inaccettabile grado d'afflizione privo di qualsiasi utilità circa l'effettivo distacco del detenuto dall'organizzazione criminale d'appartenenza, applicato anche nei confronti di chi si trova detenuto in regime di custodia cautelare fuori da un effettivo controllo giurisdizionale, affidato com'è ad organi ministeriali; l'impegno incondizionato dell'Unione non può che essere rivolta all'abrogazione di tale regime. Impegno uguale dovrà essere profuso allo scopo di abrogare la pena dell'ergastolo".Questo era parte del nostro programma che è stato fatto proprio dal nuovo direttivo. Possono essere, le nostre, considerazioni scontate; so che qui sono riunite realtà che toccano con mano, tramite parenti e amici di compagni detenuti, situazioni assimilabili al 41 bis, però detto da organismi di avvocati non è un fatto così pacifico. Nei confronti dei penalisti c'è sempre il sospetto che parlino più per interesse di corporazione, se non addirittura per collusione con ambiti criminali, che per reale adesione a valori e a principi di civiltà non solo giuridica.
"Ho letto il libro bianco preparato dai penalisti di Roma per denunciare le conseguenze di quella norma 'Barriere di vetro'; mi sono sentito male, non ho trovato un solo docente di diritto, tranne quelli coinvolti nell'operazione, che a quattr'occhi non mi abbia spiegato che questo nuovo 41 bis è incostituzionale. Sono giunto alla conclusione che rendere permanente una norma del genere equivale a istituzionalizzare un sistema di tortura, sì, di tortura".E va avanti con altre considerazioni, anche sulla scarsa efficacia di questo strumento rispetto al fine, non dichiarato, di favorire la collaborazione processuale. Dallo stesso articolo ricavo alcuni dati provenienti dall'associazione Antigone; si parla di 11 collaborazioni processuali ottenute nel 1992 a fronte di 498 detenuti sottoposti a 41 bis, e di 7 collaborazioni avviate nel 2002 a fronte di 678 detenuti in 41 bis. L'errore in cui incorre Mieli, come anche poco fa chi ha introdotto il tema dell'assemblea, è frequente, "Un domani sarà previsto anche per i reati di terrorismo". La possibilità di applicare il 41 bis anche ai detenuti politici in realtà c'è sempre stata, sin da quando è entrata in vigore questa norma.
***
Un compagno anarchico sui moduli FIES
Ringrazio i compagni e le compagne che hanno dato la disponibilità
per questa sala e per questa iniziativa.
Ni FIES ni dispersion, ni enferm@s en prision.
Esiste un fronte di lotta estremamente minoritario e marginale rispetto alla
situazione totale, generale, nelle carceri spagnole che, da moltissimi anni,
stanno portando avanti una lotta per la libertà e la dignità.
Questa lotta negli ultimi tre anni quattro anni ha focalizzato l'attenzione
su quattro punti fondamentali.
Il primo punto rivendicativo che queste persone stanno portando avanti è
l'abolizione del FIES e di tutti i tipi di isolamento. Il secondo punto rivendicativo
è la fine della dispersione, ovvero trasferimenti coatti, allontanamento
dai familiari e dal contesto sociale in cui si trovavano a vivere, eccetera
eccetera.
Il terzo punto rivendicativo è la scarcerazione dei malati, libertà
immediata per i malati gravi e/o terminali.
Il quarto punto rivendicativo, questa è una cosa un po' più
tecnica, c'è una legge, pare, in Spagna dove le persone non devono
scontare più di 20 anni di carcere, non c'è l'ergastolo in Spagna
anche se esiste, di fatto, e questo è il quarto punto rivendicativo.
[Per la verità per i reati più gravi la pena massima è
oggi di 30 anni, grazie al Codice Penale del 1995 legiferato dal governo PSOE,
adesso il governo Aznar per i reati di banda armata vuole portare il limite
massimo a 40 anni, con l'appoggio del PSOE ovviamente] Ci sono stati degli
scioperi individuali, degli scioperi collettivi, non di tante persone si parla
di un centinaio di persone, quasi tutti rinchiusi nel primo grado FIES - Controllo
Diretto - e poi di varie iniziative individuali, alcune tra l'altro fatte
in solidarietà ai prigionieri politici turchi che sono in sciopero
della fame a tomba aperta, oppure rispetto a vari attacchi repressivi che
ci sono stati in Spagna contro il movimento anarchico e libertario (ultima
la montatura di Valencia dove tre giovani anarchici sono in carcere nel FIES
3 [banda armata] accusati di associazione illecita a fini di "terrorismo").
Questo è quanto.
Che cos'è il FIES? È un archivio, creato nel '91, dove sono
schedati i detenuti "più pericolosi". Praticamente una sezione
speciale all'interno delle quattro carceri spagnole, dove vengono rinchiuse
le persone, dove vengono suddivise, c'è tutto un lavoro di psicologi,
medici, che poi sono dei boia - quello di Puerto I (Cadiz) lo chiamano Mengele
per darvi un'idea della sua concezione del giuramento d'Ippocrate.
Il FIES è la reazione alla combattività dei detenuti, alle rivolte,
alle evasioni alle rivendicazioni, all'autorganizzazione che in Spagna ha
contraddistinto la vita carceraria negli anni 70-80. Questa lotta ogni tanto
riesce a varcare il velo del silenzio, della complicità rispetto a
questi fatti, rispetto a tutto quello che succede dentro le carceri e così
torna all'attenzione per poi ripiombare subito nel silenzio generale. Adesso
è tutto da verificare quale percorso possano fare queste persone, verificare
con chi con quali persone, con quali soggetti cooperare, pianificare quello
che si può fare in futuro, sia rispetto ai detenuti che sono rinchiusi
dentro i moduli FIES, sia chi ne è al di fuori perché comunque
siamo solidali anche coi detenuti comuni, che anche se magari non partecipano
alle lotte, ci sono comunque delle sensibilità all'interno delle sezioni
comuni rispetto a queste tematiche specifiche, particolari. Non lo so è
tutto da vedere. Io concluderei qua, oggi preferisco più ascoltare
che parlare.
***
Una compagna dell'Associazione Famigliari
e Amici dei Prigionieri Politici
Ancora una volta, cause di forza maggiore mi costringono mio malgrado a non
partecipare a eventi come questo... Voglio però far giungere a tutti
i presenti e agli organizzatori di questa giornata il saluto solidale dei
compagni spagnoli incarcerati in Francia e in Spagna. Non si tratta di un
saluto formale e vorrei veramente essere in mezzo a voi, per abbracciarvi
ad uno ad uno, per dirvi, per ripetervi, quanto è importante la vostra
solidarietà e quanto vi si senta vicini: i muri, le sbarre, l'isolamento,
non impediscono alle vostre voci solidali di giungere a ciascuno dei compagni...
Il 25 novembre 2002, giusto due settimane fa, su ordine del giudice Garzón
sono stati arrestati altri 8 compagni spagnoli; cinque di loro, erano già
stati in carcere, chi per 14, chi per 16, chi durante 20 anni... Il loro "reato"
attuale è quello di essere stati in galera per tanto tempo senza pentirsi...
A tutt'oggi nulla si sa di questi compagni, né degli altri tre giovani
membri delle Afapp-per un Socorro Rojo Internacional, che sono stati
arrestati nello stesso pomeriggio con l'accusa di appartenenza a banda armata...
Da sempre, è vero, diciamo che "la solidarietà è
un'arma"... ma proprio non immaginavamo che Garzón ci avrebbe
preso in parola...
E questa del novembre scorso è la terza ondata repressiva che colpisce
il PCE(r) - Partito Comunista di Spagna (ricostituito), il movimento di solidarietà
(Afapp-per un SRI) e i Grapo (Gruppi di Resistenza Antifascista Primo di Ottobre)
negli ultimi due anni. L'11 novembre del 2000 sono stati arrestati a Parigi
5 militanti del PCE(r), tra cui il Segretario Generale del Partito, e due
militanti dei Grapo. Si è trattato di un'operazione congiunta, realizzata
dallo Stato fascista spagnolo e dallo Stato francese. I 7 continuano in isolamento
e a tutt'oggi non sono ancora stati processati. Tra il 18 e il 22 luglio del
2002 si è avuta una nuova ondata repressiva, che si è scatenata
contemporaneamente in Francia, in Spagna e in Italia. In Francia la DNAT (polizia
politica francese) ha fatto irruzione negli appartamenti accompagnata da membri
della Guardia Civile spagnola. Otto compagni sono stati arrestati a Parigi
ed altri 8 in Spagna. Tra gli arrestati di Parigi, un compagno che certamente
qualcuno di voi ricorderà perché viveva in Italia: si era fatto
oltre 20 anni di galera in Spagna e, a fine pena, aveva raggiunto la sua famiglia
in Italia. Era in Francia per organizzare la solidarietà nei confronti
dei sette arrestati nel novembre 2000. Altri, magari, li avete "conosciuti"
di nome, forse, chissà, avrete scritto a qualcuno di loro quando era
in galera... eh già... degli 8 arrestati di luglio, quattro avevano
già scontato lunghe pene nel loro paese. Quanto agli altri, si tratta
di giovanissimi (tra i 20 e i 33 anni). Il giudice Garzón e il governo
spagnolo cercano di condannare, attraverso queste persone, il Partito Comunista
di Spagna (ricostituito) perché l'esistenza di questo Partito è
un pericolo per il regime spagnolo. Per raggiungere i loro obiettivi, il Governo
spagnolo e i suoi burattini cercano di dimostrare che il PCE(r) e i Grapo
sono la stessa cosa, quando sanno perfettamente che si tratta di due organizzazioni
distinte. Il PCE(r), infatti, è un partito di classe, il partito del
proletariato spagnolo; un partito marxista-leninista, il cui funzionamento
si basa sul centralismo democratico. L'attività dei militanti del PCE(r)
è un lavoro esclusivamente politico che si attua attraverso l'agitazione,
la propaganda e l'organizzazione politica. Il PCE(r) certamente - e come dovrebbe
fare chiunque si dica realmente democratico - appoggia politicamente e moralmente
la lotta di resistenza antifascista in atto in Spagna dagli anni '40. Il giudice
Garzón ed il suo omologo francese Brugière si stanno adoperando
per condannare il PCE(r) con l'accusa di essere "la stessa cosa"
che il movimento di guerriglia. Sulla situazione nelle carceri in Spagna sono
anni che parliamo: in Spagna si muore di carcere, in Spagna esiste ancora
la tortura...
Nessuno immaginava che la situazione nelle galere francesi fosse così
pesantemente tragica... I compagni spagnoli stanno tutti in isolamento, tanto
quelli arrestati nel novembre 2000 che quelli arrestati nel luglio 2002. Non
possono avere rapporti tra loro, neppure epistolari; nessun rapporto con gli
altri prigionieri; 22 ore di cella e due ore d'aria al giorno, da soli. I
mezzi di comunicazione sono, in pratica, proibiti:
"affittare" la televisione costa infatti 10 euro a settimana. Nessuna
telefonata, neppure al proprio avvocato. Nessun pacco, ad eccezione che in
questi giorni, perché, bontà di lor signori, si avvicina il
Natale. Nelle carceri francesi si deve acquistare tutto e tutto costa il triplo
rispetto a "fuori". La corrispondenza subisce due censure: arriva
in carcere e da qui viene trasmessa al giudice istruttore che, dopo aver fatto
tradurre, legge e poi rimanda in carcere le lettere, che però devono
passare attraverso una ulteriore censura, quella del carcere. Questo significa
che una lettera può tardare anche mesi. Nei confronti del Segretario
Generale del PCE(r) bisogna dire che le guardie si accaniscono in particolar
modo...
Potrei continuare per ore, raccontandovi ciò che accade, i soprusi
di cui ciascuno dei compagni è vittima... Ma non voglio occupare troppo
tempo... Prima di concludere, tuttavia, voglio porvi una domanda: perché
proprio ora tanta repressione contro i comunisti spagnoli? È necessario
chiederselo perché il fascismo spagnolo è, oggi come ieri, l'avanguardia
dell'ascesa del fascismo in Europa.
Come nel 1939, in Spagna i fascisti stanno mettendo a tacere ogni forma di
dissidenza politica, sociale o sindacale, ma non vogliono farlo da soli e,
esattamente come allora, cercano di coinvolgere un altro Stato sovrano, la
Francia, che di fatto potrà diventare una sorta di colonia spagnola.
E usano questi collaborazionisti che, come ai tempi di Vichy, tengono in galera
i comunisti spagnoli, senza prove e con accuse false. Ora tocca ai comunisti
spagnoli...
E in Italia cosa sta accadendo, compagni? E in Germania, in Gran Bretagna...?
La situazione, ovunque, è drammatica... neppure ai tempi dell'Impero
romano, neppure un Caligola che pure ha vestito il suo cavallo da senatore,
si sono mostrate in modo così chiaro le rovine di un sistema totalmente
putrefatto! Ma nessuno come loro stessi sta mostrando ai popoli della Terra
cosa è veramente l'imperialismo, cosa sono il fascismo, la tirannia,
l'oppressione, la miseria e la schiavitù... E prima o poi, più
prima che poi, i lavoratori, i contadini, i disoccupati, gli studenti, le
casalinghe, i giardinieri e chissà persino le suore di clausura ne
avranno fin sopra i capelli e diranno basta... In Europa, evidentemente, confidano
nel fatto che, per mancanza di organizzazione e di direzione politica, il
movimento finisca per auto distruggersi nella propria impotenza...
È quindi più necessario che mai unirsi e non rinunciare alla
pratica rivoluzionaria... questo, compagni, è il messaggio dei compagni
spagnoli in carcere in Spagna e in Francia.
***
Avv. Sandro Clementi
Sono l'avvocato di alcuni prigionieri delle Brigate Rosse-Partito Comunista
Combattente.
Vi ruberò pochissimi minuti unicamente per esprimere il saluto dei
compagni che assisto e per invitarvi ad una semplice riflessione.
Sul 41 bis op abbiamo ascoltato un'esposizione che ovviamente, oltre a condividere,
ritengo articolata e scrupolosa.
Non vorrei, tuttavia, che determinasse un equivoco in chi ascolta. Ovvero
l'equivoco che l'approvazione della modificazione, in via permanente, dell'art.
41 bis determini una differenza sostanziale delle condizioni di prigionia
alle quali sono sottoposti i prigionieri rivoluzionari in Italia e che una
mancata approvazione della stessa norma, ossia dell'art. 41 bis e quindi la
conferma delle attuali condizioni carcerarie, siano la conferma di condizioni
carcerarie accettabili.
I prigionieri rivoluzionari, che resistono da decenni nelle carceri italiane,
subiscono un trattamento carcerario che non può certo definirsi morbido,
in contrapposizione con la durezza del 41 bis OP.
Lo Stato ed il Governo, in alcune sue articolazioni, hanno sempre avuto ed
hanno tutt'oggi, e avranno comunque, gli strumenti di intervento repressivo
e oppressivo sui prigionieri rivoluzionari. Strumenti che sfuggono a norme
legislative più o meno efficaci e pressanti.
L'Elevato Indice di Vigilanza che viene riservato, da decenni, ai compagni
rivoluzionari in carcere, è un cugino molto stretto del 41 bis op,
questo va detto. È un po' un sacco vuoto che viene riempito a seconda
delle occasioni dal DAP, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con formule
di repressione e di restrizione dei normali diritti dei detenuti a seconda
delle esigenze politiche del momento. I compagni che assisto, i compagni detenuti
a Biella, vivono questa condizione da sempre attraverso la censura della corrispondenza,
la negazione dei colloqui, le perquisizioni nelle celle. Prima il collega,
il compagno che mi ha preceduto, faceva riferimento alle perquisizioni intervenute
nel carcere di Trani, altrettante ne sono state realizzate in quel periodo,
mi riferisco a quello dell'uccisione di D'Antona e successivamente del collega
Biagi (collega di D'Antona ovviamente) nel carcere di Biella.
Questi episodi hanno determinato perquisizioni e pestaggi e non solo nelle
carceri soggette ad Elevato Indice di Vigilanza ma anche ad Opera rispetto
a compagni ivi detenuti e che si riconoscono comunque nel movimento rivoluzionario.
Un trattamento, quello attualmente riservato ai prigionieri rivoluzionari,
che può essere peggiorato dall'approvazione del 41 bis e dalla sua
estensione anche ai prigionieri rivoluzionari con l'effetto di registrare
unicamente un indurimento della repressione già esistente a carico
dei prigionieri.
Altro aspetto, in materia di approvazione del 41 bis, come diceva giustamente
il collega è quella di una estensione quasi a livello sociale di un
trattamento repressivo nelle carceri sottoposte al 41 bis. La riforma in atto
in materia di trattamento carcerario pone le basi per una restrizione delle
residue libertà dei detenuti senza limite anche per i soggetti detenuti
e diversi dai prigionieri rivoluzionari. Le restrizioni saranno, ovviamente,
calibrate dalle scelte politiche e sociali del momento, dal conflitto, dalla
resistenza rispetto ai percorsi della borghesia. Quell'equivoco che dicevo
all'inizio del mio discorso dovrebbe essere evitato comprendendo che il diritto,
italiano ed internazionale, non consente di operare "miglioramenti"
per i prigionieri rivoluzionari. Il diritto borghese esprime una funzione
anti-rivoluzionaria.
Ringrazio chi ci ha ospitato, chi ci ha consentito di tenere questo incontro,
chi è intervenuto pur leggendo questo momento come un'occasione perché
si riprenda il dibattito e soprattutto le iniziative di solidarietà
con i prigionieri rivoluzionari secondo il sentire di ciascuno di noi. Ci
sarà chi ritiene di fare azioni dirette a modificare, in qualche misura,
l'ordinamento giuridico vigente o di combattere in ogni forma il 41 bis; questo
è del tutto legittimo. Vi sarà anche chi ritiene che la solidarietà
con i prigionieri rivoluzionari vada ben oltre una modificazione legislativa
che, di fatto, nulla potrebbe cambiare rispetto alla condizione della detenzione
politica. Vi saluto e vi ringrazio tutti.
***
Un saluto del compagno Marcello Ghiringhelli
Carissimi compagni/e, ciao.
Ho ricevuto con molto piacere il vostro opuscolo a sostegno delle lotte sociali
e nelle galere.
Mi complimento per la serietà dell'impegno che svolgete in favore dei
meno garantiti.
Purtroppo mala tempora currunt!
Credo che se siamo arrivati a questi livelli, non è tanto perché
il capitale sia forte e invincibile, ma piuttosto perché noi, i proletari
con i rivoluzionari, non si abbia sufficiente memoria.
Nel contempo siamo troppo frammentati e divisi da centomila parrocchie, già
proprio così!
Nella storia ogni qualvolta il capitale si è sentito attaccato, nonostante
la sua indole caotica, ha fatto quadrato contro gli attaccanti cioè
la classe e/o i rivoluzionari. Mentre per contro quando veniamo attaccati
dal capitale, noi ci frantumiamo di fronte alle minacce e/o lusinghe, dando
così spazio all'opposizione di renderci malleabili come crea....
In una delle ultime lettere che mi aveva scritto la compagna della RAF Ulrike
Meinhof, avevamo già riscontrato questo dilemma molto serio, ma le
sue critiche in tal senso sono state soppresse nel carcere speciale di Stammhaim.
E le mie si sono perse nel magma ribollente degli anni 70/80. Ed oggi, la
situazione non è molto rosea. Tuttavia non dobbiamo mai dimenticare
che noi i proletari e rivoluzionari abbiamo la forza della ragione!
La dobbiamo usare per batterci contro chi oggi inalbera la ragione della forza.
Il capitale con tutti i suoi clichès!
Non arrendetevi, ma imparate a combattere.
Io ho fatto 20 anni il 1.12.2002 di cui 18 in carcere speciale a Novara, senza
mai arrendermi.
Anche se oggi non nego che mi sento stanco. Ma ho fatto 34 anni di carcere,
quindi vi abbraccio tutte/i con affetto.
Buon lavoro, un caloroso saluto comunista.
Marcello Ghiringhelli
carcere di San Vittore
Milano, 9 dicembre 2002
***
Un compagno dell'UDAP sui prigionieri arabo-palestinesi
È doveroso oggi esprimere solidarietà con tutti i prigionieri
rivoluzionari in tutto il mondo, ribadendo la loro totale internità
ai processi rivoluzionari nelle aree di cui fanno parte.
Cari compagni, in Palestina, da anni si parla di movimento dei prigionieri
semplicemente per il fatto che sono numerosi. Allo stato attuale il numero
dei prigionieri ammonta a 8.300, di tutte le età , dai 14 anni in su.
I nostri prigionieri versano in condizioni disumane da tutti i punti di vista:
cibo, visite dei familiari, salute ed accesso alle informazioni esterne. Dal
1967 in poi, abbiamo registrato 122 decessi a causa delle torture in carcere,
numerosissimi sono i detenuti malati che non ricevono cure adeguate. Nelle
carceri sioniste sono passati 450.000 palestinesi nell'arco di trent'anni,
potete immaginare per una popolazione di 3.500.000 di persone, quanto sia
alta la percentuale. L'entità sionista ha inventato forme di accuse
e di detenzione diversificate per giustificare la propria azione nazi-fascista.
Oggi, in Palestina, la detenzione si divide in tre parti fondamentali:
***
Compagni del Soccorso rosso del Revolutionärer
Aufbau Schweiz
Care compagne, cari compagni, in primo luogo, grazie per l'invito alla vostra
iniziativa del 14.12. Anche noi oggi siamo impegnati in una iniziativa di
solidarietà con i prigionieri politici: una manifestazione davanti
al carcere dì massima sicurezza dove, nel braccio speciale, è
in isolamento Marco Camenisch, il compagno anarchico che ha passato più
di dieci anni nelle galere italiane. Per questo vi mandiamo queste righe in
segno di solidarietà e di internazionalismo proletario.
"La guerra contro il terrorismo è una lotta contro un male invisibile
che agisce ovunque". Queste le parole di Bush che ricordiamo tutti. La
borghesia imperialista cerca di uscire dalla profonda crisi capitalistica
portando la guerra imperialista all'ordine del giorno della loro politica.
Nessuno allora si meraviglia che questo famoso "male" si trovi soprattutto
nelle regioni che hanno un'importanza strategica o ricche di materie prime.
Ed è là che, con le bombe, prendono il potere o il controllo
sulla distribuzione delle materie prime. Una repressione feroce si scaglia
contro tutte le forze che si oppongono o alla loro presa di potere o al modo
di produzione capitalista e al suo ordine sociale. I movimenti di liberazione,
le organizzazioni rivoluzionarie e combattenti finiscono nelle famigerate
liste nere, le cosiddette "liste antiterroristiche" e con questo
diventano perseguibili in tutto il mondo.
La controrivoluzione dello stato spagnolo è, per il momento, in Europa,
il punto più alto della controrivoluzione che non attacca soltanto
le organizzazioni rivoluzionarie e combattenti (come PCE-r, GRAPO o ETA) in
Spagna, Paesi Baschi o in Francia. No, vengono messi nella famigerata lista,
quasi giornalmente, nuovi nomi di compagni, collettivi giovanili rivoluzionari
(come Haika o Segi) o organismi di massa, sindacali o quelli
in sostegno e in solidarietà con i compagni prigionieri (Gestorias).
Divieti, blocchi di conti bancari, arresti di massa e torture fino ad oggi
non sono riusciti a schiacciare i movimenti di liberazione, la lotta di classe,
la militanza rivoluzionaria. La controrivoluzione spagnola non agisce soltanto
in Europa, ma si ricorda del suo ruolo storico, come potere coloniale, e appoggia
la controrivoluzione colombiana nella loro lotta contro le FARC.
Appoggiando Sharon nella sua sporca guerra contro il popolo palestinese e il
suo movimento di resistenza, gli USA e gli europei, allungano la lista nera
mettendoci anche il FPLP, un'organizzazione socialista con una tradizione
di lotta rivoluzionaria molto ricca e importante. Con ciò si apre la
caccia ai suoi dirigenti come "terroristi" in tutto il mondo. Questi
attacchi mirano, tra l'altro, anche ad eliminare le basi e le rappresentanze
estere e, con questo, i legami internazionali. Proprio l'altro giorno due
compagni del DHKP-C sono stati arrestati a Londra, la loro sede perquisita.
La "lista antiterroristica" è alla base di questa operazione
sbirresca. Era ovvio che la Turchia approfittasse di questo strumento della
controrivoluzione internazionale, per mettere a tacere tutto ciò che
si oppone in modo radicale al loro regime. Anche la Germania si è attrezzata
con un nuovo articolo del codice penale, il 129b, che permetterà di
perseguire i compagni di organizzazioni straniere come se fossero militanti
di organizzazioni rivoluzionarie tedesche.
Il ruolo della controrivoluzione in Italia lo conoscete voi meglio di noi
e siamo interessati a conoscere le vostre analisi, valutazioni e proposte
di lavoro anche a livello internazionale. Siamo profondamente convinti che,
in questa fase dell'imperialismo, non solo la parola d'ordine "o socialismo
o barbarie" ma anche l'internazionalismo proletario, sia più attuale
che mai.
La borghesia imperialista fa bene a temere la rabbia dei popoli oppressi,
la lotta di classe, la resistenza rivoluzionaria e le lotte di liberazione.
Un'occhiata nelle varie regioni colpite, come ad esempio la Palestina o i
Paesi Baschi, fa vedere che né la guerra né la repressione intensificata,
raggiunge il loro obiettivo. Non meraviglia affatto che, "creare fiducia",
sia la parola d'ordine del World Economic Forum di Davos quest'anno.
A gennaio, come tutti gli anni, la crème de la crème
della borghesia imperialista, governatori, specialisti economici, intellettuali,
scienziati e naturalmente un mare di specialisti antiterrorismo, servizi segreti,
per citarne soltanto un paio, si riuniscono sulla montagna bianca con aria
pulita. Gli strateghi delle guerre, dello sfruttamento e dell'oppressione,
vorrebbero sviluppare in "santa pace", strategie e tattiche da intraprendere
contro la grave crisi capitalistica. Per lo stato svizzero è di fondamentale
importanza, così come ha dichiarato il capo dell'esercito, che questo
"avvenimento più importante per la piazza della finanza svizzera"
si svolga senza "immagini di guerra".
Ogni lotta di classe, resistenza rivoluzionaria o lotta di liberazione, a
livello nazionale o internazionale trova lassù in montagna i "suoi"
nemici di classe, gli imperialisti e potenti della politica, cultura e scienza.
"Creare fiducia" nelle nostre possibilità di mobilitarci
contro un nemico comune, essere visibili e ovunque portando con noi anche
la lotta dei prigionieri politici, è il nostro invito a voi tutti,
affinché si riesca a salire, insieme, lassù in montagna.
Buon lavoro, compagne e compagni
Soccorso Rosso del Revolutionärer Aufbau
Schweiz
membro della commissione per un soccorso rosso internazionale
Zurigo, il 13.12.02
***
Un compagno della Panetteria Occupata di
Milano
Un saluto a tutti, crediamo sia importante oggi fare questa iniziativa come
momento di informazione sulla strategia repressiva che lo stato sta portando
avanti a partire da una riflessione sull'attualità dell'applicazione
del regime di detenzione speciale che rientra nelle norme contenute nell'articolo
41bis dell'Ordinamento Penitenziario. Vuole anche essere un primo momento
di crescita, come necessità di comprendere la situazione carceraria
e repressiva che esiste oggi collegandola ed inserendola in un piano generale,
piano di attacco alle condizioni del proletariato metropolitano in genere
e di conseguenza anche di quello prigioniero. Una riflessione sul carcere
rientra così necessariamente su quelli che sono oggi i rapporti fra
le classi, i rapporti di forza, e su quello che è oggi il livello di
espansione raggiunto dal modo di produzione e riproduzione capitalistico.
Avviare un dibattito a 360 gradi, iniziando un lavoro di informazione, sviluppando
rapporti e reti di collegamento, costruendo un terreno di solidarietà
attiva.
Gli elementi su cui si è fermata la nostra attenzione sono:
***
Un compagno anarchico promotore dell'assemblea
Innanzi tutto vogliamo salutare i familiari dei detenuti comuni incontrati
durante i volantinaggi davanti ad alcune carceri, e che forse sono presenti
oggi.
Che cosa ci aspettiamo da questa assemblea e cosa non vorremmo.
Non vorremmo che l'assemblea si trasformasse in un'autocelebrazione, con degli
interventi, orali o scritti, che "pubblicizzino" la propria organizzazione
o gruppo. Gli interventi che seguiranno - o che ci hanno preceduto - riguardanti
particolari situazioni estere, sono per noi un bagaglio importante e ci sono
di stimolo per affrontare meglio una discussione che, a nostro parere, dovrebbe
però indirizzarsi oggi sullo specifico nazionale.
Ciò che ci aspettiamo, è un confronto di analisi, di metodologie
basate sull'esperienza, un confronto su proposte di lotta concreta per poter
meglio affrontare - come dicevamo nell'introduzione dell'opuscolo - le lotte
che potrebbero svilupparsi all'interno e all'esterno del carcere.
Lotte che potranno essere determinate da detenuti comuni, o da sottoposti
a 41bis (e qui vorrei aprire una parentesi per sgombrare il campo da facili
prese di distanza riguardo i cosiddetti "mafiosi". Innanzi tutto
il termine "mafioso" è un appellativo che dà lo Stato
a chi è imputato di appartenere ad una grossa associazione criminale.
Allo stesso modo in cui pone l'appellativo "terrorista" a chi lotta
contro l'esistente. Poi c'è da dire che non tutti i detenuti che soffrono
il 41bis sono appartenenti ad organizzazioni criminali. A regime 41bis c'è
stato anche un compagno per 10 anni, Matteo Boe; ci sono passati proletari
che, pur non avendo una coscienza di classe, non hanno mai ceduto alle lusinghe
dei Magistrati e che hanno vissuto, o vivono, la loro carcerazione in modo
dignitoso, scontrandosi con i carcerieri e la Magistratura di Sorveglianza.
In ogni modo, è senz'altro un falso problema per un rivoluzionario
che si pone come obiettivo la distruzione della società divisa in classi
e di tutte le istituzioni totali), lotte quindi - dicevamo - che oltre a poter
essere determinate da detenuti comuni o sottoposti a 41bis, possono vedere
coinvolti anche i prigionieri rivoluzionari, è una possibilità.
Ovviamente, non è che ci si possa aspettare che dall'interno del carcere
la lotta possa nascere subito in modo conflittuale.
Una lotta dall'interno, generalmente inizia come lotta intermedia (cioè
che non si pone immediatamente obiettivi rivoluzionari, ma si presenta come
lotta rivendicativa, in carcere così come in qualsiasi settore della
vita sociale), non dimentichiamoci che ogni individuo detenuto è un
ostaggio nelle mani dello Stato e che, quindi, deve muoversi con cautela avendo
anche a disposizione quanta più documentazione possibile, in modo particolare
su quello che accade in altre carceri: dalle condizioni estreme di repressione
alle iniziative di resistenza, di contrapposizione vera e propria. Una lotta
intermedia può andare dal rifiuto dell'aria al rifiuto dei colloqui,
dei pacchi familiari, della socialità e di tutte le altre attività.
Si possono anche sviluppare forme più complesse come il rifiuto del
vitto dell'Amministrazione, del lavoro in carcere, lo sciopero della fame,
la fermata all'aria con rifiuto di rientrare nelle celle, il sequestro di
una guardia.
Nessuno può prevedere come possa evolversi una lotta che parta da una
rivendicazione di migliorie, ma tutti quanti possiamo dare ampio risalto all'esterno
di ciò che accade dentro quelle mura, ed adeguare alla lotta i nostri
metodi e strumenti d'intervento. Tuttavia una lotta contro il carcere potremmo
determinarla anche noi altri, dall'esterno, insieme ad amici e familiari dei
detenuti, perché è anche con chi si vive in prima persona le
conseguenze di una carcerazione che bisogna confrontarsi e creare dei punti
di contatto da cui far partire delle mobilitazioni, auto-organizzate, che
sappiano tenere a distanza gli avvoltoi della Politica.
Nonostante riteniamo che la migliore soluzione possibile per quel che riguarda
il carcere è la sua completa distruzione, spesso abbiamo solidarizzato
con le proteste dei detenuti, tenendo ben presente che non è con il
rivendicare "diritti" a coloro che sono i diretti responsabili della
barbarie-carcere che ci si possa avvicinare alla liberazione ma, a nostro
avviso, con una lotta autogestita in prima persona che sappia mettere in crisi
i meccanismi dell'Amministrazione Penitenziaria ed indurla ad accogliere le
istanze di lotta. Perché è vero che negli ultimi anni le lotte
dei detenuti sono state a carattere rivendicativo (e non totali contro l'esistente),
generalmente pacifiche e di dialogo con le istituzioni, ma è altrettanto
vero che non hanno portato ad una miglioria concreta, relegate ad un attendismo
di volta in volta suggerito da un politico, un ex-carcerato famoso, un Ministro,
un Papa.
Secondo noi la lotta, per avere maggior incisività, deve svolgersi
su due fronti. Quello interno, composto dai prigionieri, e quello esterno
composto da tutte quelle realtà, singoli individui, amici e familiari
che intendono essere vicini ai detenuti in lotta, in modo non strumentale
e non solo assistenzialista.
Una lotta che ponga delle discriminanti nel metodo d'intervento: l'attacco,
cioè nessuna mediazione con il potere; l'azione diretta, cioè
mettere in pratica ciò che dichiariamo di fare, senza delegare ad alcuno,
o aspettare che altri lo facciano al nostro posto; l'autonomia totale della
lotta, cioè il rifiuto di intermediari, strumentalizzatori, partiti,
ecc. Denunciare, sbugiardare, attaccare, boicottare, presidiare le strutture
che compongono il sistema repressivo, i sindacati che hanno tra i loro iscritti
delle guardie carcerarie, le ditte fornitrici e costruttrici di carceri, le
aziende che sfruttano il lavoro dei detenuti (significativa la proposta della
Lega che intende dimezzare la pena ai detenuti che lavoreranno gratis), organizzazioni
e associazioni complici e sfruttatrici. Il potere mira a clandestinizzarci,
espellerci dai contesti sociali, separarci dagli esclusi del sistema, perché
tra essi rappresentiamo lo stimolo perenne alla insurrezione generalizzata,
alla possibilità di riprenderci la vita.
La proposta che lanciamo a questa assemblea è un progetto di lotta,
un intervento continuativo che in prospettiva coinvolga chi soffre la galera,
ma anche chi la sente estendersi sempre più al complesso della propria
vita, nelle proprie case, nel proprio tempo, pur non trovandosi dietro le
sbarre di un penitenziario. Un progetto, quindi, che si fa forza del nostro
agire rivoluzionario del passato e che si pone in continuità operativa
col nostro agire quotidiano, nella interdipendenza tra analisi ed azione,
in modo coerente e dignitoso. Senza secondi fini, se non la lotta stessa.
Gli anarchici promotori
***
Una compagna del foglio Rivoluzione
Innanzitutto un caloroso saluto a tutti coloro che partecipano a questa assemblea
che "Rivoluzione" ha contribuito a promuovere e costruire come un
momento di dibattito per il rilancio della cultura e della pratica della solidarietà
di classe. È questo un momento importante perché, accomunando
in un unico fronte contro la repressione borghese diverse realtà, dà
un segnale nuovo dopo il lungo silenzio in questo campo, silenzio frutto della
cultura della desolidarizzazione e della dissociazione che per mano della
borghesia ha contaminato il movimento di classe e il movimento rivoluzionario
nel nostro paese al fine di distoglierlo dalla via rivoluzionaria. Silenzio
rotto solo dal lavoro minoritario di pochi collettivi di compagni che hanno
resistito in questi anni e hanno continuato a portare avanti la battaglia
a fianco dei Rivoluzionari Prigionieri (RP).
Un saluto e un ringraziamento in particolare agli organismi di solidarietà
e di lotta contro la repressione che oggi sono presenti e che con la loro
lotta e la loro esperienza possono portare in questa assemblea un contributo
positivo, carico di insegnamenti. Con questo intervento non vogliamo entrare
nel merito dell'analisi della situazione carceraria oggi, delle modifiche
nell'ordinamento penitenziario e in quello penale frutto dell'attuale situazione
di crisi del sistema capitalistico, della tendenza alla guerra e del conseguente
acuirsi della lotta di classe nei paesi imperialisti e delle lotte di liberazione
e guerre popolari dei popoli oppressi. Molti interventi, e i materiali proposti
per questa assemblea affronteranno questi temi. Vogliamo invece rispondere
per punti a delle domande che secondo noi servono a dare un orientamento collettivo
al lavoro e alla militanza concreta sul terreno della repressione e della
controrivoluzione.
Innanzitutto: "Perché è fondamentale lottare sempre contro
la controrivoluzione?" Molti compagni, "aree" di movimento,
"gruppi politici" hanno sostenuto e sostengono che questo terreno
di lavoro non è centrale, distoglie dal legame con le masse, provoca
isolamento, va considerato solo quando si viene colpiti direttamente o nei
momenti in cui la repressione diventa visibile, per forza ed estensione, a
livello di massa. A queste affermazioni dobbiamo contrapporre con la forza
dell'analisi scientifica delle leggi che regolano il mondo e con la tenacia
della pratica che, per chi si pone onestamente e senza opportunismo sulla
strada del cambiamento rivoluzionario della società, la lotta contro
la controrivoluzione e la repressione non è un settore particolare
da considerare quando comoda e a seconda dei periodi ma, essa è parte
integrante e indissolubile del lavoro per far avanzare la classe operaia e
il proletariato verso la propria emancipazione. Rivoluzione e controrivoluzione
è una contraddizione, essa è un'unità di opposti: è
la contraddizione che nel suo sviluppo porta o a un avanzamento di un polo
o a quello dell'altro. Un polo non esiste senza il suo opposto, nella politica
rivoluzionaria questi due aspetti vanno trattati sempre e sono l'uno il complemento
dell'altro. La controrivoluzione preventiva, strumento della borghesia, è
nata e si è sviluppata solo dopo l'affermazione della prima rivoluzione
proletaria e da allora avanza e si perfeziona per contrastare ogni possibile
avanzata di processi rivoluzionari, in tutto il mondo. Per Marx ed Engels
fin dall'inizio e, per i partiti comunisti maoisti di oggi, qualsiasi processo
rivoluzionario potrà avanzare solo se si eleva sulla controrivoluzione,
cioè solo se la rivoluzione riesce a divenire polo principale della
contraddizione. Questo significa, nella pratica, che questo terreno di lavoro
è fondamentale in ogni momento e va studiata sempre la situazione concreta
per trovare il modo corretto per affrontarlo.
Una seconda domanda: "Perché quando si affronta la questione carcere
bisogna partire dal punto più alto di segregazione, in questo caso
dal circuito di Massima Sicurezza? E perché quando si parla di prigionieri
partire dai R.P.?"
Molti compagni pensano che devono analizzare la situazione a partire dai soggetti
più numerosi che vengono incarcerati e che il loro lavoro deve partire
da lì, oppure che la realtà di controllo e coercizione va vista
a partire dall'estensione delle misure applicate in tutta la società.
Noi pensiamo, al contrario, che per comprendere bene qualsiasi cosa essa vada
guardata dall'alto perché così si vede per intero e si capisce
il posto che occupano i singoli aspetti di quella cosa. Quindi, per capire
come funziona il sistema carcerario è fondamentale partire dal suo
livello più alto raggiunto perché esprime la sintesi della capacità
repressiva del potere borghese e racchiude i codici che regolano tutta l'istituzione
totale che traboccano e informano l'intera società. E, quando parliamo
di prigionieri, parliamo in primo luogo dei RP perché noi guardiamo
il carcere dal punto di vista del proletariato e della lotta di classe e,
in questa concezione, la loro condizione rappresenta uno dei punti più
alti della lotta dello stato contro chi ha osato organizzarsi per mettere
in discussione il suo potere. Se andiamo a ritroso e guardiamo la storia del
carcere negli ultimi decenni a partire dalla condizione dei RP vediamo che
essa porta con sé un importante spaccato della lotta di classe e rivoluzionaria
nel nostro paese. Questo aspetto è affrontato nell'opuscolo preparato
per l'assemblea nel pezzo intitolato "dall'art 90 al 41 bis". Con
questa impostazione guardiamo alla costruzione di un legame e di un'unità
nella lotta con tutto il corpo prigioniero.
"Che tipo di solidarietà vogliamo promuovere e raccogliere?"
La solidarietà che vogliamo promuovere e raccogliere non è umanitaria
e nemmeno un piagnisteo sulle carenze della "democrazia" borghese
indirizzato al suo possibile miglioramento. Non è una solidarietà
rivolta solo ai prigionieri che in altre parti del mondo lottano all'interno
delle carceri imperialiste. È prima di tutto solidarietà qui,
alla lotta che i RP hanno sostenuto e non hanno svenduto: la loro resistenza
rafforza la nostra lotta e la nostra solidarietà concreta rafforza
la loro resistenza. I RP sono la testimonianza del percorso rivoluzionario
nel nostro paese e dei passi avanti fatti contro il revisionismo. Nonostante
non siano più le migliaia di fine anni '70 continuano a essere estremamente
scomodi e vengono continuamente presi di mira come ora con il 41 bis. Questo
perché essi sono un esempio di coerenza e mostrano con la loro esistenza
che oggi vive una prospettiva rivoluzionaria. È di questo che lo stato
ha paura. La solidarietà che vogliamo promuovere deve servire a sviluppare
questa prospettiva con la consapevolezza che essa è un contenuto indispensabile
per raggiungere l'obiettivo della ricostruzione del partito comunista nel
nostro paese. "Che metodo di lavoro dobbiamo applicare per dare impulso
e sviluppare la solidarietà?"
Contro il gruppismo, la solidarietà di parrocchia, la differenziazione,
dobbiamo costruire un fronte ampio contro il carcere, la controrivoluzione
preventiva, la repressione e a sostegno dei RP che abbia come discriminante
il riconoscimento del nemico comune e la scelta di campo rivoluzionaria. Dobbiamo
intervenire a partire dal particolare della situazione della lotta di classe
attuale. Guardare le cose da un punto elevato non significa non analizzare
sempre tutti i singoli aspetti delle cose e la situazione concreta in cui
si manifestano. Possiamo staccarci a guardare la realtà per elaborare
dei criteri generali di comprensione che siano utili ad intervenire su di
essa solo se prima siamo pienamente immersi in essa e ne conosciamo i nessi
interni. Dobbiamo applicare la linea di massa, saper vedere e valorizzare
in ogni occasione gli aspetti positivi della lotta di classe per contrastare
quelli negativi. Per fare questo è necessario unirsi nella lotta attuale
contro il carcere, non snobbare quello che avviene in risposta a ogni episodio
di repressione solo perché è manipolato o diretto dai revisionisti.
È importante anche saper vedere e utilizzare le contraddizioni, che
oggi sono acute, in campo nemico. Lo stato non è un mostro onnipresente,
cattivo per natura e con strumentazione repressiva imbattibile, come, più
in generale non lo è l'imperialismo. Se attua misure sempre più
fasciste questo non è certo un segno della sua forza ma della sua debolezza.
Concludiamo con l'augurio che questo incontro sia proficuo nel dare elementi
e strumenti per capire la realtà della repressione e della controrivoluzione
che possano dare impulso e guidare un rilancio della pratica della solidarietà
di classe. Siamo convinti che nella situazione attuale in cui la lotta di
classe coinvolge ampi strati di operai, lavoratori, giovani e donne, lo spazio
politico per il nostro lavoro diventa sempre più ampio. Quindi, con
entusiasmo rivoluzionario, diamoci dentro!
Un saluto a tutti i compagni prigionieri e a tutti i detenuti che lottano,
in Italia e nel mondo.
A fianco della mobilitazione dei compagni contro gli arresti di Genova.
Redazione di "Rivoluzione"
***
Una compagna degli Amici e Familiari dei
Rivoluzionari Prigionieri
Le carceri speciali, in Italia, nascono nel '77 dalla necessità dello
stato di isolare i prigionieri politici. Questo perché, con l'arrivo
nelle carceri dei compagni, dal '68 in poi, la situazione diventa sempre più
esplosiva: crescono le rivolte, si pretendono condizioni di vita dignitose
ma soprattutto, i detenuti per cause comuni, prendono coscienza dell'origine
sociale e politica della loro condizione, si sentono parte del proletariato,
si crea un forte legame tra proletariato fuori dalle carceri e proletariato
detenuto. In seguito, con la nascita delle organizzazioni combattenti, anche
il proletariato extra-legale si organizza nei N.A.P. (Nuclei Armati Proletari).
Lo stato deve tentare di arginare la situazione, vara quindi la riforma carceraria,
che entrerà in vigore nel '76. Questa si muove in due direzioni che,
da quel momento in poi, saranno sempre presenti negli schemi delle leggi successive
sul carcere: da una parte, la concessione di benefici, condizioni carcerarie
migliori, permessi subordinati alla buona condotta e, dall'altra, il trattamento
speciale per i prigionieri politici e per quei detenuti che si espongono nelle
lotte.
Ad occuparsi del circuito delle carceri speciali, sono chiamati i carabinieri,
il cui comandante è il Generale C. A. Dalla Chiesa.
All'inizio si creano sezioni speciali all'interno delle carceri normali, contemporaneamente
sono costruite nuove carceri, concepite già come speciali, con caratteristiche,
anche architettoniche, tali da permettere il massimo controllo. Queste, nel
corso degli anni, si andranno sempre più perfezionando con il corollario
di congegni elettronici e tecnologici.
Le carceri speciali non se le sono inventate qui, l'Italia ha un modello da
seguire, la Germania occidentale.
L'Italia e la Germania occidentale, in quegli anni, sono paesi centrali per
la strategia USA, sia come paesi di frontiera con l'area dell'Urss, sia nella
strategia americana contro le lotte di liberazione del Terzo Mondo.
In Germania, in particolare nelle basi militari, esistono centri d'intelligence
da dove sono gestite le operazioni, più o meno segrete, di propaganda,
d'informazione e anche militari, americane. A differenza dell'Italia, dove
esisteva un forte partito comunista, seppure revisionista, la Germania del
dopoguerra, ha cercato di estirpare, nel modo più radicale, ogni tipo
d'opposizione politica, infatti il partito comunista era fuorilegge, dichiarato
anticostituzionale fin dal '56. Dopo l'esplosione del movimento del '68, lo
stato tedesco reagisce varando, immediatamente, leggi speciali d'emergenza.
All'inizio degli anni '70 emergono due organizzazioni di guerriglia: gli anarchici
del "2 giugno", che nascono dall'esperienza delle comuni, in particolare
nel quartiere di Kreuzberg, a Berlino e la R.A.F. che, analizzando il ruolo
strategico della Germania ovest nei piani dell' imperialismo USA, si pone
principalmente su un piano di lotta anti-imperialista. Una delle loro prime
azioni, sarà proprio l'attacco, nel '72, al quartier generale USA di
Heidelberg da dove erano coordinate le campagne di sterminio in Vietnam. Questa
e altre azioni contro le istituzioni americane, hanno rappresentato un aiuto
concreto al popolo vietnamita in lotta, tanto che, ad Hanoi erano affissi
manifesti con la notizia degli attentati e, dopo la liberazione di Saigon
sarà intitolata una strada ad Ulrike Meinhof per ricordare i compagni
tedeschi. Un altro punto importante è la solidarietà (come vedremo
ricambiata), con la lotta del popolo palestinese. Dopo il massacro, ricordato
come "Settembre nero", in Giordania, i compagni palestinesi decidono
di portare la lotta qui, nel cuore dell'Europa. Nel '72, con il sequestro
della squadra israeliana che partecipa alle Olimpiadi di Monaco e le azioni
successive, la lotta di liberazione palestinese esce dall'ambito regionale
in cui era confinata e viene conosciuta in tutto il mondo. Si prende coscienza
del ruolo che Israele svolge in quella regione, che va ben al di là
di quello che appare, e che la lotta palestinese non è solo la lotta
di liberazione di un popolo ma un nodo centrale della lotta antimperialista
mondiale, ruolo che conserva ancora oggi.
Per stroncare la guerriglia lo stato tedesco attuerà, contro i compagni,
una repressione durissima. Saranno rinchiusi, per anni, in carceri super tecnologiche
dove vige l'isolamento in celle singole insonorizzate, dove i compagni verranno
sottoposti a torture di tipo psicologico e farmacologico, secondo tecniche,
studiate fin dagli anni '50 in America, capaci di provocare gravi problemi
fisici e psichici, con lo scopo di annullarne la resistenza e annientarli.
Lo stato tedesco non riuscirà a piegare i compagni: resisteranno e
lotteranno strenuamente con scioperi della fame che porteranno alla morte
del compagno Holger Meins nel '74. E non ci riuscirà nemmeno con l'assassinio
in carcere, nel '76, di Ulrike Meinhof.
Non ci riuscirà nel '77, quando la R.A.F. rapirà il presidente
della Confindustria Schleyer, che era stato attivo nazista nelle SS, e chiederà
la liberazione di 11 compagni. Un commando palestinese appoggerà le
richieste della R.A.F. sequestrando un Boeing 737 della Lufthansa che atterrerà
a Mogadiscio. Un commando dei corpi speciali tedeschi darà l'assalto
all'aereo della Lufthansa liberando i passeggeri e uccidendo i componenti
del commando palestinese. Questo è il primo intervento della Repubblica
Federale Tedesca su suolo straniero dal '45. Infine, verranno assassinati,
nelle loro celle, i compagni Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe.
La versione ufficiale del governo sarà, ed è ancora oggi, "suicidio",
come già era avvenuto per Ulrike Meinhof. L'uccisione dei compagni
susciterà un'ondata di proteste e ci saranno azioni contro obiettivi
tedeschi in tutto il mondo. Le B.R. la definiranno "la prima offensiva
unitaria sul terreno della guerra di classe". Il tentativo di fermare
la guerriglia assassinando i compagni andrà a vuoto. La guerriglia
continuerà a combattere fino agli anni '90. Le tecniche d'annientamento
nelle carceri speciali tedesche, saranno il modello che verrà esportato
un po' ovunque, dall'Italia all'Irlanda, alla Spagna. Non è un
caso che la Turchia, che chiede di entrare in Europa, si adegui a questo modello
con la costruzione dei blocchi, detti di tipo "F", a cui i compagni
turchi stanno resistendo con uno sciopero della fame che ha già prodotto
più di cento morti.
Questo il modello dunque, ma le cose, nell'Italia di quegli anni, che come
abbiamo visto non rappresenta un caso isolato, sono rese difficili dall'alto
numero dei prigionieri e dal livello delle lotte che si sono sviluppate ovunque,
nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri e intorno al problema del carcere.
I compagni prigionieri vengono trasferiti continuamente per impedire che una
situazione stabile possa permettere di organizzarsi e per rendere più
difficoltoso il contatto con l'esterno, essenzialmente con i familiari (se
non si è in qualche modo familiari, non vengono dati colloqui), i quali
sono costretti ad attraversare tutta l'Italia senza mai sapere se il loro
compagno è ancora lì.
Ma nonostante "gli speciali", la lotta non si ferma e raggiunge
il suo culmine con la rivolta dell'Asinara nel '79.
I detenuti chiedono la chiusura del carcere per le condizioni di vita impossibili.
Le B.R., fuori, rafforzano la richiesta dei prigionieri con il rapimento del
direttore generale delle carceri, il magistrato D'Urso. Alla fine, il carcere
dell'Asinara, semidistrutto dalla rivolta, viene chiuso e D'Urso liberato.
Siamo alla fine degli anni '70... la borghesia ha bisogno di portare avanti
una ristrutturazione sia a livello politico che a livello produttivo; ristrutturazione
che è già in atto negli altri paesi, ma che in Italia è
bloccata da più di dieci anni di durissima lotta di classe e dalla
presenza di avanguardie armate. È necessario, per lo stato borghese,
usare ogni mezzo per stroncare queste lotte. Attacca quindi su tutti i fronti,
innanzitutto le fabbriche: emblematica la sconfitta della Fiat con migliaia
di cassaintegrati e i 61 arrestati per "terrorismo"; il movimento,
con teoremi come quello del 7 aprile, che porteranno centinaia di compagni
in carcere e/o all'estero; cerca di fare terra bruciata intorno ai prigionieri
con arresti e intimidazioni a familiari ed amici e a tutti quei settori di
movimento che si occupano di carcerario; arriva anche ad arrestare gli stessi
avvocati difensori, accusandoli di favoreggiamento nei confronti dei loro
clienti (già successo, anni prima in Germania).
Per fermare a tutti i costi la guerriglia, verrà poi applicata la tortura
a chi viene arrestato, non la tortura psicologica, ma quella più spiccia,
la corrente nei coglioni per intenderci. Viene applicato anche l'art. 90,
che è, in pratica, l'attuale 41 bis: colloqui con i vetri, isolamento,
riduzione delle ore d'aria, ecc.
Ma a questo inferno c'è una via di uscita ed è la delazione,
il pentimento, il tradimento che porterà centinaia di compagni in carcere.
Ma non basta, Peci, l'infame tra gli infami, consegnerà le chiavi di
un appartamento, in Via Fracchia, a Genova: quattro compagni verranno uccisi.
La situazione è durissima per tutti, ma ancora c'è la volontà
di lottare contro l'art. 90 e le torture.
Il movimento si mobilita e manifestazioni e scontri si svolgono davanti alle
carceri speciali come Cuneo e Voghera. L'art. 90 verrà infine abolito.
Seguirà poi la stagione delle abiure, la legge sulla dissociazione,
i convegni, i dibattiti e, alla fine, come si conviene alla società
dello spettacolo, tutto finisce in tv, ex-fascisti ed ex-comunisti, le stesse
facce contrite in un cono di luce, ci spiegano che tutto è finito.
Ma la repressione continua. Vengono, di nuovo, arrestati decine e decine di
anarchici; Laudi, nota avanguardia dell'anti-terrorismo monta a Torino il
caso "squatter" contro i compagni che lottano contro il T.A.V. che
porterà al suicidio-assassinio di due compagni, Sole e Baleno. Intanto,
i compagni che non accettano compromessi, che continuano a resistere, restano
nelle carceri speciali rigorosamente isolati. Ed è principalmente a
questi compagni che oggi vogliono applicare l'art. 41 bis. E allora ci chiediamo:
perché proprio adesso? Perché questo rigore verso dei compagni
che sono già nelle carceri speciali da moltissimi anni, alcuni 20,
addirittura 28? Accanimento gratuito? Non lo crediamo.
E allora guardiamoci intorno. La classe sta subendo, ancora una volta, un
attacco durissimo; gli stabilimenti chiudono, migliaia di operai perdono il
posto di lavoro, nel contempo lo stato sociale viene smantellato, si susseguono
gli attacchi in tutte le direzioni (scuola, pensioni, sanità, ecc.)
la crisi economica porta il capitale alla dislocazione produttiva, in paesi
dove lo sfruttamento e quindi il profitto sono maggiori; cresce il capitale
finanziario. Tutto questo fa sì che non ci sia più spazio per
ipotesi riformiste. Lo stato perde quindi, sempre di più, il ruolo
di mediatore dei conflitti, poiché c'è sempre meno da mediare,
per assumere la veste repressiva e di controllo. Le emergenze si susseguono.
All'emergenza permanente, lo stato da risposte che assomigliano, sempre di
più, al carcere vero e proprio: aumentano i contenitori per merce umana,
i centri di detenzione per gli immigrati con il corollario della legge Bossi-Fini,
le comunità di recupero; si parla di abolire la 180 e di riaprire i
manicomi, fino alle casette chiuse per regolarizzare la schiavitù della
merce donna. Lo stato non ha dimenticato gli anni '70. La classe certo è
sotto pressione, costretta sulla difensiva, sempre più smembrata dal
nuovo, anche se in realtà vecchio, modo di produzione con i lavori
atipici, a termine, part-time, a chiamata, chi più ne ha più
ne metta! A quale livello dunque, può, in questo contesto, avvenire
la ricomposizione di classe se non su un terreno politico?
Fermare le avanguardie che potrebbero operare questa ricomposizione è
essenziale: questa è la vera emergenza.
Per questo lo Stato attua una contro-rivoluzione preventiva contro tutti:
i lavoratori, che si mobilitano contro il Libro Bianco e l'art. 18 (da notare
la rapida riconversione della CGIL a interprete-incanalatore delle lotte);
il movimento (i fatti di Napoli e di Genova che porteranno alla morte di Carlo
Giuliani, non sono casuali); la ripresa dell'attività combattente,
preparando gli strumenti di cui, l'art. 41 bis è uno di questi. Ma la
repressione, per essere efficace, deve essere generalizzata. Ogni compagno
deve sapere di essere a rischio carcere.
Lo Stato, per questo, non si limita mai a colpire solo "i responsabili",
ma deve creare un clima di intimidazione, arrestando e inquisendo: i 20 arrestati
a Caserta lo dimostrano, non c'è bisogno di prove per il 270 bis.
La repressione e l'inasprimento del carcere servono, da un lato, a ri-punire
chi non si è arreso e rivendica la propria identità politica
dando una continuità storica alle lotte e, dall'altro, a desolidarizzare,
a spingere alla resa. Il solito vecchio gioco. Tutto questo nulla ha a che
vedere con il governo di centro-destra, anzi, basti dire che, di fronte alla
proposta di applicare l'art. 41 bis per la durata della legislatura, il centro-sinistra
ha chiesto, e naturalmente ottenuto, che l'applicazione del 41 bis sia a tempo
indeterminato!
L'intensità della repressione e del controllo sociale non dipendono
dal tipo di governo, è lo stato borghese, nel suo insieme, che non
può permettersi un 'intensificazione della lotta di classe, che ha
bisogno del controllo sociale all'interno, per svolgere al meglio le sue funzioni
di Stato imperialista, per poter affrontare al meglio l'intensificazione della
contesa internazionale. Uno scontro che è vitale per l'imperialismo;
uno scontro, sempre più complesso, che si svolge a tutti i livelli:
commerciale, politico e sempre di più militare, che vede coinvolti
tutti, dagli Usa all'Europa in via di costruzione, alla Russia, alla Cina.
Uno scontro che, in prospettiva, sarà guerra aperta. Lo stato imperialista
deve, dunque, tenere sotto controllo la situazione interna per massacrare,
in pace, i popoli oppressi.
I due piani, interno e internazionale, sono le due facce dello stesso problema.
La stessa parola d'ordine: annientare chi resiste.
Chi non è con noi è contro di noi. Inutile cercare qualche eco
di Voltaire in questa frase. Il dominio borghese, nel procedere del suo cammino
storico, ha perso quei valori che, per secoli, ci ha propinato per camuffare
la sua vera essenza, ha perso ogni volontà di mediazione, ogni progetto
di sviluppo, quello che vediamo oggi è l'imperialismo ridotto all'osso,
quello che i popoli coloniali conoscevano già. Chi non è con
noi è contro di noi. Non ci sono diritti, nemmeno la farsa dei diritti
umani, pensiamo a Guantanamo, alla Palestina, all'auto colpita da un missile
nello Yemen. Israele ha aperto la strada alle esecuzioni mirate, adesso ci
provano gli Usa: silenzio assoluto, diventerà la norma. Compilano liste
dove si trovano le più svariate organizzazioni di lotta, non ci sono
ragioni legittime per opporsi, non c'è diritto alla resistenza.
Chi non è con noi è contro di noi. La guerra non è più
episodica per uscire da uno stato di crisi irrisolvibile altrimenti. La crisi
è permanente, la guerra diventa strutturale, infinita, duratura. Guerra
preventiva, non più missioni di peacekeeping o guerra umanitaria,
è la guerra e basta.
Chi non è con noi è contro di noi, estrema sintesi, il nocciolo
duro del dominio borghese.
Un livello di scontro altissimo. Non siamo nel '17, oggi l'imperialismo è
giunto a un tale livello di compenetrazione tra le varie aree del pianeta
che non sopravvivrebbe a una rivoluzione russa, il suo bisogno di risorse
è tale che non può permettersi di perdere nessuna area del pianeta.
Deve controllare tutto. Controllare, non governare. Non si piega nemmeno,
e non potrebbe, alle richieste legittime di borghesie nazionali che non vogliono
certo cambiare il sistema ma, più semplicemente, ritagliarsi un piccolo
spazio, gestire in proprio le loro risorse. Non è più tollerabile
questo. Pensiamo al tentato golpe in Venezuela, l'attacco all'Irak, quello
che c'è stato e quello che ci sarà, la Somalia, la Jugoslavia,
l'Afganistan e poi l'Islam, il male assoluto che si annida ovunque, lo cercano
anche qui.
L'art. 41 bis sarà applicato anche ai prigionieri islamici che si trovano
nelle carceri italiane (sono più di un centinaio); si susseguono, infatti,
gli arresti di presunti "terroristi" islamici, spesso è palese
che si tratta, semplicemente, di lavoratori di origini arabe arrestati a scopo
propagandistico. Pensiamo alla fantomatica nave carica di uranio radioattivo
o all'arresto di tre pescatori egiziani nella cui casa, alla seconda perquisizione
(non alla prima), avvenuta una settimana dopo l'arresto, sarebbe stata trovata
una cintura esplosiva, fino a rasentare il ridicolo, con gli arresti nella
chiesa di S. Petronio a Bologna. Spesso, per questi arrestati, la situazione
risulta particolarmente dura, specie se difesi soltanto da avvocati d'ufficio,
che non si occupano certo delle condizioni di detenzione.
Sia che siano vittime della propaganda che tende a dipingere gli arabi come
"terroristi", sia che appartengano effettivamente ad organizzazioni
islamiche, li consideriamo detenuti politici. Naturalmente, è ovvio
che non siamo interessati al fine politico della loro lotta, il nostro fine
è inconciliabile con la Sharia; ma ci siamo interrogati sulle
ragioni che spingono, in alcune situazioni, i popoli arabi a cercare un punto
di riferimento nell'Islam. Sicuramente, la caduta dell'Urss non permette più,
ai paesi del Terzo mondo, di trovare una via per uscire dal sottosviluppo
entrando a far parte della sfera sovietica; il neoliberismo ha aggravato la
situazione di questi paesi come del resto in tutte le altre parti del mondo,
dall'Europa dell'Est, all' America Latina, all'Africa, lasciandoli senza vie
d'uscita, sempre più poveri e sempre più legati e sottomessi
al volere imperialista. Le contraddizioni sono diventate enormi. In questo
contesto si inserisce l' Islam che, pur non essendo un fenomeno unitario,
in alcune situazioni, può esprimere un forte carattere anti-imperialista.
L'esempio forse più esplicativo di questa parabola lo vediamo in Palestina
dove, in un popolo sostanzialmente laico che ha avuto per anni la sinistra
all'avanguardia nella lotta di liberazione, cresce il fenomeno islamico. Davvero
c'è un risveglio religioso? Non crediamo sia questo il punto. Piuttosto,
la sinistra è in crisi e non solo lì. Le rappresentanze borghesi
si sono messe o, per meglio dire, hanno provato a mettersi, sulla via delle
trattative, mentre gli islamici, favoriti all'inizio proprio in funzione anti-sinistra,
sono sfuggiti al controllo, hanno continuato la lotta (questo conta, in un
paese sotto un'occupazione durissima come quella israeliana ), hanno utilizzato
i fondi che venivano dai paesi islamici per sviluppare servizi sociali, asili,
scuole, presidi sanitari, ecc., tutte cose che contano per chi vive in un
campo profughi. Stessa politica portata avanti, nel sud del Libano, dagli
Hezbollah, occupando, quindi, uno spazio lasciato vuoto dalle forze
laiche e di sinistra.
Non si tratta, dunque, di arretramento culturale ma, piuttosto, la manifestazione
del bisogno che hanno i popoli arabi di opporsi all'occidente imperialista
e al sionismo, comunque. Da comunisti, sappiamo che anche in una fase di debolezza,
possiamo interagire con la realtà, pena l'isolamento. E allora, così
come i compagni in Palestina, in nome dell'unità nazionale, lottano
insieme agli islamici contro Israele pur portando avanti una lotta specifica,
così noi qui, in un altro contesto, non possiamo ignorare che l'Islam
è un collante culturale importante per gli immigrati arabi nel nostro
paese e non possiamo non confrontarci con loro, che sono poi con noi, nelle
fabbriche e anche nelle carceri, con i nostri stessi problemi.
Non uniamoci alla campagna contro il cosiddetto "terrorismo islamico"
e alla guerra scatenata dall'imperialismo. Proprio perché sappiamo
che non c'è scontro di civiltà, ma uno scontro di classe, tutto
dipenderà dalla nostra capacità, come sinistra internazionale,
di costruire delle alternative credibili, una prospettiva storica e di farlo
non solo a parole, ma lottando concretamente a fianco dei popoli arabi. L'Islam
o Saddam, non sono il nostro nemico principale oggi.
Abbiamo cercato di inserire il discorso carcere in un ambito più generale
perché, al di là della nostra condizione soggettiva, molti di
noi seguono da anni compagni in carcere, non vogliamo specializzarci nel carcerario,
non avrebbe senso. Vogliamo, piuttosto, cercare di fare in modo che la lotta
contro il carcere e l'art. 41 bis, entrino a far parte delle altre lotte.
Non possiamo fare un discorso separato dal contesto generale perché
i compagni prigionieri sono parte integrante di una lotta internazionale.
I compagni prigionieri rivoluzionari rappresentano un percorso storico che
è impossibile ignorare se vogliamo andare avanti e, se vogliamo andare
avanti, i nostri compagni ce li dobbiamo rivendicare, questo non significa
necessariamente condividere la loro proposta strategica di lotta, ma fare
in modo che la loro resistenza diventi anche la nostra.
***
Un saluto dei compagni Pietro Guido Felice
e Giorgio Colla
Cari compagni, ho ricevuto l'opuscolo che mi avete spedito. A fronte dell'attacco
e repressione che stanno portando avanti governo e capitale contro la classe
operaia e movimenti proletari, iniziative come queste sono necessarie. Contro
il rincoglionimento da tubo catodico che ci vorrebbe gregge demente e remissivo,
10 100 1000 iniziative che fanno vivere e veicolano la memoria rivoluzionaria.
Saluti comunisti
Biella, 09.12.2002
***
Alcuni compagni francesi sulla proposta
di azione contro le nuove carceri in Francia
Contro le nuove carceri, occupiamo i cantieri.
Appello per una riunione di preparazione.
Dopo la libera circolazione delle merci e la moneta unica, il processo di
costruzione della potenza economica e militare europea si avvia alla tappa
dell'unificazione giudiziaria e poliziesca. La manifesta volontà di
giungere a un codice penale europeo è legata al fiorire in ciascuno
dei paesi dell'Unione europea di una moltitudine di nuove leggi e misure ultra
repressive, che sono il frutto del comune lavoro dei ministri dell'interno
e della Giustizia incontratisi durante i vertici dell'Unione europea a Tempere
(Finlandia), Nizza, Barcellona. Questi vertici hanno prodotto una comune politica
contro i lavoratori precari immigrati, una nuova definizione del concetto
di "terrorismo" inglobante tutti i movimenti sociali radicali, la
costituzione dell'EuroPol (una polizia europea allo stato embrionale)
e del sistema di informazione di Schengen (SIS, un sistema informatico che
raggruppa tutte le schedature effettuate dagli apparati polizieschi dei vari
paesi membri). Ma, nei fatti, l'instaurarsi di un vero spazio giudiziario
europeo si avrà il primo gennaio del 2004 quando entrerà in
vigore il mandato di arresto europeo. A partire da questa data, su richiesta
di giudice o di un procuratore, le leggi in vigore in ciascuno dei paesi dell'
Unione saranno applicate a tutti coloro che vivono in uno dei 24 paesi membri.
Tale volontà si manifesta chiaramente in un atteggiamento ultra repressivo
verso i movimenti "sovversivi" (uso delle armi a Goteborg e Genova,
messa al bando delle organizzazioni di esiliati turchi, colombiani, iraniani
e kurdi, messa fuori legge di Batasuna in Spagna, incarcerazione di alcuni
sindacalisti in Francia e retate contro gli anarchici piuttosto che contro
i no-global in Italia), e tende ad andare oltre giacché mira
ad una politica di terrore contro tutta la società civile. Tale situazione
è particolarmente evidente in Francia dove lo stato ha lanciato un
programma per la costruzione di 13.200 nuovi posti in carcere a coronamento
di una politica ultra repressiva trasversale (propria della destra come della
sinistra di governo) che ha designato quale nemico da abbattere la gioventù
delle periferie:
***
Una compagna del Gruppo di Lavoro Contro
la Repressione
Sono una compagna del Gruppo di Lavoro Contro la Repressione, un organismo
che raccoglie compagni e compagne di varie città e che da anni sta
lavorando concretamente sul terreno della repressione con la coscienza di
doverlo fare sempre, non solo quando essa si esprime nella sua forma più
evidente.
Siamo felici di partecipare a questa assemblea oggi; avevamo promosso la partecipazione
3 anni fa a un presidio sotto il carcere speciale di Trani, avevamo riproposto
la mobilitazione in sostegno ai Rivoluzionari Prigionieri (RP) davanti al
carcere di Biella per due anni consecutivi, sempre in occasione della Giornata
Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero. Questo ha sortito una partecipazione
abbastanza numerosa dei compagni/e che avevano capito che la solidarietà
nei confronti dei R.P. e il lavoro contro la repressione deve avere una caratteristica
militante, che bisogna esporsi, partecipare in prima persona davanti alle
carceri e urlare in mille modi diversi la nostra solidarietà.
Parto da una domanda: qual è il motivo principale per cui la repressione,
nei suoi vari livelli, sta assumendo dei connotati sempre più forti
e pesanti? Non certo perché i padroni e la magistratura serva dei loro
interessi siano più "cattivi" del solito, ma perché,
come hanno sottolineato altri compagni, c'è una crisi irreversibile
del sistema di produzione capitalistico e, contemporaneamente, a fianco delle
lotte di liberazione dei popoli oppressi, c'è una ripresa e un'avanzare
della lotta di classe nei paesi imperialisti.
L'imperialismo ha bisogno di fare delle guerre sempre più ravvicinate
per tentare di uscire dalla sua crisi. Questo produce morte e distruzione
sul fronte esterno e delle contraddizioni sempre più feroci sul fronte
interno.
L'appesantirsi della repressione, in questo senso, non è un esempio
di forza della borghesia, ma un esempio della sua debolezza, cioè della
sua incapacità di risolvere pacificamente le contraddizioni che il
suo sistema produce con la classe operaia, il proletariato e le masse popolari.
In Italia, l'attuale uso massiccio dei reati associativi, che non sono certo
riapparsi con l'ultima inchiesta della procura di Cosenza, ma che vengono
utilizzati da anni contro i comunisti e gli anarchici, è uno strumento
di lotta preventiva contro chi si organizza autonomamente dalla borghesia
e che vuole indirizzare le energie positive che la lotta di classe nel nostro
paese sta esprimendo verso la via rivoluzionaria. In questo senso abbiamo
portato la nostra solidarietà nei confronti di tutti coloro che sono
stati colpiti dai reati associativi, ma nello stesso tempo abbiamo rimarcato
delle questioni importanti, con l'obiettivo di denunciare da una parte la
natura fascista di questo stato che non è riformabile, ma che si può
solo distruggere e, dall'altra, chi continua ad illudere le masse popolari
dicendo che si può migliorare. Quindi unità con chi viene colpito
dalla repressione, ma contemporaneamente lotta ideologica contro le idee sbagliate
che imperversano nel movimento. Prima due compagni sottolineavano giustamente
che il livello, il confine di legalità non lo definiamo noi, ma la
borghesia: tutti coloro che gestiscono ad es. quello che è avvenuto
alla questura di Genova qualche giorno fa come un complotto contro il movimento,
come un atto compiuto da servizi deviati o come, peggio ancora, fatto da provocatori,
assassini ecc, di fatto negano nel nostro paese qualsiasi ipotesi di esperienza
rivoluzionaria, di organizzazioni che si pongono l'obiettivo della rottura
rivoluzionaria. In questo senso è pericolosa quest'idea che l'arco
revisionista, dal PRC ai Disobbedenti, sta seminando nel movimento.
Un'altra cosa importante che abbiamo cercato di denunciare è la linea
di difesa sbagliata, su cui abbiamo anche scritto un allegato all'opuscolo
"Reati associativi. Imparare a difendersi" intitolato "Non
un passo indietro", in merito alle varie inchieste aperte in questi mesi.
Essa rigetta i reati associativi, ma ammette che la magistratura lavori sui
reati specifici, non capendo che i primi vengono costruiti proprio sull'esistenza
dei secondi, che i secondi avallano l'esistenza dei primi. Questa gestione
crea non solo confusione e una linea difensiva debole, oltre che dare fiducia
a magistrati servi dei padroni, ma anche una divisione nel movimento tra chi
viene inquisito per gli uni o per gli altri. Forse, ai signori revisionisti,
i compagni incarcerati a Genova per "devastazione, saccheggio e resistenza
a pubblico ufficiale" sono indagati meritatamente!
Il compagno Ghiringhelli prima diceva nel suo saluto che noi dobbiamo uscire
dalle nostre parrocchie.
Dobbiamo avere la capacità di comunicare, soprattutto ai giovani e
ai giovanissimi, quella che è l'esperienza del carcere, della repressione,
ribadendo che sotto i suoi colpi ci si può rafforzare, facendolo in
tutti i luoghi e i momenti utili; non solo nelle nostre iniziative, ma anche
in quelle dirette da altri, anche dai revisionisti. Dobbiamo avere il coraggio,
la forza e la determinazione di portare i nostri contenuti ovunque, così
come ci insegnano le AFAPP, le Tayad e tutte le associazioni di solidarietà
internazionale che stanno portando avanti la loro lotta nonostante tutti gli
attacchi cui sono sottoposte.
Finisco dicendo che la solidarietà è una cosa molto concreta
e dobbiamo portarla in mille forme, attraverso mostre, presidi in piazza e
davanti alle carceri, la partecipazione ai processi che avvengono in altri
paesi, come quello di un mese fa a Parigi per l'estradizione di otto compagni
spagnoli. Anche questi sono momenti importanti per aprire e consolidare rapporti
con altri organismi di solidarietà, con l'obiettivo di partecipare
all'importante progetto di un Soccorso Rosso Internazionale che sarà
uno degli strumenti di difesa politica e pratica di cui i compagni si dovranno
dotare, per il rilancio della solidarietà di classe e per la difesa
di tutti i Rivoluzionari Prigionieri, delle loro idee e delle loro condizioni
di vita.
***
Un compagno di Senza freni
Con questo articolo vorremmo mettere in evidenza alcune probabili tendenze
della politica penitenziaria in Emilia Romagna, non per fornire un quadro
"localistico" ma piuttosto per analizzare un aspetto, quello della
repressione, in un'area che presenta caratteristiche omogenee rispetto al
sistema produttivo, alla gestione e all'organizzazione del lavoro e della
vita sociale. Più che ad una regione geografica, facciamo riferimento
ad un'area metropolitana che si snoda lungo la via Emilia tra nuclei abitativi
e grandi aree industriali.
Storicamente, l'Emilia Romagna è caratterizzata dall'esistenza di tessuti
produttivi diffusi, una notevole sinergia tra grandi e piccole/medie imprese
che ne costituiscono l'indotto, da un rapporto molto stretto sia tra industria
e artigianato che tra industria e agricoltura. Data la struttura produttiva,
quest'area è sempre stata suscettibile a facili ristrutturazioni e
mutamenti, senza però pesanti ricadute sul livello occupazionale ed
anzi potendo contare su un "certo" benessere dei lavoratori (il
tasso di disoccupazione in Emilia Romagna è stato del 4,6% nel 1999,
del 4% nel 2000 e del 3,7% nel 2001, a fronte di una media italiana del 10-12%).
Tuttavia, è necessario anche un elevato livello di pace sociale per
la riuscita di ristrutturazioni che comunque incidono pesantemente sulle condizioni
di vita dei proletari e sulla composizione di classe (aumento della flessibilità
e della precarietà, presenza crescente di forza-lavoro extraeuropea).
Le giunte rosse emiliane, per anni hanno garantito poche resistenze alle iniziative
di uscita/ripresa dai periodi di crisi, non tanto a causa di un reale consenso,
quanto per il fatto che la borghesia, attraverso il PCI, poi DS, è
riuscita a mantenere una vasta rete di rapporti di controllo e direzione all'interno
della classe, egemonizzando pesantemente sia le organizzazioni sindacali,
sia le svariate forme culturali, di movimento e di aggregazione esterne ai
partiti. In sintesi, la particolare elasticità della struttura produttiva
rende possibile il mantenimento in Emilia Romagna di una certa stabilità
sociale che può avvalersi della possibilità del riassorbimento
della forza-lavoro espulsa nel circuito produttivo e/o del recupero delle
avanguardie di classe all'interno del mastodontico apparato burocratico-sindacale
della CGIL o del PCI-DS.
Anche sul piano repressivo, una struttura produttiva e politica di questo
tipo, ha condotto alla formazione di tendenze riformistiche, finalizzate formalmente
alla progressiva riduzione del ricorso alla pena detentiva e, comunque, al
miglioramento delle condizioni di esecuzione della pena.
È nostro preciso obiettivo fare piazza pulita della favoletta del carcere
più umano, della riabilitazione e del recupero attraverso il lavoro,
mostrando come tale ipotesi riformista sia possibile solo in ristretti contesti
produttivi, capaci di assorbire la forza-lavoro eccedente ma, soprattutto,
come sia perfettamente funzionale al sistema repressivo nel suo complesso.
Credere di poter sostituire progressivamente il carcere con forme di custodia
attenuata, alternative alla reclusione e fondate sul lavoro, significa non
voler fare i conti con le contraddizioni più macroscopiche di questo
sistema sociale. Il capitalismo porta porzioni di proletariato a entrare a
far parte dell'esercito industriale di riserva (disoccupati). Questo meccanismo
si acuisce nei momenti di crisi economica. Queste porzioni sociali vivono
grazie ad attività extra-legali. L'illusione di poter umanizzare il
carcere sembra così nascere in contrapposizione e in alternativa ad
una visione autoritaria di "destra" ma, nei fatti, ne costituisce
un elemento indispensabile e complementare. Le cosiddette misure alternative
alla reclusione carceraria tramite affidamento in prova, semilibertà,
lavoro esterno, comunità di recupero ecc, costituiscono un essenziale
strumento materiale delle moderne politiche repressive poiché è
soltanto attraverso un percorso premiale che il singolo detenuto può
accedere ai benefici concessi dallo Stato. La differenziazione della pena
applicata mediante il trattamento individualizzato, le meschine privazioni
e il ricatto del "premio" per chi dimostra arrendevolezza collaborando,
operano nella direzione di una sistematica desolidarizzazione del proletariato
imprigionato e della frammentazione preventiva della sua forza potenziale
come classe. L'«alternativa»si concretizza praticamente nello
sviluppo, dove possibile, di sinergie tra istituzioni statali, datori privati
di lavoro sottopagato, cooperative sociali (a Parma, il Consorzio di Solidarietà
Sociale, la Sirio, la Cabiria) e associazioni di volontariato
nel ruolo di intermediari di forza-lavoro. È così che a Parma,
ad esempio, c'è una ricchezza di progetti per la formazione e il reinserimento
dei detenuti e si sprecano gli appelli accorati per creare e promuovere "ponti
tra fuori e dentro", come le strutture di accoglienza e gli stages
lavorativi finanziati dalla regione nei penitenziari di Parma, Forlì
e Piacenza. Così pure si sprecano le tavole rotonde di esperti, mirate
a sviluppare risorse e opportunità per detenuti ed ex-detenuti durante
il reinserimento e a facilitare il rapporto tra luoghi di esecuzione della
pena e territorio. Di fronte alla miseria dei risultati raggiunti dall'enorme
apparato riformista in Emilia Romagna sul versante della de-carcerizzazione,
stanno gli alti livelli di repressione e di controllo sociale diffuso garantiti
dalla sua funzione "umanitaria". Allora, per sgomberare il campo
dalle illusioni riformiste di un'alternativa capitalistica al carcere e alla
reclusione, sarà meglio far coincidere le ipotesi di umanizzazione
del carcere - queste sì, realmente utopiche poiché implicitamente
paventano un capitalismo dal volto umano - con le politiche di diffusione
e differenziazione del controllo sociale, cui sottendono le attuali "politiche
della sicurezza".
In questi ultimi anni stiamo assistendo al rapido decentramento e alla diffusione
territoriale del carcere, attraverso meccanismi alternativi di internamento
e di controllo e la creazione di nuove strutture para-carcerarie. Una sorta
di carcere metropolitano, differenziato sia in orizzontale, in relazione alla
collocazione sociale del soggetto "criminale" (Centri di Permanenza
Temporanea per il proletariato extraeuropeo, comunità per tossicodipendenti,
manicomi per i "malati" psichici) e sia in verticale, in relazione
al grado di controllo connesso alla "pericolosità sociale".
In quest'ottica, l'applicazione in forma estesa del 41bis, la detenzione nelle
carceri dure, l'isolamento protratto, l'annientamento psico-fisico non sono
che l'altra faccia dell'accesso individualizzato e premiale alle forme di
custodia attenuata; una riedizione in chiave moderna della logica del bastone
e della carota.
Dinamiche simili possono ravvisarsi per quanto riguarda le politiche di gestione
dei flussi migratori dal Sud e dai paesi più poveri dell'area mediterranea.
L'alto grado di sfruttamento e l'elevata ricattabilità costringono
milioni di proletari in una situazione di illegalità permanente, determinante
il sovraffollamento e la nuova composizione sociale nelle carceri: al 31 maggio
2001 si hanno 1.930 detenuti italiani e 1.400 stranieri rinchiusi nelle carceri
emiliane; dai dati nazionali risulta che sono solo 670 i detenuti nati in
Emilia Romagna. La critica ai C.P.T., sul piano antirazzista e umanitario,
non fa che rafforzare l'opzione riformista di una gestione alternativa di
queste nuove strutture carcerarie e, con essa, le "politiche della sicurezza"
nella loro totalità e, nello specifico, il decongestionamento delle
carceri mediante la diffusione di nuove strutture di reclusione. Gli appelli
all'integrazione del proletariato extraeuropeo nascondono le caratteristiche
generali di queste nuove trasformazioni sociali in cui si fa sempre più
labile il confine fra proletariato e sottoproletariato. Anche nella repressione
dei comportamenti cosiddetti "devianti", assistiamo all'estensione
dell'uso della reclusione; anche quando suddetti comportamenti non costituirebbero
un danno immediato per la società, vengono comunque considerati "pericolosi"
o una minaccia per la tranquillità sociale. È il caso, tra i
tanti, di tutti coloro che vengono definiti "malati psichici".
La recente occupazione del centro psichiatrico "1° Maggio" di
Colorno, in provincia di Parma, ha costituito il riemergere vivo di queste
tematiche; non ci soffermiamo adesso sulla cronaca o i particolari di questa
lotta che saranno ripresi a margine. Ci interessa evidenziare come alcuni
settori della sinistra istituzionale parmigiana si siano prodigati nel tacciare
questa lotta, che è stata portata avanti insieme ai "malati"
e ai loro familiari, come lotta conservatrice, difensiva della logica manicomiale.
Come per il carcere, sembra che l'intera questione possa essere risolta attraverso
una psichiatria innovativa e democratica, che sostituisce ai manicomi gli
appartamenti, agli infermieri professionali gli operatori sociali, all'elettroshock
e ai letti di contenzione, bombe di psicofarmaci. Il "manicomio che si
libera" , come venne definito in un libro di F. O. Basaglia ("Manicomio,
perché?" - 1982), fa parte ed è il capostipite di tutta
quella "cultura alternativa" alla cosiddetta devianza, male curabile
frazionando il grande cubo, brutto, logoro e vistoso, in tanti piccoli cubetti
più accettabili moralmente, ed esteriormente più discreti.
Su queste tematiche, il dibattito è stato spesso ridotto alla contrapposizione
tra sostenitori del privato e sostenitori del pubblico, tra liberisti e statalisti.
Ma c'è anche chi ha pensato di poter fare di necessità virtù,
proponendo il modello del privatosociale, del sociale che si fa impresa. Questa
scelta si colloca a metà strada tra pubblico e privato, poiché
associa ad una gestione privatistica dei servizi, il ricorso ai finanziamenti
statali, regionali, europei (pubblici), oltre all'accettazione del principio
aziendale, in primis, quello della competitività. Le motivazioni ideologiche
che vengono portate a sostegno del privato-sociale, coincidono con una visione
della società molto superficiale: si critica il servizio pubblico ma
senza mettere in discussione la logica aziendale/mercantile riprodotta nelle
cooperative, anzi in esse accentuata dal carattere mistificante del "lavorare
senza un padrone". Oltretutto, il passaggio della psichiatria, della
sanità in genere, dal pubblico al privato, se pur in forma ibrida (appalti
e finanziamenti nel pubblico, investimenti e sgravi fiscali nel privato),
garantisce notevoli fette di torta da accaparrare all'universo delle associazioni,
cooperative sociali, enti ed imprenditori di questa promettente new-economy
della sofferenza. Con questo, non vogliamo certo ergerci a strenui difensori
del pubblico poiché, oltre a non aver mai rappresentato una risposta
agli interessi proletari, è servito e serve tuttora come strumento
di controllo e repressione di quegli stessi interessi. La tendenza a livello
nazionale, tramite la proposta di legge Burani-Procaccini, è quella
di inasprire ulteriormente le condizioni già precarie dei "malati
psichici", attraverso ad esempio la riesumazione della pericolosità
sociale e l'estensione del ricovero coatto, tendendo a far diventare l'intero
circuito dell'assistenza psichiatrica, un diffuso Ospedale Psichiatrico Giudiziario
governato da operatori, cui è attribuita la responsabilità piena,
anche legale, del comportamento e delle scelte di un individuo ridotto a malato.
La psichiatria non è professata solo dagli psichiatri, ma di fatto,
da tutti quelli che pensano che certi comportamenti siano automaticamente
sintomi di pazzia, psicosi, schizofrenia, delirio paranoide, ecc. La classificazione
tra normale e anormale, tra sano e malato di mente, è uno degli schemi
più usati nel linguaggio comune e nel giudizio verso gli altri. L'intervento
del controllo sociale della devianza, della malattia psichica, del comportamento
anomalo, che nella pratica riveste forme di sovvenzione, assistenzialismo,
soluzione dei bisogni, ha nella realtà il fine, appunto, di controllare,
prevenire, annientare o recuperare alla norma del dominio e del modo di produzione
capitalistico.
In generale, è il business il motore che permette in Emilia Romagna
buone prospettive di razionalizzare al meglio il sistema repressivo. A fronte
di un 33% di detenuti tossicodipendenti e 30% di stranieri, le soluzioni per
il sovraffollamento, sono strutture detentive differenziate per i tossicodipendenti
e il rimpatrio, previo soggiorno nei già citati C.P.T., per gli immigrati.
La detenzione dei tossicodipendenti, si traduce di fatto in una vera e propria
privatizzazione delle carceri, già paventata negli scorsi anni, oggi
diventata realtà. È il caso di Castelfranco, in provincia di
Bologna, che potrebbe rappresentare l'apripista alla penetrazione dell'interesse
privato nel settore dell'esecuzione penale. Il modello è quello anglosassone.
L'ex casa di lavoro di Castelfranco in Emilia (per la cui ristrutturazione,
lo stato ha speso 15 miliardi di lire), affidata in gestione alla comunità
dei Muccioli (San Patrignano), sarà il primo esperimento di carcere
privato in Italia. Questa struttura è costituita da un'azienda agricola
di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre, alveari e macchine agricole
e, in attivazione di un protocollo d'intesa tra ministero della giustizia
e regione Emilia Romagna, sarà destinata a casa di lavoro a custodia
"attenuata" (un carcere "soft") per i tossicodipendenti
e potrà "ospitare" fino a 150 persone. L'operazione è
iniziata a metà luglio del 2001, in ballo c'è l'assegnazione
di un finanziamento della comunità europea (progetto Equal).
Il provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria dell'Emilia Romagna,
firma un'intesa di partnership con la comunità di Muccioli.
Il 26 agosto, data di scadenza del bando europeo, viene presentato un progetto
che appalta al privato l'esecuzione della pena e nel contempo impedisce il
controllo da parte dell'amministrazione penitenziaria. È chiaro che
con l'intervento dei capitali privati, il giro d'affari crescerà non
solo intorno alle mere strutture (aree di costruzione, edificazione, forniture
di vario genere), ma anche intorno alla gestione stessa dell'esercizio della
penalità: insomma, più gente andrà in carcere, più
ci si potrà guadagnare. Alle società private può essere
data in gestione la sorveglianza interna (o parte della sorveglianza) dei
detenuti o l'esecuzione della pena.
È ormai appurato che un sistema produttivo in fase recessiva abbia
la necessità di "ottimizzare i costi", contraendo il più
possibile gli investimenti improduttivi, ma senza per questo prescindere dal
potenziamento delle strutture repressive e di controllo che, proprio in relazione
alla fase recessiva in atto, tendono ad essere sempre più diffuse ed
affollate.
Di fronte alla necessità inderogabile di ridurre la spesa pubblica
- che ha già portato a drastici tagli alla sanità, alla scuola,
all'assistenza e alle pensioni, e a processi di privatizzazione - anche quella
parte di spesa destinata alle "politiche della sicurezza" e, in
particolare, al mantenimento del sistema penitenziario, deve essere razionalizzata.
L'esperimento di Castelfranco in Emilia si colloca in questo scenario e non
è un caso, infatti, che sulla questione l'ex direttore del Dipartimento
dell'Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, parla di "espropriazione
dei ruoli" e di "violazione delle regole", facendosi interprete
degli interessi corporativi di tutto l'apparato penitenziario. La riduzione
di questa parte della spesa pubblica non potrà che passare per l'esternalizzazione/privatizzazione
di parte delle funzioni di custodia e di reinserimento, quantomeno per quei
detenuti che esprimono un basso grado di "pericolosità sociale".
È chiaro che una simile tendenza entra immediatamente in rotta di collisione
con gli interessi materiali dell'apparato penitenziario che in questo modo
vedrebbe ridimensionato il proprio ruolo sia in termini economici che politici.
Negli ultimi anni l'apparato politico-militare penitenziario ha rafforzato
ulteriormente il proprio potere. Gli svariati benefici ottenuti dalla Polizia
Penitenziaria, per il "difficile compito che svolge", svelano come
dietro al pestaggio nel carcere di San Sebastiano (SS) nell'aprile del 2000,
premessa delle successive manifestazioni sindacali della PP solidali con i
"colleghi" colpiti da ordine di custodia cautelare, vi siano in
realtà forti interessi e tendenze corporative. Il potenziamento e l'autonomia
ottenuti attraverso i provvedimenti legislativi degli ultimi 10 anni, pongono
il corpo di Polizia Penitenziaria come l'unico soggetto a cui delegare la
gestione del carcere e il controllo sui detenuti e le detenute. Rispetto alle
lotte dei detenuti il messaggio è stato chiaro: far temere che la situazione
nelle carceri precipitasse per poi presentarsi come gli unici in grado di
gestire la situazione militarmente.
L'occupazione della comunità psichiatrica 1°Maggio
a Colorno (PR)
Cronologia
1999: con un repentino trasferimento dei pazienti, a
seguito della chiusura dell'ospedale psichiatrico "Monti" di Colorno,
nasce la comunità riabilitativa 1°Maggio; la struttura, situata
all'interno del parco del palazzo Ducale, al centro della città, è
composta da due corpi separati, una residenza e alcuni appartamentini. I pazienti
possono uscire liberamente durante il giorno e raggiungere facilmente il centro
cittadino. Per molti anni la ristrutturazione e la cura dell'edificio viene
abbandonata, non vengono fatti lavori di manutenzione, viene diminuito il
personale.
2002 giugno: data la necessaria ristrutturazione della struttura, il direttore
dell'AUSL di Parma, Marino Pinelli, decide la chiusura della comunità
e il trasferimento "provvisorio" dei pazienti nel Centro anziani
San Mauro Abate di Colorno, situato in prossimità della strada provinciale
Asolana (i cui costi di gestione sono aumentati e l'amministrazione non riesce
ad ammortizzarli). Luogo che, tra l'altro, dato l'elevato traffico, non consentirebbe
il passeggio quotidiano a cui sono abituati i "malati". La direzione
dell'AUSL si avvale della sperimentazione di una delibera, la 713, che si
propone di chiudere tutti i servizi residenziali psichiatrici territoriali,
di trasferire gli "ammalati" in appartamenti gestiti dalle cooperative
sociali e dopo 2 anni di riabilitazione, dichiararne guariti-riabilitati il
70%, mentre il restante 30% viene dichiarato guarito dopo un massimo di altri
2 anni: entro 4 anni il 100% degli ammalati, residente negli appartamenti,
verrà espulso dalla sanità e affidato a quella che la delibera
chiama "welfare municipale" e "welfare familiare", cioè
i malati vengono dichiarati guariti per via meramente burocratica e scaricati
dalla sanità alla assistenza sociale e sulle famiglie. In pratica ciò
costituisce un risparmio nel bilancio dell'AUSL. E visto che come in tutti
i processi di privatizzazione non si tratta che di un freddo calcolo economico,
è chiaro che la "riabilitazione" verrebbe effettuata in appartamenti
con turni soppressi, personale insufficiente e non qualificato dal punto di
vista sanitario, aumento dei ritmi di lavoro e, conseguentemente, l'abbassamento
della qualità del servizio.
6 novembre: i familiari effettuano un picchettaggio ad oltranza per impedire
il trasferimento coatto dei pazienti. L'unica psichiatra presente nella struttura,
contraria al trasferimento, viene trasferita e sostituita pochi giorni dopo.
10 novembre: i familiari occupano il 1°Maggio; sospendono l'occupazione
in attesa di un incontro con il direttore dell'AUSL.
19 novembre: falliti gli incontri con il megadirettore, viene nuovamente occupato
il centro psichiatrico
22 novembre: vengono occupati per due giorni gli uffici della Direzione Generale
dell'AUSL e indetta un'assemblea cittadina; nella notte viene redatto dagli
occupanti un opuscolo di critica alla psichiatria. Continua l'occupazione
al centro 1°Maggio e viene fatto girare un foglio anonimo e intimidatorio
di raccolta firme tra gli operatori contro l'occupazione. Inizia una serie
di incontri tra i familiari e il direttore dell'AUSL, Pinelli, in cui si cerca
di trovare un accordo per modificare l'attuazione della delibera 713.
3 dicembre: rottura delle trattative con la direzione generale dell'AUSL,
che propone l'attuazione di una delibera (la 614) per risolvere la vertenza
ma tale delibera è stata abrogata in passato e dunque inapplicabile;
una presa in giro.
7 dicembre: al risveglio, Pinelli, nota con stupore che proprio sotto casa
sua, in un paesino in culo ai lupi, sono comparsi manifesti recanti la sua
faccia e scritte di solidarietà con l'occupazione del 1° Maggio
a firma del Comitato Spontaneo per la Liberazione del Proletariato dal
Business Psichiatrico (C.S.L.P.B.P.)
10 dicembre: la direzione minaccia di sospendere pasti e servizi alla comunità
1°Maggio, con l'obiettivo di intralciare l'occupazione e di attuare il
trasferimento. Nel pomeriggio, viene contestata una tavola rotonda che si
tiene proprio nel Palazzo Ducale a Colorno (che vede la presenza di Pinelli,
del sindaco di Colorno, il segretario provinciale CGIL, della CISL, l'assessore
alla sanità e servizi sociali amministrazione provinciale di Parma
e dirigenti delle cooperative sociali e del dipartimento salute mentale),
al seguito della quale la direzione farà molti passi indietro, sospendendo
l'attuazione del trasferimento.
21 dicembre: dopo 33 giorni di occupazione, viene pubblicamente sconfessata
la delibera 713, viene concordata coi familiari la ricerca di una sede definitiva
e più idonea per il trasferimento, in cui i pazienti verranno seguiti
dallo stesso personale che li segue da anni, e viene creato un osservatorio
per la valutazione della "qualità" dei servizi sia pubblici
che privati che potrà essere effettuata dai familiari.
***
Un compagno del C.P.O. Gramigna di Padova
Sono un compagno del Centro Popolare Occupato Gramigna di Padova che, da quando
è nato nel 1989, ha sempre fatto i conti con la repressione, fatta
di continui sgomberi, processi, intimidazioni di ogni tipo per chiudere una
realtà politica a Padova scomoda a tutte le giunte di destra o di "sinistra".
In questo percorso di resistenza ci siamo rafforzati e il lavoro contro la
repressione è stato veicolo di aggregazione di nuovi giovani che ora
sono l'anima del centro.
L'estate scorsa, in occasione della GIRP 2002, siamo riusciti a coinvolgere
un buon numero di persone sia nelle iniziative di preparazione che nella trasferta
a Biella per far sentire ai compagni prigionieri il nostro appoggio. Anche
qualche settimana fa, a Padova, durante un presidio in solidarietà
agli arrestati di Cosenza, molti giovani si sono avvicinati e hanno partecipato
alla nostra iniziativa.
Fatti come questi dimostrano che in un momento come questo, in cui la repressione
colpisce non più solo le avanguardie ma anche le persone più
giovani e meno "esperte" politicamente, parlare di repressione,
di carcere, ma soprattutto di solidarietà nei confronti di chi viene
colpito e incarcerato per la sua identità politica, avvicina i giovani
che hanno ideali di libertà e che, in modi diversi, vogliono manifestare
la loro rabbia e opposizione a questa schifosa società.
***
Un compagno promotore
Visto che non ci sono altri interventi vorrei dire qualche cosa che mi sembra
necessaria e mi scuso a priori se non sono percepibile nelle cose che dirò
ma ho una limitazione rispetto alla lingua allora secondo me a questa assemblea
c'erano diversi punti di vista e credo siano presenti compagni dei quali io
non ho sentito la loro posizione perché se noi riteniamo che è
importante avere una lotta di massa nel discorso del carcere che rappresenta
una fonte fondamentale nel nostro malessere bisogna cogliere tutti questi
diversi punti di vista e trasformarli in un comune momento di lotta. Parlo
come un compagno che appartiene ad uno dei gruppi promotori di questa assemblea
ma che parla in questo caso per conto suo senza avere un atteggiamento ostile
ma un atteggiamento critico. Vorrei dire che bisogna rivalutare alcune cose
se vogliamo andare avanti con questo discorso. In questo caso la compagna
che ha parlato all'inizio si è espressa rispetto ad alcune cose, però
io ho individuato una cosa specifica rispetto alla quale non sono d'accordo.
Lei parlando rispetto ai presidi davanti ai carceri ha detto che avevano un'alta
partecipazione e avendo conoscenza del presidio a Biella la scorsa estate
direi che cento persone per me non è un grande numero di partecipazione
quindi individuerei in questo caso un problema di sincerità da discutere
prima di tutto con noi stessi e cercare di trovare modi per risolverlo. Dopo
c'è il fatto che non è uscita una proposta di intervento a livello
pubblico e a livello pubblico intendo intervento a livello di tessuto sociale
cioè oltre ai soliti gruppi e strutture di compagni. Questo è
un problema perché sembra che l'assemblea e le persone che sono presenti
qui delegano a noi e a chiunque altro che si occupi del discorso del carcere
e della repressione i modi in cui lotteremo per il suo abbattimento e comunque
che ne so di cos'altro. Ritengo che sia problematico anche il fatto che nessun
detenuto comune, e comune è generale perché spesso sono di una
certa appartenenza e per appartenenza intendo della classe proletaria, non
è intervenuto raccontando dei suoi momenti di lotta contro il carcere
o di come lui percepisce il carcere e il meccanismo che lo porta al carcere
che io ritengo molto importante. Questo perché se noi pensiamo alla
rivoluzione come una società senza carcere penso che una rivoluzione
deve essere fatta con la presenza dei proletari o anche dei proletari e visto
che i proletari sono un pezzo significativo della popolazione carceraria devono
avere una parola un punto di vista rispetto a questo discorso qui e io oggi
non l'ho visto e non so per quale motivo non è successo. Dopo di che
non ho altre cose da dire o meglio ho altro da dire ma ritengo che non sono
importanti per questo momento perché comunque ritengo che ci saranno
altri momenti nel futuro che potremmo continuare il dibattito. Per finire
penso che sarà molto importante per la prossima volta che ci sarà
una prossima assemblea di pensare ad un altro modo di portare avanti l'assemblea
cioè di intervenire e di esprimere la propria idea perché non
debba esistere e dobbiamo abbattere un meccanismo di delegazione di intervento
e di azione rispetto non solo al carcere ma rispetto al da farsi per il futuro.
***
Un compagno della Nave dei Folli di Rovereto
Con questo mio intervento vorrei sollevare un paio di questioni legate alla
lotta contro il carcere e più in generale contro la repressione. Visto
che si tratta di un concetto che ritorna continuamente, comincio con qualche
considerazione preliminare a proposito della solidarietà. Per comodità
prendo come esempio gli arresti per le giornate contro il G8 a Genova. Senza
enfatizzare troppo, si può dire che quei giorni e il loro seguito hanno
rappresentato e rappresentano un buon laboratorio da entrambi i lati della
barricata sociale. All'esperimento poliziesco di blindatura di un'intera città
per misurare il tasso di sopportazione dei suoi abitanti, alla repressione
di piazza, si aggiunge una grande rappresentazione mediatica. Alla contestazione
negoziata, all'opera costante di mediazione e di controllo, spinta fino alla
delazione, da parte delle forze riformiste, si aggiunge un massiccio investimento
statale sull'ideologia pacifista della collaborazione, sempre più funzionale
alla guerra interna e internazionale contro il "terrorismo". Cosa
significa, in tale contesto, solidarietà? Non basta ricordare la repressione
brutale, i pestaggi, le torture e la loro deliberata pianificazione. Nell'esprimere
solidarietà nei confronti dei compagni arrestati, contro questa ennesima
mossa repressiva, va soprattutto affermato il senso di quei giorni. Quella
che è avvenuta a Genova è stata una frattura fra la protesta
concordata con governo e polizia e l'opposizione reale, fuori da ogni mediazione
istituzionale. Una frattura tra chi chiede sovvenzioni allo Stato, cerca la
rappresentazione mediatica, si allea con partiti e sindacati, e chi invece
fa dell'autorganizzazione il fine e il mezzo del proprio agire.
In troppi hanno cercato di ricucire quella frattura, con le posizioni più
ambigue e l'opportunismo più sfacciato. Ora è quanto mai necessario
essere chiari. Se la repressione va attaccata, indipendentemente dagli individui
o dai gruppi su cui s'abbatte, per farlo fino in fondo bisogna affermare la
propria prospettiva. Al di là delle accuse contro i singoli compagni,
al di là delle loro posizioni, al di là di quello che possono
fare sul piano difensivo, è il senso dell'azione diretta esplosa in
quei giorni che va rivendicato forte e chiaro. L'attacco generalizzato alle
strutture del capitalismo (banche, sedi di multinazionali, concessionarie,
agenzie interinali), lo scontro con gli assassini in divisa, la fine di ogni
contestazione concordata. E soprattutto i rapporti che simili pratiche, sia
pure in modo embrionale, hanno liberato, in un uso diverso dello spazio urbano,
in una festosa sospensione del tempo storico, in una rinata socialità.
Fuori da tutto questo, privata di ogni passione progettuale, la solidarietà
diventa un impotente lamento, oppure la difesa personalizzata del singolo
compagno (con i relativi dolori di pancia quando qualcosa, tra chi è
dentro e chi è fuori, s'incrina). Non bisogna allora confondere la
solidarietà contro la repressione con una solidarietà più
generale nelle lotte, qualcosa che si potrebbe definire complicità.
Diffido degli appelli all'unità delle forze contro la repressione,
che spesso nascondono richieste di cauzione rispetto a determinati progetti
politici. Non si tratta semplicemente di coordinare le forze attuali, quanto
di trasformare qualitativamente i dibattiti e i metodi di lotta, perché
i dispositivi repressivi si rafforzano e si moltiplicano ben al di là
dell'ambito rivoluzionario, colpendo sempre più fasce di sfruttati.
In tal senso, penso che sarebbe un errore porre l'accento esclusivamente sulle
forme speciali di carcerazione, col rischio di trascurare quelle ordinarie,
sempre più esplosive. Trovo pericolosa la mentalità di chi è
alla ricerca dei presunti punti deboli del sistema statale e capitalista (secondo
la logica: dove c'è più repressione, la contraddizione è
più acuta). Mi sembra che ne escano spesso letture semplificatrici
e d'uno strano trionfalismo al contrario (più ci reprimono, più
siamo pericolosi). Bisogna imparare a leggere la repressione, soprattutto
nei suoi legami con la normalizzazione sociale, con la diffusa collaborazione
e con l'isolamento delle pratiche di rivolta. D'altronde, quelle letture sono
il risultato di una visione determinista continuamente smentita. Le situazioni
insurrezionali che si sono prodotte negli ultimi anni a livello internazionale
(dall'Albania all'Argentina, dall'Algeria alla Corea del sud) dovrebbero rendere
più cauti sui nessi causali di necessità fra un certo sviluppo
del capitale e crisi sociale. I rivoluzionari sono non di rado gli ultimi
a rendersi conto che le condizioni sono gonfie di rivolta, salvo poi teorizzare
post festum. E lo stesso ragionamento si può fare per contesti
più piccoli. Che legame c'è, ad esempio, fra un semplice sciopero
del carrello da parte dei detenuti e una situazione di rivolta più
aperta contro il carcere? Molto spesso la banalità delle loro cause
immediate, diceva Marx, è il biglietto da visita delle rivolte nella
storia. Se non si sa seguire, anche criticamente, ma con attenzione, quello
sciopero del carrello - guardando più ai rapporti reali di solidarietà
che al formalismo delle rivendicazioni -, ben difficilmente si riuscirà
a dare il proprio contributo a quella successiva rivolta. I detenuti hanno
un certo fiuto per i ritardatari del recupero politico. Si tratta, ripeto,
di distinguere la solidarietà nella propria prospettiva dallo sposare
acriticamente le cause altrui. Ora, si possono tracciare le proprie prospettive
senza costruirvi - tanto meno con pretese scientifiche - delle certezze su
dove avverrà la crisi, su quale è il punto di tensione massima
delle contraddizioni del capitale, ecc., giacché l'ultima cosa di cui
abbiamo bisogno è alimentare di nuovo le funeste illusioni deterministe.
Sia detto di sfuggita che il concetto stesso di crisi avrebbe bisogno di un
approfondimento perché non va affatto da sé. Ma, lasciando perdere
questi che sono problemi piuttosto ampi, scendiamo nel concreto delle lotte
contro il carcere oggi. Vorrei sottoporre alcuni interrogativi all'attenzione
dei compagni.
Se da una parte è importante e necessario che ci sia un'attività
continuativa sulla questione del carcere, delle lotte dei detenuti in generale,
e nel sostegno dei compagni, dei rivoluzionari prigionieri in particolare,
è altrettanto importante, a mio avviso, comprendere che quello che
conta, soprattutto nei momenti in cui lo scontro non è particolarmente
generalizzato e i rapporti di forza non sono per così dire entusiasmanti,
è soprattutto riuscire a portare il problema del carcere (che è
anche il problema della repressione, che è anche il problema del controllo
sociale, dell'organizzazione capitalistica delle città, dell'urbanistica,
dei ghetti, della sorveglianza, degli sbirri nei quartieri) all'interno delle
lotte in cui noi siamo già direttamente attivi o di cui dovremmo essere
partecipi e promotori in futuro. Spesso, infatti, le iniziative specifiche
contro il carcere - che sono, ripeto, importanti e necessarie - si limitano
(salvo nei periodi di protesta dentro) ad un ambito che a grandi linee potrei
definire militante e che riescono poco a legarsi con le altre lotte in corso.
Faccio un esempio: ho trovato interessante che in un volantino che ho letto
in questi giorni proprio rispetto a questa iniziativa si legasse il 41bis
alle lotte attuali degli operai della Fiat e ad altre forme di autorganizzazione
di classe che stanno maturando. Non si tratta, ben inteso, di limitarsi a
giustapporre problemi e contesti diversi, ma di vedere quali sono i nessi
reali, senza autorappresentazione né retorica. Se è importantissimo
porre il problema del carcere in modo diretto, è altrettanto importante
porlo in modo indiretto, portandolo ovunque è possibile lottare in
modo autonomo, lontano da partiti e sindacati, contro ogni collaborazione
di classe e ogni mediazione con lo Stato. Si tratta di un problema ampio che
ovviamente sto semplificando: tutto questo per dire che molto spesso la nostra
capacità di attaccare la repressione è limitata perché
la repressione non riusciamo a leggerla in tutti i suoi aspetti, che non sono
soltanto quelli più concentrati e visibili - in cui qualcuno immagina
di vedere la massima espressione della crisi della borghesia o che so io -
ma anche quelli più diffusi, penetranti e capillari.
Altra questione che butto sul tappeto: c'è un rapporto sempre più
stretto fra l'attività della magistratura, quale corpo armato dello
Stato insieme a carabinieri, polizia ed esercito, e l'emergenza creata di
volta in volta dai mass-media. Questo rapporto è talmente stretto che
molto spesso determinati provvedimenti di tipo legislativo o anche immediatamente
poliziesco sono realizzati proprio per dover dare risposte ad un'emergenza
mediatica precedentemente e preventivamente costruita. Questo cosa vuol dire?
Vuol dire che, quando si parla di repressione, quando si parla di controllo
sociale e di carcere, se è importante vedere come strutture da attaccare
la polizia, la magistratura, i carabinieri ecc., è altrettanto importante
porre la questione dell'attacco antirepressivo nel senso dell'attacco ai mass-media.
Può sembrare una banalità, ma l'aspetto repressivo e quello
del controllo sociale, anche nella forma della collaborazione di classe, passano
attraverso costruzioni mediatiche non apparentemente repressive, nel senso
che a volte fa più danni, per dirla con una battuta, una trasmissione
come il Grande Fratello (e la realtà di cui è una degna
rappresentazione) che non la polizia nei quartieri. Il vero problema è
vedere in che modo la polizia e il Grande Fratello sono legati. La
questione dei mass-media è fondamentale non solo in una prospettiva
sovversiva generale, ma anche in termini immediatamente pratici. Mantenere
un'aperta ostilità nei confronti dei mass-media, infatti, significa
non farsi parlare dalle parole del nemico, non accettare la rappresentazione
e la spettacolarizzazione che il nemico ci impone, e allo stesso tempo sottrarre
da sotto i piedi il terreno a tutti gli aspiranti dirigenti e a tutti gli
aspiranti collaboratori di Stato. Pensiamo alla situazione italiana, a tutti
i Casarini, gli Agnoletto e gli altri poliziotti sociali più o meno
in tuta bianca: senza i mass-media, che sono in tal senso delle fabbriche
di leader, costoro non sarebbero nessuno. Movimenti di lotta realmente autorganizzati
e orizzontali, lontani dalla merda politica e sindacale, devono rifiutare
in modo metodologico - quindi non occasionale, magari in seguito ad una campagna
mediatica particolarmente infame - la presenza dei mass-media e il dialogo
con i giornalisti. Si tratta di alcune armi per non riprodurre al proprio
interno i rapporti di dominio che si rifiutano. In senso più ambizioso,
si può sottolineare l'importanza dell'attacco a questo aspetto fondamentale
del capitale e dello Stato, in genere trascurato. La nozione di spettacolo
andrebbe intesa anche in senso stretto, non solo in senso generale (cioè
come rapporto sociale mediato dalle immagini). Avevano visto bene quei rivoluzionari
che in epoca non sospetta (fine anni Sessanta, inizio anni Settanta) distruggevano
furgoni e stazioni della televisione come parte integrante della guerra sociale.
Quindi: solidarietà contro la repressione, indipendentemente dai gruppi
o dagli individui su cui questa si abbatte, ma nella chiarezza della propria
prospettiva, al di là di opportunismi e tentativi di ricucire fratture
che sono sia di pratica rivoluzionaria sia sociali e di classe. La complicità
- di idee, di progetti, di metodi - è altra cosa. Essa si crea e si
scopre nelle lotte, nei tentativi, anche parziali, anche contraddittori (perché
la ricetta scientifica non ce l'ha nessuno) per distruggere l'esistente con
tutte le sue carceri.
Distruggere le galere per non costruirne mai più: ecco la prospettiva
da cui emergeranno le complicità. Mi sembra, ad esempio, quanto meno
curioso - ma forse ho capito male - che quando il compagno parlava della situazione
in Israele, fra tutte le carcere nominate non siano state menzionate quelle
di Arafat, dove quotidianamente vengono torturati i ribelli palestinesi.
Per la distruzione di tutte le carceri, quale che sia il loro colore o la
bandiera che vi sventola sopra. Anche nelle lotte più piccole, quello
che facciamo deve essere all'altezza di questa splendida utopia.
***
Lettera inviata ai rivoluzionari prigionieri
L'assemblea tenutasi a Milano
Contro il carcere, il 41bis, contro l'attacco alle lotte sociali
A sostegno dei prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i detenuti
Ha visto una numerosa presenza di compagni e una importante partecipazione
di organismi di lotta contro il carcere e la repressione e di solidarietà
e appoggio ai prigionieri rivoluzionari.
Invia un abbraccio solidale e un sostegno politico ai prigionieri politici
rivoluzionari e a tutti i proletari detenuti in lotta rinchiusi nelle carceri
imperialiste. Rilancia con forza l'appello per la mobilitazione contro il
carcere a partire da quella contro il 41 bis e per l'unità nella lotta
a fianco dei detenuti politici e di tutti i prigionieri. Questa lotta è
parte integrante di quella di tutti coloro che oggi insorgono contro il sistema
di dominio e di sfruttamento della società divisa in classi.
***
Elenco dei carceri con sezione sottoposta
ad art. 41 bis O.P.
Ascoli Piceno Marino del Tronto | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via dei Meli 218 |
63100
|
0736/402141-5 | 0736/403144 cc.asti@giustizia.it |
Belluno | Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione femminile, sezione Alta Sorveglianza | via Baldenich 11 |
32100
|
0437/930800-10-20-30 | 0437/930451-87 cc.belluno@giustizia.it |
Cuneo | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via Roncata 75 |
12100
|
0171/449911 | 0171/449913 cc.cuneo@giustizia.it |
L'Aquila | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P. | via Amiternina 3 località Costarelle di Preturo |
67100
|
0862/452020 | 0862/452030 cc.laquila@giustizia.it |
Napoli Secondigliano | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via Roma verso Scampia 350 |
80144
|
081/7021414 7022410-701 | |
Novara | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione femminile, sezione Alta Sorveglianza | via Sforzesca 49 |
28100
|
0321/402801 407200-1 | 0321/402803 cc.novara@giustizia.it |
Parma | Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via Burla 59 |
43100
|
0521/271106 207285 | 0521/27124 cc.parma@giustizia.it |
Pisa | Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione del Centro diagnostico terapeutico riservata ai detenuti sottoposti ad articolo 41bis O.P., sezione femminile | via Don Bosco 43 |
56127
|
050/574102 | |
Roma Rebibbia | Casa circondariale "Nuovo Complesso", sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via Raffaele Majetti 70 |
00156
|
06/439801 | 06/4073602 cc.rebibbianc.roma@giustizia.it |
Roma Rebibbia | Casa circondariale femminile + Casa di reclusione femminile, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P. | via Bartolo Longo 92 |
00156
|
06/ 41594357-358-205 | 06/4100711 ccf.rebibbia.roma@giustizia.it |
Spoleto (PG) | Casa di reclusione + Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P. | via Maiano 10 |
06049
|
0743/26311 | 0743/263239 cr.spoleto@giustizia.i |
Terni | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via delle Campore 32 |
05100
|
0744/800100-016-219 | 0744/800262 cc.terni@giustizia.it |
Tolmezzo (UD) | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza | via Paluzza 77 |
33028
|
0433/44900-12 | 0433/44910 cc.tolmezzo@giustizia.it |
Viterbo | Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P. | strada SS. Salvatore 14/b |
01100
|
0761/24401 | 0761/353472 cc.viterbo@giustizia.it |
Fonte: pubblicato sul sito http://www.autprol.org