SONO GLI STATI UNITI LA PIU' GRANDE DEMOCRAZIA DEL MONDO?
Il potere ha tutto l'interesse a ridurre l'attività democratica di un paese; quello che forse è meno facilmente digeribile è l'asservimento e la disonestà dell'informazione appiattita e al soldo del poetere. Un'analisi sulla partecipazione al voto dei cittadini americani. Dal n° 2 di "Fuori dal comune" - giornale nel movimento - Cologno Monzese. Aprile 2005


“La democrazia presuppone la partecipazione di tutti gli uomini liberi al governo della città e i cittadini hanno il diritto di voto e di presentare proposte nelle assemblee popolari”. Questa potrebbe essere una definizione alquanto sintetica ma concettualmente corretta di quello che poteva essere il meccanismo decisionale e politico dell’Atene classica. A distanza di 2500 anni, il dibattito su quale sia la migliore forma di governo di una comunità è particolarmente presente e il concetto di democrazia è tutt’ora oggetto di accesa discussione. È opinione diffusa che gli Stati Uniti siano una grande democrazia, forse la più grande, e con grande non si designa certo né una caratteristica geografica, né demografica.
Poiché siamo rimasti molto impressionati dai brogli eclatanti, avvenuti sotto gli occhi del mondo intero, che hanno modificato l’esito delle elezioni del 2000, ci sembra che il dibattito non debba vertere sulla parola “grande”, ma sul fatto che questo sistema corrisponda davvero al concetto di democrazia.
Il primo dato che ci sembra estremamente significativo è che, secondo un sondaggio divulgato durante la lunga notte elettorale del 2004, su 1145 campioni di votanti, l’80% degli elettori repubblicani ha fiducia che i propri voti vengano contati correttamente e solo il 63% dei democratici.
Facendo la media vuol dire che quasi il 30% degli elettori crede che il proprio voto non venga contato. Non è poco, soprattutto se si considera che il sondaggio era condotto su quelli che sono andati a votare ed è molto ragionevole assumere che il numero degli sfiduciati aumenti considerevolmente se aggiungiamo quelli che non hanno votato (circa il 40% in queste elezioni di super affluenza); sembra quindi che almeno una parte degli americani non abbiano la stessa percezione che abbiamo noi della loro democrazia.
Ma allora come stanno realmente le cose?
Per non dare una risposta ideologica o “per partito preso”, abbiamo fatto una ricerca, una sorta di mini-inchiesta sulle elezioni del 2000 e 2004, trovando dati e informazioni particolarmente illuminanti.
Sondaggio a parte, la realtà che emerge dai numerosi dati raccolti è che una quantità non trascurabile di voti non viene contata.
Per suffragare questa affermazione dobbiamo considerare alcuni aspetti tecnici delle elezioni statunitensi come gli spoiled ballots e provisional ballots.
Il primo termine, letteralmente “voti sprecati”, indica i voti che non vengono contati automaticamente dalle macchine e che dovrebbero essere conteggiati manualmente. Ufficialmente questo avviene perché le macchine elettorali, che siano punzonatrici meccaniche, scanner ottici, o touch screen commettono degli errori, come ad esempio, doppie forature (overvotes) o forature mal riuscite (undervotes). Nelle elezioni del 2000 i voti non contati, dovuti a questo tipo di problema, furono almeno l’1,94% dei voti totali, cioè non meno di 1.9 milioni. Si potrebbe pensare a questo punto che essendo gli scrutini in tutti gli Stati informatizzati o meccanizzati, questo fenomeno sia diffuso in maniera uniforme su tutto il territorio, non inficiando in questo modo il risultato finale delle elezioni. In realtà da un’analisi più approfondita delle statistiche, effettuata all’interno del The Civil Rights Project dell’università di Harvard, emerge chiaramente una forte correlazione tra la quantità di voti scartati e la presenza di minoranze etniche nei vari distretti elettorali. Ad esempio, delle prime 100 contee con il più alto numero di voti persi, 67 hanno una popolazione afroamericana superiore al 12% (media nazionale); analogamente, delle 100 contee con il più basso numero di voti persi, solo 10 hanno una popolazione nera rilevante, mentre ben 70 hanno più del 75% di bianchi (media nazionale).
E ancora, secondo un altro studio della House Commettee on Government Reform, la probabilità che il voto per la scelta del presidente venga perso in un distretto caratterizzato da un basso reddito e un’alta presenza di minoranze etniche è 3 volte più probabile che rispetto ad un distretto caratterizzato da benessere economico e bassa percentuale di minoranze; per l’elezione del Congresso la probabilità diventa invece 20 volte superiore. Un esempio per tutti: in Florida, nella contea di Gadsden, con il 58% della popolazione afroamericana nel 2000 ci sono stati il 13% di voti non contati; sempre in Florida, nella contea di Leon, a maggioranza bianca, la percentuale è scesa allo 0,2%. A questo punto si potrebbe pensare che le minoranze siano particolarmente colpite da questo fenomeno, in quanto soggetti sociali mediamente più poveri e con un minor grado di istruzione e quindi più inclini a “sbagliare a votare”. Invece si scopre che il fattore etnico è discriminante in quanto tra contee che presentano pari valori di reddito, istruzione, ecc…, è proprio la maggiore o minore presenza di minoranze a determinare una diversa percentuale di voti persi. Un ulteriore elemento per l’analisi di questi dati è che, come riportato nelle tabelle, il voto delle minoranze è generalmente orientato verso i democratici e, in particolare, il voto dei neri è praticamente un plebiscito.
In sostanza al crescere della popolazione nera in una circoscrizione cresce proporzionalmente il numero di spoiled ballots.
Veniamo ora al problema dei provisional ballots: con questo termine, letteralmente “voti provvisori” si intendono i voti non considerati per motivi amministrativi. Errori nella registrazione nelle liste elettorali, errori nella scelta del seggio fanno parte di questa categoria: ad esempio i mancati aggiornamenti della residenza, dello stato civile ecc… Si calcola che nelle elezioni del 2000 tra i 2 e i 3 milioni di voti non sono stati contati a causa di questi motivi.
La cosa incredibile è che ogni stato ha una sua legge elettorale, con orari, norme e modalità di voto e scrutinio; perfino la possibilità di utilizzare i provisional ballots non esiste in tutti gli stati e, se c’è, viene trattata differentemente. Evidenziamo che gli Stati che non fanno uso di questi voti provvisori non danno neanche la possibilità di votare in caso si presentino i problemi amministrativi sopracitati, mentre quelli che danno questa opportunità si riservano comunque il diritto di decidere se scrutinarli o meno.
Un altro aspetto veramente scandaloso è quello legato al problema della negazione dei diritti civili e politici in relazione allo status giuridico (vero o presunto) delle persone. Infatti ogni Stato applica legislazioni diverse agli ex detenuti, limitandone fortemente le possibilità. Secondo l’ Office of Civil Rights Evaluation - U.S. Commission on Civil Rights aggiornato al luglio 2004, molti Stati non fanno differenza tra reati violenti e reati minori: in questi casi un assassino è equiparato ad un possessore di hashish ed entrambi perdono il diritto di voto. Va osservato che tutti gli Stati (tranne due) non permettono ai detenuti di votare, ventinove impediscono il voto a chi è in libertà vigilata, trentatre a chi ha lo stato di rifugiato, in sette anche chi ha scontato la pena non può votare; in otto per tornare a votare un ex detenuto necessita del perdono del governatore e, addirittura, in Alabama alcuni devono essere sottoposti al prelievo del DNA per poter tornare a godere dei diritti politici.
Ancora una volta, la Commissione Governativa per i Diritti Civili americana fa notare che tutte queste norme vanno in una ben precisa direzione: la popolazione carceraria del 2002 era composta per il 45% da neri, 34% da bianchi e 18% da ispanici; questi dati, in relazione alle diverse etnie all’interno della società americana, indicano che i neri e gli ispanici sono incarcerati con un tasso, rispettivamente, 8 e 3,5 volte superiore a quello dei bianchi. È quindi evidente che tali restrizioni colpiscono fondamentalmente le minoranze etniche.
Un ulteriore aspetto che influisce sull’affluenza e sulla partecipazione al processo elettorale è rappresentato da un sistema di registrazione ed inserimento nelle liste elettorali molto rigido e burocratizzato, in totale antitesi con il sistema socio-lavorativo delle classi medie americane improntato alla massima mobilità e flessibilità. Infatti confrontando le affluenze di voto degli anziani tra i 65 e i 74 anni con quelle dei giovani tra i 18 e 24 anni la percentuale scende dal 72,2 al 36,1: il motivo principale di questa differenza è proprio l’attitudine dei giovani, specialmente se non sposati, a spostarsi frequentemente, avendo poi molte difficoltà per registrarsi. Prova di questa conclusione è che la percentuale di votanti va dal 36.3% di chi è residente da meno di un mese, al 72.4% di chi è residente da più di 5 anni. Inoltre negli Stati dove la registrazione è richiesta il giorno delle elezioni, o non è richiesta affatto, ci sono percentuali di voto significativamente superiori alla media nazionale.
Non possiamo non rilevare poi, che c’è un’evidente proporzionalità fra il livello di istruzione e la fascia di reddito di appartenenza con la probabilità di andare a votare. Si passa così dal 39.3% di votanti fra chi ha un titolo inferiore al 9th grade (livello minimo di istruzione) al 81.9% di votanti con un Advanced Degree (simile al nostro dottorato di ricerca) e dal 34,2% fra chi vive in una famiglia con un reddito inferiore a 5000 $ annui, al 74,9% fra chi vive in una famiglia con un reddito superiore a 75000 $. Inoltre il 61% di chi ha un lavoro vota, mentre solo il 40% dei disoccupati si reca alle urne.
Tutti questi dati testimoniano che c’è una palese contraddizione nell’idea di democrazia e nel concetto di “una persona – un voto”. Infatti, statistiche alla mano, il governo degli Stati Uniti viene eletto da una parte della popolazione americana in cui i bianchi, le persone con un grado di istruzione elevato, gli adulti sopra i 40 anni e le famiglie benestanti hanno un peso notevolmente maggiore della mera composizione sociale.
Ora, andando a indagare le cause di questa bassa affluenza da parte di giovani e ceti disagiati, scopriamo altre cose interessanti che confutano l’idea qualunquista che queste persone sarebbero meno politicizzate delle altre. Infatti, sempre secondo lo US Census Bureau, delle persone che nel 2000 si registrarono ma non votarono (19 milioni), il 20.9% ha dichiarato di aver avuto sovrapposizione di orario col lavoro o con la scuola o in generale di essere stato troppo impegnato; il 12% sentiva che il proprio voto non avrebbe fatto la differenza; il 10% era fuori città; l’8% non apprezzava i candidati o i temi della campagna elettorale; il 7% ha avuto problemi di registrazione. Alla base di queste risposte ci sono due tipi di problemi: il primo è che per votare in America è necessario prendere la macchina, percorrere decine di chilometri, il tutto in un giorno lavorativo e in orario lavorativo. Non occorre essere dei maghi per prevedere che in queste condizioni l’affluenza alle urne sarà bassa e che in generale potrà assentarsi dal lavoro per andare a votare chi ha un impiego dirigenziale, chi ha l’auto e chi non va al lavoro fuori città; certamente ne risulteranno svantaggiati i lavoratori di fascia bassa, che sono i meno istruiti e i meno abbienti e che spesso coincidono con le minoranze etniche, e gli studenti, che spesso non dispongono di un’auto.
Il secondo problema che emerge da queste statistiche è che il bipolarismo con le primarie, assieme ad un sistema maggioritario secco, fanno sì che le esigenze di una parte non trascurabile della società non vengano rappresentate e neanche discusse durante la campagna elettorale. Si mette così in moto un circolo vizioso per cui, essendo in un sistema elettorale che privilegia i bianchi e i ricchi è naturale attendersi che i due candidati rivolgano le proprie attenzioni a questa parte dell’America e che si dimentichino degli altri.
Ora senza spingerci a delineare un sistema elettorale perfetto, notiamo che qui da noi si vota di domenica, si vota nelle scuole elementari, che sono quasi sempre raggiungibili a piedi, e che, sebbene in presenza di bipolarismo, è possibile scegliere fra una buona varietà di partiti. È naturale quindi che la partecipazione al voto sia molto maggiore in Italia che negli Stati Uniti.
Lo scenario fin qui descritto è “a norma di legge”, cioè è perfettamente conforme ai dettami legislativi degli Stati Uniti. A questo, poi, si devono aggiungere i famosi brogli di cui si è tanto sentito parlare, soprattutto in occasione delle elezioni presidenziali del 2000.
Prima del momento elettorale, nella Florida governata da Jeb Bush, fratello dell’allora candidato George, è stato emanato, con la complicità della segretaria di Stato Katherine Harris, l’ordine di cancellazione di oltre 57.000 elettori, ingiustamente ritenuti ex-detenuti; non si può non considerare un aspetto importante della storia il fatto che il 54% di essi erano afroamericani e ispanici.
Nel 2002, vedendo che il metodo ha dato i suoi frutti, il nuovo presidente Bush ha pensato bene di estendere questa pratica a tutti gli stati, con l’HAVA (Help American Vote Act), concedendo la facoltà ai segretari di Stato di “epurare” le liste elettorali a loro discrezione; inoltre, come riportato anche dalle riviste nostrane L’espresso e Panorama, un altro importante atto di questa legge è stato quello di affidare a compagnie private, controllate da personaggi finanziatori della campagna elettorale di Bush, la gestione elettronica dei voti tramite software protetto da brevetto e quindi non facilmente monitorabile. Se a questo si aggiunge il fatto che i sistemi di votazione elettronici non rilasciano alcun tipo di ricevuta, si può ben comprendere come sia facile manipolare le scelte elettorali.
Con l’ultimissima tornata elettorale del 2004 si sono addirittura aggravate e moltiplicate delle situazioni a dir poco ridicole e imbarazzanti per una nazione che tiene ad autodefinirsi democratica: scorrendo le notizie battute durante la lunga notte elettorale su vari quotidiani (Repubblicaonline, NY Times, Cnn) si scoprono delle cose letteralmente da “repubblica delle banane”.
Anzitutto, la scoperta avvenuta qualche settimana prima che sia repubblicani che democratici avevano pagato affinché la gente si iscrivesse alle liste elettorali, con il risultato che in alcuni Stati c’erano più iscritti che cittadini;
in Indiana 3000 elettori non hanno potuto votare perché ritenuti morti e quindi non erano iscritti alle liste elettorali;
Kerry passava di porta in porta in Wisconsin per reclutare all’ultimo momento potenziali elettori!
Philadelphia, Pennsylvania: sono state trovate, all’apertura dei seggi, delle macchine elettorali con già dentro 2000 voti, per Bush!
Nella sola Florida, riferisce il Wall Street Journal, ben 17 mila repubblicani si sono presentati a 800 mila porte, mentre i computer facevano 1 milione e 200 mila telefonate per ingannare gli elettori democratici e indirizzarli su seggi sbagliati.
In Ohio inoltre, il vincitore è stato proclamato quando ancora mancavano da scrutinare i provisional ballots e gli spoiled ballots, che costituivano un numero di voti circa doppio della differenza con la quale ha vinto Bush.
Durante tutta la notte le agenzie continuavano a battere segnalazioni di irregolarità e il sito della MsNbc addirittura riportava, parallelamente alla ben nota cartina colorata in base alle proiezioni, anche una cartina su cui riportava i casi più gravi di brogli. Gli Stati con il maggior numero di falsificazioni segnalate sono stati la Florida, la Pennsylvania e la Carolina. In Florida arrivavano parecchie denuncie di elettori afroamericani indirizzati in seggi elettorali sbagliati: questi sono voti che figureranno come provisional ballots ed saranno esclusi dal conteggio.
Queste sono solo alcune delle notizie più significative che sono arrivate al 2 novembre. A tal proposito, persino un ex presidente quale Jimmy Carter, fondatore del Carter Center di Atlanta che ha monitorato più di 50 elezioni in tutto il mondo, arriva a dire: “Perpetuare pratiche fraudolente o basate sul preconcetto è irragionevole in qualsiasi nazione. Ed è specialmente disdicevole per noi americani, che andiamo orgogliosi di apparire campioni di democrazia in tutto il mondo”.
Da ultimo, non possiamo non considerare il peso spropositato che il denaro assume nelle elezioni americane: nel 2004 si è polverizzato (ancora una volta) il record precedente arrivando ad una spesa di oltre 4 miliardi di dollari per entrambi i candidati. Circa la metà sono stati spesi in spot pubblicitari e organizzazione di convention e primarie: la maggior quantità di battage pubblicitario si raggiunge in Stati in cui il voto è a rischio. Secondo un’indagine congiunta dell’università del Winsconsin e della Nielsen nelle città più importanti dell’Ohio e della Florida sono stati trasmessi una media di 300 messaggi propagandistici al giorno, caratterizzati da un tono polemico sempre più acceso: il tenore di tali spot era del tipo “immagini di cittadini americani che vengono rapiti da terroristi e voce fuori campo che domanda: ‘Vorreste che fosse Kerry a difendervi da questa gente?’”. Gran parte della campagna elettorale viene quindi spesa non in dibattito e discussione, ma nell’invasivo bombardamento pubblicitario che inculca acriticamente messaggi (anche subliminali?). Come se non bastasse non si garantisce neanche il silenzio elettorale nel giorno delle elezioni, quando anzi gli spot si intensificano e vengono comunicati da ogni parte risultati di sondaggi (che spesso vengono fatti apposta per influenzare gli elettori che si accingono a votare), exit poll e proiezioni a urne ancora aperte. Inoltre non esiste nessuna regolamentazione seria riguardo la gestione degli spazi pubblicitari.
Sempre a proposito di soldi, è indicativo del tipo di democrazia il fatto che il riconteggio dei voti deve essere pagato da chi lo richiede e non è a carico dello Stato: in queste elezioni ad esempio, solo il riconteggio nell’Ohio sarebbe costato 150000 $.
Per meglio analizzare il quadro qui riprodotto è opportuno tenere presente una classificazione abbastanza grossolana ma indicativa che individua sostanzialmente tre livelli di democrazia: elettorale, liberale e partecipativa.
La prima ha come requisito la semplice possibilità di eleggere senza brogli e con regole chiare i rappresentanti per il governo del paese; la seconda richiede in più la salvaguardia delle libertà civili, la separazione dei poteri e un insieme di norme genuinamente democratiche che favoriscano l’accesso da parte di tutti al processo democratico, che limitino il potere delle lobby e la concentrazione dei media; nella terza si realizza un grado di partecipazione alla vita politica e sociale della comunità molto maggiore e il meccanismo della delega si riduce fortemente a favore dell’intervento diretto e sentito.
Ma allora gli Stati Uniti sono veramente una grande democrazia?
Sappiamo che la partecipazione al processo democratico non è per nulla favorita dallo Stato, che le minoranze etniche e le fasce più povere della popolazione non si sentono rappresentate, che la campagna elettorale è finanziata e controllata da grandi gruppi economici: non ci pare proprio il caso di parlare di grande democrazia. Visti poi i brogli, le leggi come il Patrioct Act e l’Hava che limitano le libertà personali e politiche delle persone, non possiamo non domandarci se anche la mera definizione di democrazia elettorale possa essere adatta a questo sistema.
Inoltre ci getta in grande apprensione non solo il fatto che blasonati giornalisti e politici nostrani decantino le lodi di questo sistema di governo, ma anche il fatto che in Italia come nel resto d’Europa (in misura che varia da Stato a Stato), la tendenza è quella di importare i costumi e i meccanismi politici degli Stati Uniti. Questa tendenza è facilmente comprensibile in quanto il potere ha tutto l’interesse a ridurre l’attività democratica di un paese; quello che forse è meno facilmente digeribile è l’asservimento e la disonestà dell’informazione, appiattita e al soldo del potere_