Dopo il congresso.
Il VI congresso del PRC termina in modo drammatico. Il partito riduce le già scarse possibilità di intercettare la nuova militanza cresciuta con i movimenti. Marzo 2005. REDS.


Il VI congresso del PRC si è concluso in maniera piuttosto drammatica. Ha provocato "morti e feriti" tra gli attivisti, lascia piuttosto perplessa la vasta platea dei possibili elettori (che non hanno capito quasi nulla di quel che accadeva a Venezia), conferma coloro che sono alla ricerca di un qualche ambito politico che dal PRC, almeno per ora, è meglio star fuori.

Il congresso si è svolto per "mozioni". Sui temi più importanti dell'attualità, dunque, gli organismi dirigenti del partito si sono divisi nelle valutazioni e nelle proposte formulando diversi documenti che hanno sottoposto al voto degli iscritti, perché costoro scegliessero la linea vincente. Tutti i congressi di circolo si sono dovuti esprimere al riguardo, ed ogni iscritto che ha partecipato al congresso ha votato per una mozione o per un'altra, eleggendo contemporaneamente dei delegati vincolati a sostenere nei congressi provinciali e poi in quello nazionale il documento scelto.

I risultati delle diverse mozioni sono stati:

 
voti
%

mozione 1 (primo firmatario Bertinotti)
L'alternativa di società

25.402
60,09

mozione 2 (primo firmatario Grassi)
Essere comunisti

10.467
24,76
mozione 3 (primo firmatario Ferrando)
Per un progetto comunista
2.710
6,41
mozione 4 (primo firmatario Malabarba)
Un'altra rifondazione è possibile
2.995
7,08
mozione 5 (primo firmatario Bellotti)
Rompere con Prodi, preparare l'alternativa operaia
719
1,70

Ognuna di queste mozioni rappresenta una corrente, o un insieme di correnti, all'interno del partito. Molto spesso il senso di appartenenza alla corrente, nel PRC, è molto più forte di quello di appartenenza al partito. Per questo, non di rado, parlando con un attivista del PRC, in maniera molto spontanea, questi potrà dirvi molto male del proprio segretario o delle altre correnti "concorrenti", anche se non siete iscritti. La lotta tra correnti nel PRC è sempre stata piuttosto pronunciata, e la breve storia del partito è costellata da scissioni. Per comprendere bene le ragioni profonde di questa dinamica rimandiamo al nostro articolo Il dissenso nel PRC, scritto quattro anni fa.
Una panoramica delle correnti attuali, con rimandi a materiali della rivista che hanno affrontato l'argomento, aiuterà a comprendere la questione.

La corrente bertinottiana (mozione 1)

Si tratta della corrente che ha sempre esercitato il "comando" nel partito dal 1998, quando ci fu la scissione con i cossuttiani che andarono a formare il PdCI. La rottura avvenne perché Bertinotti volle uscire dalla maggioranza che sosteneva l'allora governo di centrosinistra di cui era primo ministro Prodi. Cossutta, invece, scelse di continuare a sostenere la maggioranza, e continuò a farlo anche quando l'Italia entrò in guerra al fianco della NATO contro la Serbia. Sino ad allora non vi era una vera e propria corrente bertinottiana organizzata. Al momento della scissione Bertinotti era stato sostenuto da una parte di ex cossuttiani (i cossuttiani sino ad allora avevano dominato il partito dalla sua fondazione in avanti), dagli ex appartenenti a Democrazia Proletaria, ed altri. Tuttora quando parliamo di corrente bertinottiana, compiano una forzatura, perché anche oggi essa comprende componenti politiche abbastanza eterogenee, anche se questo congresso ha portato ad una certa chiarificazione. Il personaggio, però, è sempre stato portatore di una coerente visione ideologica e il suo agire si rifà a una precisa tradizione politica italiana. Dell'impostazione teorica e dello stile di azione del bertinottismo abbiamo parlato già alcuni anni fa (vedi l'articolo Essenze, dell'ottobre 1998, al paragrafo sul bertinottismo), e rispetto a quell'analisi vi è ben poco da aggiungere. Dal punto di vista teorico questa corrente conduce una dura critica del capitalismo, ma senza trarne conseguenze radicali sul piano operativo; è aperta ai cambiamenti della società, alle nuove soggettività e ai movimenti, ma senza essere in grado di costruire i movimenti quando questi non ci sono (vedi Comunisti e movimento); è insofferente delle modalità organizzative burocratiche, ma senza saper proporre alternative che non conducano al leaderismo.
Dopo la rottura col governo Prodi, la maggioranza bertinottiana ha diretto il partito con un atteggiamento fortemente critico verso il centrosinistra, intrecciando i suoi destini con quelli dei movimenti. Ma questa relazione è avvenuta molto più a livello di discorso che di pratica quotidiana (vedi Il PRC e il movimento noglobal). L'impostazione politica globalmente radicale, comunque, ha fatto sì che da allora, nei fatti, il partito fosse governato da una alleanza tra i bertinottiani (l'attuale mozione 1), la corrente dell'Ernesto (l'attuale mozione 2, che però criticava da destra la politica di apertura ai movimenti e di "chiusura" verso il centrosinistra), e la corrente di Bandiera Rossa (oggi Erre, attuale mozione 4, che intepretava "da sinistra" il corso del partito).
Tale linea è rimasta più o meno immutata sino alla metà del 2003, quando Bertinotti, all'indomani del tramonto di Cofferati (per percorrere l'intero percorso del personaggio si vedano gli articoli L'ombra del cinese e Ascesa e caduta di Sergio Cofferati, impiegato Pirelli) e all'inizio del riflusso del movimento contro la guerra, ha "svoltato a destra" riavvicinandosi al centrosinistra e infilando una dietro l'altra una serie di "strappi" sul piano teorico (distanziandosi dalla rivoluzione d'Ottobre, facendo da sponda al revisionismo riguardante le foibe, assumendo la non violenza come elemento costitutivo del partito, ecc.) che hanno disorientato non poco la militanza. L'avvicinamento al centrosinistra gli ha alienato le simpatie di Erre (oggi mozione 4) e gli strappi teorici quelle de L'Ernesto (oggi mozione 2).
In prossimità del congresso Bertinotti ha reso chiaro il suo disegno: governare da solo il partito, senza dipendere dall'appoggio di correnti che marciano con altre logiche. Per cui, nonostante vi fossero ampi spazi per accordi comuni, Bertinotti ha preferito andare ad un congresso "di conta", dove cioè si misurassero le forze, e facendo a meno dei suoi antichi alleati di corrente (L'Ernesto ed Erre). In ogni caso nella attuale maggioranza vi sono settori che non possono certo definirsi "bertinottiani": ad esempio il settore legato a Crippa, è assai vicino sul piano culturale alla mozione 2 (vedi il loro sito, e l'intervista a Crippa), il settore legato a Barzaghi rimane più legato alla vecchia linea abbandonata da Bertinotti, mentre altri settori (come quello vicino a Punto Rosso) si collocano su un terreno ancora più ardito di quello di Bertinotti sul piano del rifiuto del leninismo e del distacco dall'eredità novecentesca.

La corrente de L'Ernesto (mozione 2)

La corrente dell'Ernesto (vedi il loro sito) deriva la sua cultura politica da quella del cossuttismo (vedi il paragrafo ad essa dedicata nell'articolo Essenze, del '98). Nel '98 la scissione seguita all'uscita del PRC dalla maggioranza di governo, non si portò via dal partito tutti i cossuttiani. Una buona fetta rimase dentro, mantenendo invariata, però, la propria cultura politica di riferimento. Costoro, visti sempre con molto sospetto dai bertinottiani, hanno reso sempre più pubblico il loro carattere di corrente, sino a divenire una vera e propria frazione pubblica: oggi abbiamo anche feste de L'Ernesto, ecc. Si tratta di compagni che, sul piano delle questioni internazionali, difendono costantemente i socialismi realmente esistenti (Cuba, Cina, Corea del Nord, ecc.) ed anche stati che socialisti non lo sono affatto, ma che sembrano opporsi agli USA. Questo genere di "allineamento" deriva dalle loro origini di opposizione filosovietica interna al PCI. Se ci fosse una rivolta operaia in Cina o a Cuba la posizione filoregime che assumerebbero li farebbe apparire "a destra" di Bertinotti, ma dato che la situazione internazionale è caratterizzata dall'aggressività USA, il loro antiamericanismo, combinato con il riposizionamento moderato del PRC sulla guerra in Iraq, li ha collocati, su questo terreno, alla sinistra della corrente bertinottiana. Essi difendono, ad esempio, il diritto alla resistenza armata degli iracheni contro l'occupazione USA. La loro cultura è fortemente identitaria: per loro "essere comunisti" ha un senso molto forte e allo stesso tempo molto formale. Significa l'attaccamento alla simbologia comunista, alla bandiera, al colore rosso, alle tradizioni, ecc. Ma questa strumentazione simbolica ha ben poco a che fare con la loro attuazione concreta, moderatissima, come è nella tradizione del "comunismo" italiano di matrice togliattiana. Era cioé nella tradizione del PCI promuovere una azione quotidiana nei fatti socialdemocratica, mantenendo nel contempo un ideario radicale, collocato sul terreno internazionale (l'URSS, come patria del socialismo, ecc.). Sulle questioni nazionali sono sempre stati più moderati, infatti, dei bertinottiani. Per tutto il periodo di "svolta a sinistra" del PRC hanno premuto perché si tornasse ad un quadro di accordo con il centrosinistra. In uno dei loro bastioni, l'Emilia Romagna, dove sono al governo sia della Regione che del partito, portano avanti una politica di totale appiattimento sui DS. Ricordiamo tra l'altro che hanno contribuito (nonostante l'opposizione dei bertinottiani a livello nazionale) ad approvare la legge Bastico, che anticipa in regione la riforma Moratti. Il loro essere comunisti in realtà, nella pratica, significa una grossa presenza di partito all'interno delle istituzioni, e, quando possibile, nella CGIL e nelle cooperative (luoghi però dove questa corrente non ha radicamento sostanziale), nell'imitazione di quello che era il radicamento del vecchio PCI. Come il vecchio PCI questa corrente è diffidente verso tutto ciò che è movimento, ha sempre mal sopportato la passata svolta movimentista del partito, e non ha avuto alcun tipo di ruolo nei movimenti che si sono sviluppati in questi anni. Durante il V congresso questa corrente aveva strumentalmente appoggiato la mozione di Bertinotti, ma proponendo alle sue tesi una serie di emendamenti, e sulla base di questi determinando anche i propri delegati ai congressi. Non dovendosi differenziare fortemente dal segretario si era così potuta avvantaggiare anche di una serie di voti di bertinottiani critici. In questo congresso invece Bertinotti non ha permesso loro questo giochino, ed ha costruito una mozione tesa ad escluderli e a costringerli a presentarne una propria. Per questo nei loro interventi si sono lamentati spesso di un congresso che non puntava a fare "sintesi". Questa parola, nel linguaggio della sinistra di origine PCI, significa essenzialmente cercare un compromesso verbale e vuoto tra due posizioni distinte ma che implichi un accordo pratico di spartizione dei posti di direzione. Essendo costretti ad una propria mozione, per guadagnare più voti, questa corrente è stata spinta a collocarsi, anche sul terreno nazionale, alla sinistra di Bertinotti, nella speranza di intercettare parte dello scontento provocato dalla svolta. Così ha portato avanti sul terreno delle alleanze la seguente posizione: bene l'avvicinamento al centrosinistra (anche se avrebbe voluto concordarlo con il PdCI di Cossutta, al quale si sente molto vicino), ma l'accordo doveva essere preceduto da una discussione che ponesse delle "condizioni". Nella pratica concreta della mozione 2, nelle regioni e nelle federazioni in cui essa ha la maggioranza, "porre le condizioni" ha sempre significato, in occasione di elezioni locali, la stesura di una serie di punti assolutamente vaghi che in nessun modo condizionavano l'alleanza elettorale. Ma questa posizione, nel dibattito congressuale, ha permesso loro di presentarsi come critici da sinistra di Bertinotti, anche sul piano della politica italiana. Questa dislocazione radicale, per una corrente che per natura e gruppi dirigenti è invece di profilo nettamente moderato, non sarà privo di conseguenze per il suo futuro: molti iscritti hanno votato la mozione 2 credendo sul serio di votare qualcosa di più a sinistra di Bertinotti, e ciò, unito alla esclusione della 2 dagli organismi dirigenti (che accentuerà il suo carattere di frazione pubblica, vedi Intervista di Dilloadalice a Claudio Grassi), creerà dinamiche difficilmente gestibili da questa componente.

La corrente di Progetto Comunista (mozione 3)

Questa corrente (vedi il loro sito Progetto Comunista) è sempre stata all'opposizione all'interno del partito. Essa viene da un piccolo gruppo che, più di venti anni fa, era entrato nella sezione italiana della Quarta Internazionale (oggi Bandiera Rossa), all'interno della quale aveva dato vita ad una frazione minoritaria. Nella Qurta era restato anche quando questa aveva deciso di entrare in Democrazia Proletaria e ne era uscito alla vigilia della confluenza di tutti nel PRC. Sino a un paio di anni fa questo gruppo si autodenominava "Proposta", dal nome della rivista, poi decise di "annettersi" il nome della mozione con cui si era presentata, insieme ad altri, al dibattito del IV congresso: Progetto Comunista. Si dichiarano trotskisti e fanno riferimento ad un piccolo raggruppamento internazionale dal nome Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale in cui l'unica organizzazione di spicco è il Partido Obrero argentino.
Si tratta di una corrente la cui attività militante è tutta interna al PRC. Non ha cioé una presenza di un qualche tipo nei movimenti e mantiene un piccolo presidio solo in CGIL. Contrariamente a Falce e Martello, non si dedica, fuori dal PRC, ad alcuna attività di tipo propagandistico, per cui, i non iscritti al PRC, hanno scarse possibilità di conoscerli. La sua presenza nel partito è però costante e consiste essenzialmente in una incessante attività di opposizione formale alle scelte della maggioranza. La tipica attività di questi militanti è la presentazione di mozioni contrarie a quelle di maggioranza, regolarmente bocciate, la raccolta di firme interne al partito contro una qualche misura della maggioranza, di interventi "contro" la maggioranza. Anche la prospettiva che questa corrente vede dopo il VI congresso, è tutta interna al partito (vedi Il bilancio del VI congresso del Prc di Marco Ferrando). Tra le mozioni presentate la 3 è quella che ha portato avanti la posizione più "a sinistra" sul terreno elettorale: come sempre propone, nei fatti, la presentazione in solitaria del PRC. Nei confronti dei movimenti nutre una totale diffidenza, non tanto per ragioni teoriche, quanto per la concreta collocazione dei propri attivisti, per l'appunto fuori da quelle dinamiche e da quelle esperienze.
Il termine "Progetto Comunista" raggruppava anche altri settori un po' piu' compositi (globalmente conosciuti come "ex mozione 2"). Ma, data l'ansia di controllo del gruppo dirigente di Proposta, questi pezzi si sono via via persi per strada. Nel 2001 si è consumata la semiespulsione di Falce e Martello (vedi Le ragioni della crisi di Progetto Comunista ) e nel 2002 l'allontanamento del settore non trotskista ortodosso (vedi l'articolo La crisi di Progetto Comunista, dove si riassumono anche le caratteristiche principali della cultura politica di questa corrente). Mentre Falce e Martello ha dato poi vita ad una sua autonoma mozione (la 5), gli altri si sono a loro volta dispersi in più frammenti. L'area napoletana legata a Luigi Izzo, e che ha mantenuto la dizione "Progetto Comunista" (vedi il loro sito), ha un profilo "alla sinistra" di Ferrando, molto più diffidente di lui verso i movimenti. Ha cercato di presentare una sesta mozione che però la Commissione Nazionale di Garanzia ha respinto perché troppe firme erano state raccolte in una sola regione. Ha dunque optato per un "appoggio tecnico" alla mozione 4. Questa però non ha accettato che il loro delegato al congresso nazionale fosse poi eletto al Comitato Politico Nazionale (i documenti essenziali in materiali dell'area di Progetto Comunista).
Un'altra area uscita dalla diaspora della ex mozione 2 è l'area di "Ottobre". Anch'essa ha provato a presentare una mozione propria, non ce l'ha fatta ed ha optato per un appoggio tecnico alla mozione 2 (vedi materiali dell'area Ottobre). Altri ancora provenienti dalla breve esperienza della rivista Onda Rossa (tra Genova e Milano) sono confluiti nella mozione 4.
Date queste vicende il consenso a quella che era la mozione 2, ora 3, è più che dimezzata. Del resto alla vigilia del congresso dei 5 membri in Direzione Nazionale che facevano riferimento a questa mozione, ne sono rimasti "fedeli alla linea" soltanto 2. Nonostante la totale distanza che li separa da Bertinotti, è però ben difficile che questi compagni escano dal partito: come è pure il caso delle altre mozioni minoritarie, la loro forza non è assolutamente proporzionale a quella di cui godrebbero a livello elettorale. Non avendo altro radicamento se non il PRC, a sua volta assai sradicato dalla società, fuori dal PRC non vi sarebbe per Progetto Comunista nessuna possibilità di sopravvivenza.

La corrente di Erre/Sinistra Critica (mozione 4)

Il nucleo della mozione 4 è costituita dai compagni della sezione italiana della Quarta Internazionale (vedi il sito Bandiera Rossa), il più consistente dei raggruppamenti internazionali che si definiscono trotskisti (la sezione più consistente è quella francese della Ligue Communiste Révolutionnaire). Costoro hanno dato vita all'interno del PRC ad un'area programmatica un po' più larga, che si chiama Erre (vedi il loro sito). In occasione del congresso hanno cercato di costruire la mozione in maniera aperta, coinvolgendo anche altri piccoli settori provenienti dalla ex mozione 1 e dalla ex mozione 2. Questa ulteriore area "larga" si chiama Sinistra Critica (vedi il loro sito). Si tratta della mozione più "movimentista". Nel V congresso i compagni di Erre avevano appoggiato la mozione di Bertinotti cercando di sorvolare sugli aspetti critici e sottolineando invece i passaggi di adesione e partecipazione ai movimenti. Il militante medio della mozione 4, contrariamente a quelli della 2, 3 e 5, è dentro i movimenti. Quindi, quando ne parla, sa di cosa parla. I compagni di questa mozione sono stati in prima fila, ai massimi livelli, durante tutte le iniziative del movimento altermondialista, come si autodefinisce ora, e di quello contro la guerra. Dirigono anche piccole strutture fuori dal PRC, come il SinCobas, e attivisti aderenti ai Cobas e alla CUB hanno aderito a Sinistra Critica. Il loro orientamento elettorale però si scontra con quello di Bertinotti, dato che sono favorevoli ad una sorta di desistenza, senza compromettersi con il futuro governo. Contestano anche gli strappi teorici, non per nostalgia verso lo stalinismo come è il caso della 2, ma, all'opposto, perché nel suo furore antinovecentesco Bertinotti fa fuori anche le importanti esperienze di antistalinismo che nel Novecento si sono sviluppate.
Il problema di questi compagni è che il tipo di presenza che intendono portare avanti nei movimenti, e in qualsiasi altro ambito, è sempre quello "a partire dalla testa". Non è nelle loro corde costruire un movimento a partire dalla base. Vivono nella convinzione di essere sufficientemente preparati da poter influire direttamente sui gruppi dirigenti che già esistono o che si formano. In questo modo soffrono della perenne mancanza di truppe. Sono generali (ottimi generali), senza eserciti. Il movimento noglobal poteva essere l'esercito vagheggiato. Il problema è che non c'è più. Di questo trauma non si sono ancora ripresi. Le loro tesi parlano ininterrottamente dei movimenti di questi anni come se ci fossero ancora, quando, è sotto gli occhi di tutti, essi non esistono più. Non solo non esistono più, ma non hanno lasciato in piedi nemmeno quei residui organizzativi (ad esempio in Inghilterra la Stop the war coalition o in Francia Attac) che solitamente rimangono dopo la fine dei movimenti di massa, e che servono poi per cominciare nuovi cicli. Al contrario non vi è più traccia di nessuna struttura nata negli ultimi anni: Attac Italia, Lilliput, Social Forum... Evaporati come neve al sole. Gli attivisti che si sono formati, in realtà, sono ancora disponibili, ma occorrerebbe cominciare un lavoro alla base, di collegamento dal basso, poco visibile, lavoro che la vecchia generazione che ha diretto i movimenti non è in grado o non ha voglia di fare. Data questa loro caratteristica, questi compagni non riescono nemmeno a rendersi conto del perché i movimenti sono finiti in così malo modo. E come abbiamo già scritto, il perché risiede innanzitutto nel fatto che una nuova generazione totalmente "vergine" si è trovata diretta dalla vecchia generazione degli anni settanta (o da gente che era stata a scuola da questa) con tutte le sue frustrazioni, conti in sospeso, difetti che non avevano nulla a che vedere con le esigenze della massa che scendeva in piazza e che aveva un disperato bisogno di un altro modo di far politica.
I compagni della 4 sono troppo interni al partito (ricoprono ruoli dirigenti, ecc.) e troppo lontani dall'epoca in cui erano una piccola organizzazione che non contava nulla, per allontanarsi dal partito, per quanto profonde possano essere le divergenze
. La loro battaglia si concentrerà nell'essere riammessi, pur nella permanenza delle divergenze, nella stanza di comando del partito (vedi Le regole di convivenza dentro Rifondazione di Salvatore Cannavò).

La corrente di Falce e Martello (mozione 5)

La mozione 5 è costituita dai compagni della corrente Falce e Martello (vedi il loro sito). Si tratta di una piccola organizzazione che si definisce trotskista e che fa riferimento ad un ulteriore raggruppamento internazionale (vedi il loro sito internazionale). La loro modalità di far politica è tipicamente propagandista, fortemente identitaria, con una attività militante concentrata ossessivamente sulla vendita della rivista. Come tutte le organizzazioni di questo tipo attrae molti giovani, e ne perde altrettanti. La sua presenza all'interno del PRC è sostanzialmente concentrata negli organismi dirigenti, mentre invece è è scarsissima nei circoli. I suoi attivisti sono esterni a qualsiasi movimento. Il massimo della loro presenza è l'allestimento dei banchetti con materiali di propaganda ai meeting di movimento. Gli unici movimenti ai quali partecipano sono quelli da loro stessi costruiti e sotto stretto controllo. Un tempo, ad esempio, il sindacato degli studenti, oggi quasi nulla. Mantengono una presenza in CGIL, che però non riesce a crescere e a diallettizzarsi con altri, data l'estrema chiusura su se stessi. Sono gli unici che, anche se uscissero dal partito, per loro non cambierebbe nulla. Ma non accadrà. Essi ritengono che il luogo dei trotskisti sia sempre dentro un partito di massa "riformista" e sono contrari alla costituzione di organizzazioni piccole e indipendenti. Il loro bilancio del congresso lo si può leggere in La quinta mozione al congresso nazionale di Venezia.

Il congresso

Al momento del congresso nazionale i rapporti di forza tra le diverse mozioni era già definito (scarica qui i dati del congresso). Ed era chiaro che Bertinotti aveva ricevuto un largo mandato, non del tutto scontato. Nella realtà, in un partito come il PRC dove hanno molto peso coloro che sono o aspirano a posti dirigenti o istituzionali (vedi il nostro articolo Destini del PRC), la svolta di Bertinotti è stata digerita a forza anche da parecchia gente che non ne è affatto convinta. Ma i dati sono quelli, e probabilmente sono superiori alle aspettative di Bertinotti. A quel punto il segretario ha giocato il congresso in modo da costruirsi un partito che esegua le direttive centrali senza tante discussioni. Il momento centrale di questa operazione è stato quello in cui si è discusso delle variazioni allo statuto. In pratica la maggioranza bertinottiana ha creato un organismo intermedio tra il Comitato Politico Nazionale (larghissimo) e la Segreteria Nazionale, che è stato definito "Esecutivo". L'organismo intermedio che prima funzionava (la Direzione Nazionale) continua ad esistere, ma, nei fatti, è privata di ogni potere. Mentre la composizione della Direzione Nazionale è proporzionale ai voti presi da ogni mozione, quella dell'Esecutivo no. L'Esecutivo è composto dai responsabili di dipartimento, dai segretari regionali, ecc. dunque da personale che, si suppone, in larga parte sarà determinato dalla maggioranza. Le minoranze si sono sentite escluse dal "governo" del partito e dunque hanno dato una durissima battaglia (vedi la Dichiarazione congiunta delle minoranze del partito del 5 marzo), che hanno perso. La motivazione data (vedi Un congresso utile di Paolo Ferrero) dalla maggioranza è che serviva un organismo che "mettesse in pratica" quel che il partito decideva. La durezza dello scontro ha destato impressioni poco benevole ad occhi esterni (vedi Un brutto congresso di Rossana Rossanda) e alla fine le mozioni di minoranza hanno votato contro il dispositivo finale (vedi le Mozioni finali).

Dal punto di vista formale non vi è dubbio che l'operazione è stata fatta per escludere le minoranze dal governo concreto del partito. E si tratta di una operazione indifendibile sul piano della democrazia: le modifiche allo statuto devono essere soggette alla discussione a partire dal basso, cioé dai congressi di circolo. E' solo perché la direzione bertinottiana temeva la sua stessa base che ha preferito tirar fuori dal cappello la questione in congresso nazionale, senza farla discutere agli iscritti. Proprio i bertinottiani che si lagnano dell'eccesso di correntismo, hanno creato una situazione in cui questa caratteristica del partito si accentuerà: l'esclusione dalla gestione quotidiana del partito deresponsabilizzerà le correnti, rafforzandone l'identità. L'argomento che un partito non può essere congelato da una discussione permanente (vedi Cara Rossana, esiste anche il diritto a fare politica di Rina Gagliardi) usato dai bertinottiani suona inquietante sulla bocca di chi proclama il proprio antistalinismo: lo stesso Stalin usava identici argomenti contro le minoranze del partito, accusate di "chiacchierare", mentre gli altri "facevano".

Vediamo le cose però un po' più da vicino. Siamo di fronte alla lotta tra gli antidemocratici bertinottiani e i democratici delle altre correnti? Non scherziamo. La principale componente interna, la mozione 2, era saldamente al governo del partito quando Cossutta, ancora presidente, imponeva il divieto stesso di esistenza delle correnti a tutto il PRC. Dove a livello locale la mozione 2 ha vinto, non si preoccupa minimanente di salvaguardare le correnti minoritarie. La mozione 3 ha cacciato fuori da Progetto Comunista (utilizzando il solito argomento che non si può sempre stare a discutere) Falce e Martello (attuale mozione 5). Erre ha tradizioni interne di maggiore democrazia, sebbene l'attuale Progetto Comunista a suo tempo avesse protestato per essere stata espulso. Di Falce e Martello non sappiamo che dire se non che non si è mai sentito parlare né di un suo congresso nè tantomeno di tendenze interne di opposizione. Il che già di per sè lo troviamo preoccupante. In poche parole stiamo parlando di una tradizione nefasta del movimento operaio, in base alla quale chi ha la maggioranza cerca di "prendersi tutto", senza tanti complimenti per le minoranze. Non è un costume "stalinista", perché, a turno, l'hanno utilizzato tutte le correnti del movimento operaio. Il che ovviamente non ci rende allegri, e nemmeno indifferenti rispetto a quanto è accaduto al congresso. Semplicemente siamo un po' più determinati nel volerla far finita con una modalità politica che purtroppo riguarda tutti.

E ora, il PRC?

Le nostre previsioni di massima le abbiamo già formulate nell'articolo del numero scorso (Destini del PRC). Occorre mantenere una visione molto realistica, anche se capiamo che può sembrare cinica, di quello che è oggi questo partito. Il VI congresso ha rappresentato lo scontro tra ristretti gruppi di attivisti in lotta per accaparrarsi la rendita di posizione derivante dallo spazio elettorale del PRC in Italia. Come abbiamo già scritto esiste uno scarto abissale tra questo enorme spazio (più di 3 milioni di voti) e il suo corpo militante (6.000 persone). Questa è la ragione per cui ben difficilmente le attuali opposizioni interne decideranno di lasciare il partito: il peso di cui godono all'interno, non avrebbe nulla a che fare con la percentuale che prenderebbe una volta uscite. L'attuale 40%, se uscisse, non arriverebbe, alle elezioni, all'1%. E questo perché tutto il PRC è un partito sradicato dalla società e dal suo spazio elettorale: semplicemente lo "occupa". Per questo i pezzetti che dovesse perdere sono destinati a non contare nulla, perché sarebbero sradicati come tutto il PRC, ma con lo svantaggio di non poter occupare uno spazio già occupato. L'unica possiblità è che l'immagine di radicalità del PRC si appanni. A quel punto, certo, lo stesso spazio elettorale andrebbe alla ricerca di altri strumenti, così come in Francia il PCF, dopo l'esperienza del governo Jospin, s'è visto sorpassare e doppiare dall'estrema sinistra.

Una delle conseguenze del totale sradicamento del PRC dalla società, è che il suo dibattito è stato ignorato dalla massa di coloro che votano il Prc. Qualsiasi persona, anche impegnata in qualche movimento, che si fosse trovata in un congresso di circolo non ci avrebbe capito assolutamente nulla. Era un dibattito totalmente separato dalle preoccupazioni e dalla capacità di comprensione di quella massa di nuovi potenziali attivisti che i movimenti hanno fatto crescere.

L'operazione condotta da Bertinotti con questo congresso, è, nel complesso, un'operazione contro il corpo del partito. Non solo contro le sue minoranze interne. Bertinotti è convinto che si tratti di un corpo inadatto ad affrontare i tempi nuovi. Questa convinzione abbiamo già avuto occasione di dire che non è totalmente destituita di fondamento. Il problema è che Bertinotti ne è una delle cause. Il militante medio del PRC non è abituato a fare movimento, ma l'agire che proprone Bertinotti non è certo in grado di offrire una diversa visione della militanza. Che militanza è una politica fatta da un segretario con una massa di iscritti costretti a seguire le giravolte dai giornali? E che tipo di attrazione può esercitare una simile modalità sulla nuova leva di attivisti che vagano alla ricerca di referenti politici? Cosa può pensare un militante medio del movimento contro la guerra delle frenate sul ritiro delle truppe? Forse potrà anche concordare con Bertinotti, ma non sentirà mai il bisogno di entrare dentro una organizzazione che gli apparirà, semplicemente, superflua.

Bertinotti vorrebbe tanto andare oltre il PRC. Il totale governo del partito gli serve anche per avviare forzature organizzative ben più hard di quella della Sinistra Europea. Vorrebbe arrivare ad un rappruppamento più ampio, che comprenda anche altri settori politici. Ma la sua strategia è destinata al fallimento. Non ci sono altri settori da aggregare. L'operazione nella quale Bertinotti sperava, quella tesa a conquistare la sinistra DS, è naufragata miseramente, e per indiretta responsabilità del PRC stesso. La sinistra DS aveva senso di esistere se si fosse mantenuta aperta nella società la contraddizione, sulla quale aveva lavorato Cofferati, tra l'elettorato del centrosinistra e il gruppo dirigente DS. Bertinotti però, attuando un anno fa il drastico avvicinamento al centrosinistra, ha dovuto per forza di cose ridurre al minimo il suo grado di ostilità nei confronti del gruppo dirigente DS, obbligando così tutti quelli che stavano "alla sua destra" a fare altrettanto. Così il congresso DS si è potuto svolgere nel più completo trionfo del dalemismo. A farne le spese è stata la sinistra interna, che ha preso il risultato più basso da quando i DS sono stati fondati.

In realtà non vi è alcuna alternativa che non sia la costruzione o la ricostruzione o il rinnovamento dal basso della forma della rappresentanza politica. Gli attivisti che si sono formati coi movimenti, non sono tornati a casa, e oggi che i movimenti non ci sono più, vorrebbero incontrare i modi di un forte impegno politico. Il PRC però, preso dai suoi riti, sempre più dentro le istituzioni, esterno alla CGIL, esterno a tanto sindacalismo di base, non in grado di costruire dal basso e a partire da zero i movimenti, è uno strumento davvero poco utile. Lo si vota, ma non ci si entra. Non ci sono scorciatoie alla costruzione dal basso della politica. Una costruzione alla quale però i gruppi dirigenti del partito, sia quelli di governo che quelli di opposizione, non sono ancora pronti.