Il Corriere della Sera - 22.12.97

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Algerino digiuna in cella da 63 giorni

Novara, è ridotto a uno scheletro. Per i francesi è un terrorista islamico

Marco Imarisio,

MILANO - Lo hanno portato davanti a sua moglie su una sedia a rotelle: la barella non passava dalla porta della sala-colloqui dei detenuti. Gli agenti del carcere di Novara hanno sollevato con cautela Djamal Lounici, 35enne algerino al 63esimo giorno di sciopero della fame: le ossa sporgenti in tutto il corpo avrebbero potuto bucare la pelle. «Sembra un vecchio di novant'anni - dice sua moglie Zerida Deramchi, 21 anni, da cinque in Italia, casa in un palazzo popolare nella zona industriale di Sesto San Giovanni, ottanta metri quadrati da dividere con suo padre e sei fratelli -. Ha gli occhi incavati, i denti stanno iniziando a cadergli, non riesce più a parlare».

Zerida ieri mattina ha speso le ultime due ore delle sei che ha a disposizione ogni settimana per vedere il marito cercando di convincerlo: «E' una fortuna che tu non sia ancora morto. Adesso basta, sospendi lo sciopero della fame». Ha ottenuto soltanto che bevesse un bicchiere di latte («L'ha fatto per farmi contenta») e una certezza: suo marito non farà come nel giugno scorso, quando dopo 53 giorni di digiuno e 32 chili persi fu convinto a lasciar perdere. Questa volta andrà fino in fondo, fino all'estremo.

Non è un detenuto qualunque, Djamal Lounici. Per il governo francese e per quello algerino è il capo di una rete eversiva legata al Gia (l'ala estrema del movimento islamico algerino). Per i suoi «fratelli» algerini è un combattente per la libertà del suo popolo: ex imam di Algeri ed esponente di rilievo del Fis (Fronte islamico di salvezza), il partito che nel 1992 vinse le elezioni prima di essere dichiarato illegale dal regime militare.

Per noi italiani è soltanto il protagonista di una storia giudiziaria intricata, passata (un po' troppo) sotto silenzio: fuggito dal suo Paese nel '92, arrestato in Italia con l'accusa di associazione sovversiva, Lounici interessa molto i servizi segreti francesi e algerini. Parigi ha presentato due richieste di estradizione (deve scontare una condanna a cinque anni di reclusione), che verranno soddisfatte soltanto quando l'attivista algerino avrà chiuso i conti con la giustizia italiana. Tempi lunghi, quindi: il processo di Napoli nel quale è imputato di associazione a delinquere (il tribunale della Libertà ha annullato l'accusa di associzione sovversiva armata) ha già subito due rinvii, inizierà a gennaio («E gli avvocati ci hanno detto che potrebbe anche durare un anno», racconta Zerida).

Se continua così, è difficile che arrivi a gennaio. Per capirci: sei dei dieci detenuti nordirlandesi che nel 1981 si lasciarono morire di fame nel carcere di Long Kesh non superarono i 62 giorni di digiuno. «Soltanto che Novara non è Belfast, e l'Italia non è l'Inghilterra: il vostro governo non ha nessun interesse, almeno ufficialmente, in questa storia», dice Otham Deramchi, suocero di Lounici. In quell'«almeno ufficialmente» ci sono i motivi della protesta dell'algerino: «Mio marito è in attesa di giudizio da tre anni - sostiene Zerida Deramchi -. E' una situazione illegale, ma la gisutizia italiana sta giocando con la legge: ogni volta che stanno per scadere i termini della custodia cautelare i giudici di Parigi presentano al vostro ministero di Grazia e Giustizia un nuovo mandato di cattura, e voi provvedete a lasciare mio marito in carcere».

Ha soltanto 21 anni ma idee chiare in testa, Zerida: da quando (fine 1993) è arrivata in Italia combatte per la libertà di suo marito. Idee chiare e accuse taglienti: «Siete gente senza princìpi. Voi giocate con la legge, lasciate in carcere mio marito per non inimicarvi il governo algerino, lo tenete in cella senza estradarlo così la Francia, che teme l'estradizione perché Djamel potrebbe chiedere la cittadinanza francese, non può rimproveravi di essere "molli" nei confronti del terrorismo. Soltanto che mio marito non è un terrorista, e sta morendo. In un carcere italiano, anche per colpa vostra».

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