Il Manifesto - 03.12.97

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Sofri, una dubbia legge

L'OPINIONE di Andrea Colombo

L A COSIDETTA "leggina Sofri" ha perso con sconcertante rapidità gli onori della cronaca, scomparendo senza ulteriori discussioni anche dalle pagine di questo giornale. Accennava per ultimo alla questione Gianni D'Elia in un editoriale, pubblicato il 16 novembre, fortemente critico con Giovanni Raboni. Ma nonostante lo scrittore avesse preso posizione proprio contro la legge, l'accenno al provvedimento era nella risposta di D'Elia tanto fulmineo quanto vago.

Quella legge, al contrario, pone alcuni problemi sui quali è a mio parere semplicemente inaudito sorvolare. In teoria si tratta di un ottimo provvedimento. Introdurre ai fini della concessione della libertà condizionale la valutazione del tempo trascorso dopo il delitto, nonché del comportamento tenuto nel frattempo dal reo, è un fatto di civiltà giuridica. O meglio lo sarebbe se la legge fosse davvero valida per tutti.

Così non è. La formulazione della legge esclude infatti i condannati all'ergastolo. Esclusione inspiegabile, dal momento che non si vede perché un principio di civiltà valido, ad esempio, per rei d'omicidio condannati a trent'anni perda validità per rei del medesimo delitto condannati alla massima pena.

Dal momento che la legge Sofri non è stata denominata così per caso è legittimo esemplificare come segue: i condannati per l'omicidio Calabresi sarebbero probabilmente liberati dopo alcuni mesi di carcere; i condannati per altri omicidi, magari solo per concorso morale e detenuti da oltre 15 anni, resterebbero in carcere.

Questa è una vistosa aberrazione, per giustificare la quale può essere addotta, certo ufficiosamente, un'unica motivazione. Essendo i condannati per l'omicidio Calabresi innocenti, è sacrosanto mirare alla loro scarcerazione senza andare troppo per il sottile. L'argomentazione è tanto debole quanto pericolosa. Nella sostanza una legge del genere violerebbe ogni principio di uguaglianza. La presunta innocenza dei condannati peggiorerebbe ulteriormente le cose. Violato il principio d'uguaglianza per chi sia ritenuto innocente da una parte influente dell'opinione pubblica, non si vede perché non lo si dovrebbe violare nei casi contrari. Quando, secondo l'opinione diffusa, una manifesta colpevolezza consente di soprassedere sulle regole.

La spiacevole realtà è che una legge del genere sarebbe una mazzata fatale per ogni velleità garantista. Personalmente rimango dunque allibito di fronte al silenzio di chi ha combattuto per anni la battaglia garantista, a partire da Antigone. Va da sé che tutt'altra cosa sono la battaglia per la revisione del processo, via maestra in questo caso, o la richiesta di grazia, che per definizione sfugge a pretese di validità universale.

Raboni e D'Elia affrontavano poi, da opposti punti di vista, un secondo problema, di carattere non giudiziario ma storico: la responsabilità di Lotta continua, come di quasi tutta la sinistra rivoluzionaria, nella costruzione del clima politico sfociato nella lotta armata. Questione, va da sé, che non riguarda affatto l'omicidio Calabresi, neppure nei termini della responsabilità morale, e tanto meno le aule giudiziarie. Questione spinosa con la quale tuttavia bisognerà fare prima o poi i conti, salvo continuare ad avvalorare la bugia che vuole il movimento dei '70 diviso tra una maggioranza responsabile tutt'alpiù di qualche intemperanza, verbale e non, e una minoranza criminale. Sacrificando così, dopo il garantismo, anche ogni speranza di ripristinare la verità storica.

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