Il Manifesto - 14.06.97
Un braccialetto molto pericoloso
di Grazia Zuffa
La proposta di Michele Coiro di applicare un "collare" elettronico per controllare i detenuti fuori dal carcere e gli effetti laceranti che può produrre. Sui diritti, sulla persona e sull'opinione pubblica
Torna l'idea del braccialetto elettronico per controllare i condannati al di fuori del carcere. La sostiene convinto anche Michele Coiro, nell'intervista sul manifesto (11 giugno), annunciando la costituzione di un gruppo di lavoro interministeriale per studiare la misura. Già lo scorso anno l'amministrazione penitenziaria aveva avanzato la proposta di applicare il bracciale ai detenuti tossicodipendenti. E non erano mancate le polemiche, da parte di chi, giustamente, obiettava sull'invasività di quel tipo di controllo e sulla scelta, arbitraria e dunque stigmatizzante, di una particolare categoria di detenuti, su cui "sperimentare" il marchingegno.
Il dipartimento si affrettò allora a precisare che il braccialetto sarebbe stato buono per tutti, e non solo per i tossici. Si trattava dunque di un lapsus. Ma, come si dice in gergo, di un lapsus "significativo". Se è vero, com'è vero, che il 50 per cento degli ingressi in carcere avviene in violazione della legge antidroga e che questi reati ampiamente prevalgono fra i detenuti tossicodipendenti, è chiaro che la questione droghe (e piccola criminalità connessa) largamente coincide col problema del sovraffollamento del carcere.
C'è poi da supporre un'altra ragione: lo stereotipo del tossicodipendente come il deviante/malato, l'"irresponsabilità" per eccellenza "verso sé e gli altri", giganteggia nell'immaginario collettivo. Il tossicodipendente è dunque il soggetto pericoloso per antonomasia, da tenere comunque, al di là della gravità dei reati commessi, "sotto controllo".
Opinione pubblicap
Adesso Coiro rilancia il bracciale elettronico, in coincidenza della prossima approvazione della proposta di legge Simeone, che prevede gli arresti domiciliari per pene brevi, inferiori ai tre anni. Perché, com'egli precisa, "mettere fuori la piccola delinquenza preoccupa l'opinione pubblica" e una maggiore articolazione dei normali controlli "sarebbe al di fuori delle nostre possibilità e responsabilità".
Ma dovrebbe preoccupare ancor di più il proclamato intento di "acquietare" l'allarme dell'opinione pubblica, avallando, anzi rinforzandolo, con la scelta di un controllo per certi versi anche più invasivo del carcere.
Se diminuire la permanenza in carcere non si riduce a un puro espediente tecnocratico di governo dell'emergenza carceraria, dovrebbe accompagnarsi a un ridimensionamento dell'immagine di pericolosità sociale di chi ha commesso piccoli reati, e non viceversa. Perciò è importante che le proposte in tal senso siano contestuali a un ridimensionamento dell'uso del diritto penale. Le proposte di depenalizzazione di condotte quali la cessione senza lucro di droghe e la coltivazione di cannabis a uso personale, recentemente approvate in Commissione alla camera, hanno il merito non solo di impedire il rigonfiamento del carcere. Ancora più importante è l'effetto simbolico: un segnale di maggiore tolleranza sociale nei confronti di persone trattati come "delinquenti", ma che tali non sono. Non si sa se la camera riconfermerà questa norma, anche se ovviamente ce lo auguriamo: è bene comunque sapere che sono questi alcuni di quei "pericolosi" detenuti, che ci si propone di controllare elettronicamente.
Disparità sociale
Ma c'è di più: la proposta Simeone, cui si rifà Coiro, interviene anche per sanare situazioni di "disparità sociale". Già oggi è possibile, per pene inferiori ai tre anni, opporsi al provvedimento di incarcerazione, e usufruire degli arresti domiciliari, in attesa di misure alternative. Ma spesso la "piccola delinquenza" coincide con la marginalità sociale. Gente cui magari arriva tra capo e collo un residuo pena da scontare, e che non ha gli strumenti di conoscenza della legge e di supporto legale per far valere i propri diritti. Vogliamo avallare l'idea che proprio per questi condannati, magari nel frattempo già perfettamente reinseriti, sia necessario il braccialetto? Senza contare che già nella legge c'è una corposa garanzia a tutela della collettività dei liberi: l'immediata incarcerazione se si violano le regole della detenzione domiciliare.
C'è ancora un pericolo maggiore: una volta introdotto un metodo di controllo così "facile" ed "economico", si rischia di non fermarsi ai soli detenuti domiciliari. In fondo, anche i detenuti in semi-libertà provocano allarme sociale, per non parlare dei tossicodipendenti in affidamento in prova. Si negherebbe loro così quella fiducia che si sono guadagnati e che è indispensabile nella logica di responsabilizzazione e di recupero di "dignità", alla base del progetto di reinserimento.
Decidiamoci. O vogliamo ridimensionare l'uso inflattivo del carcere per i reati minori, perché si ritiene che sia una misura ingiusta, inutilmente afflittiva e dannosa per il recupero del condannato: allora il bracciale non va perché aumenta, invece di diminuire, la stigmatizzazione del detenuto.
Oppure ci preoccupiamo solo che il carcere non "scoppi": e allora, come ha scritto Vincenzo Vitale ( Il Giornale, 6 giugno) "la città stessa diviene una grande e soffocante prigione senza mura", dove alcuni individui sono soggetti ad un controllo continuo e ossessivo. Attenzione però: il fantasma del Grande Fratello non ha mai rassicurato nessuno.