Il Manifesto - 19.06.97

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Il carcere è una malattia

Una commissione sulla vita in cella, la depenalizzazione dei reati minori, una figura che rappresenti i detenuti

di MANUELA CARTOSIO - PISA

Li abbraccio, per rimediare con un gesto alle parole che paiono tutte fuori misura, o troppo larghe o troppo strette. E la mano, con istinto materno, corre sulla schiena, per verificare il segno lasciato da nove giorni (era martedì scorso) di digiuno. Pietro ha ancora ampie riserve, Adriano è giusto, a Ovidio si sentono le costole. Ma lui era già magro cinque mesi fa - dicono per tranquillizzarmi - prima d'entrare in carcere. Adriano butta una manciata di caramelle sul tavolo di vetro, il pezzo del Don Bosco di Pisa reso familiare dalla tv. Sono l'unica cosa solida che Sofri, Bompressi e Pietrostefani mandano giù, "perché il non mangiare rovina la bocca". Per il resto - a sentir loro - il digiuno "rende più forti e lucidi, è un buon modo per prendere la rincorsa". La corsa si fermerà; quando, non sanno. Il digiuno di testimonianza, espressione che preferiscono a sciopero della fame di protesta, non è ad oltranza. "Stiamo a vedere quel che succede, per il momento non mangiare non può che fare bene alla salute", dice Pietro. L'unico problema è che la vita del carcere è scandita dal mangiare, è l'argomento principale di conversazione, il rifugio contro la noia. Pietro gira e annusa gli odori.

Il minimo ragionevole

Segnali positivi di attenzione a quel che stiamo facendo sono già arrivati, dice Ovidio, da Coiro, da Gozzini e da alcuni parlamentari. In serata, il ministro di grazia e giustizia Flick definirà "un'ottima idea" l'istituzione di una commissione d'indagine sulle carceri. Non abbiamo piattaforme da rivendicare, prosegue Ovidio, chiediamo "il minimo ragionevole", che si facciano "le cose più urgenti". Una commissione che "ascolti" costantemente "la vita" dei detenuti, la depenalizzazione dei reati minori per sfoltire la popolazione carceraria, l'istituzione di una figura che rappresenti gli interessi dei detenuti. "Una volta c'era il prete, ormai è uno tra gli altri", dice Adriano. In questi anni le figure si sono moltiplicate (per poi magari essere cancellate dai tagli ai finanziamenti): criminologi, sociologi, psicologi, assistenti sociali, educatori. "Sulla carta è previsto tutto, salvo una figura che rappresenti la difesa, il punto di vista dei detenuti". Che continuano a essere, nonostante tangentopoli, i più poveri. "Il che è iniquissimo e seccante", osserva un Sofri di classe.

Adriano con una mano scrive la sua lettera quotidiana al Foglio (dove precisa che non uno ma due detenuti hanno tentato di impiccarsi al centro clinico), con un orecchio segue i discorsi, ti molla un paio di occhiali da aggiustare, racconta scampoli di dialoghi del carcere, imitando nei gesti e nella cadenza i protagonisti. Il detenuto che qualche giorno fa si è tagliato di netto un dito - l'autolesionismo è di casa - parla con accento romanesco ed è lo stesso che Ovidio ha conquistato perché "ha sempre una caramella di menta per tutti, è come se ci desse un mazzetto di fiori".

E' proprio necessario digiunare per ricordare quanto è brutto, inutile, insensato il carcere? Non si sa già? No che non si sa, rispondono all'unisono i tre detenuti. Loro stessi hanno dovuto tornarci per "riscoprire" il carcere che, ogni volta, cambia. In peggio. "Se non vieni qui, non sai cos'è la conta notturna, la battitura dei ferri, i regolamenti maniacali che proibiscono tutto eccetto quel che è concesso in deroga".

Beveroni di farmaci

Persino Michele Coiro, persona sensibile e avveduta, non conosce tutte le "stravaganze" del carcere. In tv il responsabile dell'amministrazione penitenziaria è parso sinceramente stupito nell'apprendere che un detenuto può fare solo quattro telefonate al mese, durata massima sei minuti, e che la telefonata è alternativa al colloquio. In un'intervista al manifesto Coiro ha detto che il sistema sanitario del carcere è migliore di quello "esterno". Un'affermazione che i tre non riescono a spiegarsi: "In carcere la cura consiste in certi beveroni di farmaci mescolati con un po' di birra e un po' di vinaccio". Cure a parte, è la galera "la malattia grave e dolosa".

Un'ora di colloquio non basta per dire del rapporto tra giustizia e carcere. "La galera è una discarica indifferenziata della giustizia penale, ed è frugandovi dentro che si possono fare i conti in tasca alla giustizia", si legge nelle note che Sofri sta scrivendo sull'argomento. Ma almeno una battuta, a caldo, se la meritano i giudici della Cassazione che hanno definito un reato il passaggio di uno spinello. "Giudici così - dice Adriano - sono pazzi pericolosi, andrebbero rinchiusi nella loro stanza. Spero che i nipoti di questi signori li convochino e chiedano conto di quel che fanno".

Noi ci preoccupiamo per loro, loro si preoccupano per noi, per il manifesto. Pietrostefani, con piglio da manager, si informa sui conti in rosso. E quando sente la cifra, commenta: "Mica vorrete morire per così poco?". Adriano dice di considerare il manifesto il suo "medico di famiglia", "uno è contento di non averne bisogno, però quando serve meglio che ci sia". Ovidio ringrazia per l'attenzione alla questione carceraria. Cosa si aspettano per il loro caso personale? "Va tutto bene, qual è il problema? - domanda sardonico Pietro - adesso siamo in galera e ci tocca occuparci della galera". Avete sentito la novità di piazza Fontana? Questa volta, è Adriano a fare il sardonico: "Dopo 28 anni raccolgono i frutti di quel che noi avevamo detto in quattro mesi". Finisce con un grande show di Adriano passato, senza accorgersene, dalla visione in tv di Rambo 2 a delle esplosioni vere e vicine. "Pensavo venissero a liberarmi. Erano i fuochi d'artifico per San Ranieri, patrono di Pisa".

Alla prossima, possibilmente altrove.

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