Il Manifesto - 22.04.98
Una storia e un sogno
Questa lettera normale è un annuncio di suicidio, o più propriamente una denuncia di omicidio. In un paese in cui un referendum popolare ha sancito la non punibilità del tossicodipendente, a me, dopo sette anni di carcere, viene costantemente negata la possibilità di sperare nel futuro. Nonostante per la legge Gozzini potrei fruire dei permessi premio, da oltre tre anni mi vengono negati in quanto tossicodipendente. Sono stato arrestato che avevo trent'anni, ora ne ho 37. Sono detenuto a causa della mia tossicodipendenza, per mantenere la quale rubavo nei supermercati commettendo reati che, quando venivo sorpreso, comportavano la denuncia a piede libero. Reati che mi hanno portato a una pena di 13 anni di carcere, dato che ho sommato 40 condanne di due mesi circa l'una. Se sono in carcere e non posso uscire nemmeno in permesso è esclusivamente perché sono stato tossicodipendente.
Dopo oltre sei anni di carcere che non auguro a nessuno di provare, io sono una persona completamente diversa. Fuori di qui mi aspetta una splendida ragazza con cui ho già iniziato a rifarmi una vita; ho lottato con me stesso per giornate lunghe come anni affrontando tutto quello che di me non avevo mai voluto accettare e che per non ascoltare zittivo iniettandomi eroina nelle vene; per questo non ho chiesto permessi in precedenza, perché sapevo che dovevo ancora risolvere i miei problemi. Ho lottato, ho sofferto e ho vinto. Ma è stata una vittoria di Pirro perché ora mi viene negato il permesso con la motivazione che "sono ancora attuali le mie problematiche legate alla tossicodipendenza, mai seriamente affrontate e risolte". Tutto questo è aberrante: perché questo giudizio viene dal magistrato di sorveglianza, che dovrebbe giudicare im base alla mia pericolosità sociale, alla possibilità che io, approfittando dei permessi, possa compiere reati e non che io faccia uso di droga. Perché ho lottato e sofferto mentre, per il magistrato di sorveglianza che ho incontrato due volte in sei anni per tre minuti, "non ho mai affrontato seriamente le problematiche della tossicodipendenza". Perché il magistrato di sorveglianza ha basato il suo giudizio sulla relazione degli educatori del carcere con i quali in sei anni e mezzo ho avuto modo di parlare per cinque minuti, quando è morto mio padre. E' aberrante perché il magistrato di sorveglianza afferma che non ho avuto rapporti con il servizio tossicodipendenti. Ma avere contatti con il Sert è impossibile: nel carcere di Alessandria gli operatori non entrano dal luglio dell'anno scorso. E' aberrante perché si vuol far credere che tutti i problemi della giustizia risiedano nella divisione delle carriere dei magistrati e nessuno si rende conto che la vita di migliaia di persone è nelle mani di un uomo solo, il magistrato di sorveglianza, che può decidere se puoi rifarti una vita oppure no. E' aberrante perché quello che sta succedendo a me e a tanti altri è una vera e propria istigazione al suicidio. E' aberrante che nelle aule dei tribunali ci sia scritto che "la legge è uguale per tutti". E' aberrante perché quella che subisco è una tortura psicologica a cui preferirei mille volte una tortura fisica che viene invece condannata da tutti i benpensanti.
Il mio sfogo termina qui. Adesso inizia il sogno. Sogno che chiunque legga questa lettera perda il sonno come l'ho perso io, che si senta oppresso, annientato e torturato come mi sento io, che gli venga voglia di suicidarsi e che veda già il trafiletto sul giornale locale: "Un gesto imprevedibile, era una persona tranquilla". Sogno che chiunque si renda conto che se mi appendessi alle sbarre il gesto non sarebbe imprevedibile ma prevedibilissimo e istigato da persone precise: sono stato condannato in nome del popolo italiano, ebbene se mi appendo alle sbarre sarà stato indirettamente il popolo italiano l'istigatore, o almeno sarà questa la scusa di chi avrà bisogno di lavarsi la coscienza.
Sogno il mio futuro, qualunque esso sia. Purché ci sia.
Alessandro Gamaleri, c/o Casa di Reclusione via Casale, 50/A San Michele
Alessandria
La lotta è per tutti
Comprendiamo le emozioni drammatiche di chi vede lentamente morire di galera un amico o persona cara, ma non ci sembra l'articolo del manifesto del 10 aprile scorso di Manuela Cartosio un modo corretto di porre la liberazione di Ovidio Bompressi. Ovidio è malato di carcere ed è positivo che sia stato liberato. Allo stesso modo vanno liberati i tanti, troppi malati che popolano le galere italiane. E vanno liberati.
Tutto il resto che senso ha? Perché volere aggiungere differenziazioni in un terreno, quello carcerario, che ne è zeppo? Differenziazioni dove sguazzano, a loro agio, magistrati e operatori di "giustizia" per condurre battaglie politiche forse legittime ma non quando vengono combattute sulla pelle di uomini e donne carcerati.
Né sono accettabili differenziazioni di carattere morale. Anche perché la rivendicazione di un diritto non è "privilegio", soprattutto quando la lotta per la libertà dei detenuti malati, come ogni altra rivendicazione, è costata sacrifici e morti, fucilati sui tetti delle carceri e soffocati nelle celle di isolamento, e oggi è al primo punto della piattaforma dei detenuti a Rebibbia e in altre carceri. Non è forse più sincero e trasparente battersi collettivamente per sostenere ciascuno e tutti nella rivendicazione dei propri diritti negati? E non, invece, tirarsi fuori aristocraticamente aspettando che sia "la struttura penitenziaria" a fare la richiesta? Anche perché questa struttura penitenziaria non si spreca granché per i detenuti malati. La richiesta della "sospensione pena per motivi di salute" (art. 147 c.p.) deve essere fatta dal detenuto, è un suo diritto ma anche un suo dovere: così insegna il movimento dei detenuti di ieri e di oggi. Affermazione ancora più vero in questo periodo in cui si negano ai detenuti i più elementari diritti e la galera è diventata terra di arbitrio e soprusi delle istituzioni, preoccupate soltanto di inviare messaggi tranquillizzanti.
"In Italia, in questo fine millennio, di galera si muore" hanno mandato a dire i detenuti in lotta nei mesi scorsi; "si muore di malattia, di botte, di suicidio" (non dimentichiamo Edoardo Massari e tutti i "suicidi" troppo frequenti, non dimentichiamo i 5 detenuti morti a Rebibbia nelle ultime settimane), "si muore in mille modi, si muore di galera" hanno urlato nelle piazze, sotto i Palazzi e sotto le redazioni dei giornali quelle poche centinaia di uomini e donne (chi saranno? squatter, centri sociali, comunisti, anarchici, chi mai?) che con ogni mezzo stanno cercando di sostenere la lotta dei detenuti dando loro visibilità nel disinteresse generale cui nemmeno il manifesto, purtroppo, ha fatto eccezione.
La battaglia per la liberazione dei detenuti malati, che la galera rischia di uccidere, fa parte di una battaglia più generale contro il carcere, finalmente ripresa in questo paese narcotizzato. In questa battaglia c'è posto per tutti purché si voglia combatterla a viso aperto per liberarsi dal carcere e da ogni sistema segregazionista.
Alcuni detenuti di Rebibbia
Roma