Il Manifesto - 22.06.97

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Io giudice, tu boia

Adriano Sofri continua lo sciopero della fame insieme a Bompressi e Pietrostefani. Ecco la sua analisi sull'istituzione carceraria

Cinque mesi in galera. Non sono molti, ma neppure pochi per fare alcune riflessioni sul carcere. Su com'è (droga e delazione hanno fatto cadere la stima di sé e l'interesse reciproco nei detenuti) e su com'era. Adriano Sofri può fare confronti, avendo sperimentato la galera in epoche diverse, nel '70 a Torino, nell'88 a Bergamo, ora al Don Bosco di Pisa. Con Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, Sofri digiuna dal 9 giugno per testimoniare il degrado del carcere. Le note che ha scritto Sofri raccontano e interpretano il carcere e spiegano anche implicitamente le ragioni del digiuno. Ne pubblichiamo un brano.

La concezione informatrice della "legge Gozzini" sembrerebbe avviare a un superamento della separazione completa fra giudizio penale ed esecuzione della pena, fra tribunale e galera. Quella separazione piena per cui il giudice pronuncia il suo verdetto e poi confida il dannato ai birri, al braccio secolare, e se ne lava le mani. Io giudice, tu boia e carceriere. In virtù di quella concezione - che prevede un piano superiore, quello togato della Giustizia, e un sottoscala buio e sordido, quello della espiazione - la galera ha goduto - goduto, non è la parola - di una oscura e un po' ripugnante autonomia: come il luogo nel quale fosse vietato guardare, ma dal quale, anche, pubblico e istituzioni, Giustizia compresa, preferissero distogliere lo sguardo. Il luogo del lavoro sporco. I carcerieri, e la bassa forza delle guardie in primo luogo, sono stati umiliate di questa separatezza, culminata nella brutalità e nella ripugnanza dei manicomi criminali, incrocio orrendo fra la galera e il manicomio.

Tradizione orale

Se avessi a disposizione dati esatti, potrei certificare scientificamente questa descrizione. La tradizione orale carceraia, mescolata alla correnti notizie di cronaca, basta a mostrare in modo impressionante che una gran parte della gerarchia penitenziaria italiana - direttori, comandanti, graduati - è finita a sua volta in galera, o sotto processo, per corruzione. L'opinione pubblica ha appunto voltato la testa dall'altra parte tutte le volte che si trattava del carcere. Anche quando, come ad Ascoli Piceno al tempo del sequestro Cirillo, il viavai di illegalità e di giochi sporchi e cruenti era più spudorato. La criminalità organizzata governava di fatto alcuni grossi carceri? Affari suoi. Fino negli anni '80, a Poggioreale cutoliani e Nuova Famiglia si affrontavano a colpi di pistole, kalashnikoff (e bazooka perfino) nelle sezioni e nelle sale colloqui: avete mai sentito parlare di una cosa così incredibile? Nel 1988 andai in carcere a Bergamo: avevano appena arrestato le autorità carcerarie. Ora sono a Pisa: negli anni '80 furono arrestati direttore, comandante delle guardie e così via. A Lucca: lo stesso. Se un parlamentare, o un giornalista, o un criminologo penitenziario, si prendesse la briga di raccogliere la documentazione sui reati nell'Amministrazione del Ministero di Grazia e Giustizia, si accorgerebbe che la tangentopoli delle carceri era avvenuta molto prima, nel disinteresse generale - ed ha continuato ad avvenire. Galere: posto buono per bastonare, e rubare. Tanto, c'era sempre una ragione superiore per passarci sopra: il terrorismo, la mafia, oggi la microcriminalità. (Chissà quanto costerebbe ai titolari dell'informazione, e allo stesso Ministero, spiegare al pubblico spaventato dalla "microcriminalità" che non c'è alcun rapporto fra incremento nel numero dei detenuti e riduzione della criminalità grande e piccola. E anche, complementarmente, nessun rapporto fra quantità di popolazione carceraria e tasso di criminalità sociale. E sarebbe ora di riprendere anche in Italia, dove il sistema è più antiquato e sgangherato e dunque per certi versi meno cinico, l'analisi sul "business penitenziario" e sul rilievo economico e occupazionale del sistema vigente delle pene). A occhio e croce, la corruzione di sistema della macchina penitenziaria può essere considerata l'antenata povera di quella della macchina sanitaria.

C'è un altro aspetto essenziale, una volta che si guardi dentro la separazione comoda fra Giustizia e Galera. La galera è il punto di caduta e insieme di rivelazione e di verifica della Giustizia, il suo precipitato in corpi umani, ferite, mutilazioni, sbudellamenti e impalamenti, come nei mirabili e terrificanti Giudizi Universali delle nostre chiese, in cui il Giudice siede in Maestà radiosa e imperturbabile, e nel precipizio sottostante i dannati vengono ammucchiati a forchettate dai bravi diavoli. Sapete di quell'idea, estesa dal Giappone al resto del mondo ricco, di accertare redditi e obblighi fiscali dei cittadini dall'esplorazione della loro monnezza: un'analisi delle feci delle unità contribuenti. La galera è una discarica indifferenziata della Giustizia penale, ed è frugandovi dentro che si può fare i conti in tasca alla Giustizia. Qui è la difficoltà e l'impegno cui i discorsi sul carcere preferiscono in genere sfuggire, ricostruedo quella divisione fra lavoro sporco e pulito, fra solenne proclamazione del giudizio e caldaie e forchettoni delle pene.

Anticipi di libertà

Si chiedono - chiedo anch'io, qui - depenalizzazioni, ampliamenti delle riduzioni di pena e degli anticipi di libertà, eccetera. E si sa che l'entità delle pene previste dal codice è spropositata, assurda e arbitraria, e figlia spesso di ultime ore demagogiche e di rincari dell'emergenza. Si sa anche, benché si dica un po' meno, che la naturalezza o la distrazione con cui quelle pene spropositate sono irrogate sono spaventose. Esse proverebbero la malvagità d'animo dei giudici, fino al sadismo, se non provassero piuttosto qualcosa di più sottile e colposo: che gli anni di carcere pronunciati in un tribunale sono ancora parole, leggere e scambiabili come sono le parole. Diventano veramente anni solo nel momento in cui il condannato abbia espletato le incombenze di Matricola: polpastrelli, foto segnaletica, denudamento e sequestro di tutto, consegna di una coperta e un piatto. Lì diventano anni, ciascuno di 365 giorni, ciascuno di 24 ore, ciascuna di 60 minuti, pieni di rumori di ferro, di ispezioni corporali, di conte e occhiate, lunghissimi sessanta minuti. Appena prima, in tribunale, tutti quegli anni erano solo un modo di dire. Una metafora. Infatti, finora non si è trovato altro modo di designare e comunicare la gravità del giudizio. Un voto scolastico all'antica, ecco cos'è una sentenza.

Frugare nel mucchio dei rifiuti delle galere vuol dire anche misurare la giustizia dai suoi effetti. Soprattutto colpisce una tendenza all'ingrosso della giustizia penale. La tacita convenzione su cui molta parte dei giudici sembrano procedere verso gli imputati comuni è che comunque si ristabilisca un equilibrio fra i loro reati effettivi e non scoperti, e quelli loro addebitati erroneamente, o senza prove.

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