Il Manifesto - 23.10.97
BRUNO GIORGINI * -
O VIDIO BOMPRESSI, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri digiunano assieme a molti altri detenuti contro "una situazione di emergenza come quella che si vive e si respira all'interno delle carceri", come scrivono i detenuti di Rebibbia. Nel contempo, sabato prossimo a Roma i comitati "Liberi Liberi" indicono una "giornata per la libertà di Sofri, Bompressi e Pietrostefani" a cui, per altro, i detenuti di Rebibbia in sciopero della fame esprimono solidarietà. E, se 150 mila cittadini chiedono al Presidente della Repubblica di mettere riparo alla macroscopica ingiustizia della condanna definitiva, di converso Norberto Bobbio, con altri intellettuali torinesi, chiede un provvedimento di grazia.
Intanto, l'avvocato Sandro Gamberini prepara la richiesta di revisione del processo Calabresi, da presentarsi entro il mese di novembre, e Dario Fo, premio Nobel, da Milano a Francoforte usa la sua voce e la sua arte per lo stesso obiettivo. Mentre aleggia nell'aria l'annuncio di uno sciopero della fame senza termine da farsi in tempi prossimi venturi in cui i tre detenuti nel carcere di Pisa metteranno - più di quanto già non facciano - in gioco e sul piatto i loro corpi. Con leggerezza - come Sofri spesso ripete - ma del tutto determinati. L'insieme di queste iniziative, pur nella loro diversità, indica che il tempo di questa carcerazione è venuto a scadenza: Sofri, Bompressi e Pietrostefani, da qualunque parte la questione si guardi, vanno liberati al più presto. Pena una ferita, una lacerazione irreversibile nel corpo della convivenza civile; senza dimenticare il vulnus del diritto e l'ombra sui giudici che hanno pronunciato sentenze a dir poco controverse. Ferita e lacerazione a più livelli.
1. Mentre gli autori della strage di Piazza Fontana sono liberi e impuniti, alcuni di quelli che più si sono adoperati a smascherarne le trame fino alla dizione, oggi comune più o meno a tutto il popolo italiano, giudici compresi, di "strage di Stato", stanno in galera.
2. Mentre latitanti eccellenti circolano liberi per il mondo e fanno sberleffi alla "giustizia", Sofri, Pietrostefani e Bompressi sono andati in prigione - quando avrebbero potuto comodamente espatriare (e forse qualcuno lo sperava) - subendo una pena che ritenevano ingiusta, per ribellarsi dal carcere con le armi della parola, del diritto e della irriducibile volontà di dimostrare la propria innocenza anche contro la malevolenza, il pregiudizio e lo spirito di vendetta, che nel corso di nove anni hanno sperimentato.
3. Mentre la pena viene definita, Costituzione alla mano, come luogo di rieducazione, stanno in carcere tre persone che si sono, per anni, impegnate su fronti diversi - dalla lotta alle tossicodipendenze fino all'opera di volontariato in Bosnia - ma tutti in comunanza con gli oppressi, gli offesi.
4. Mentre essi sono detenuti, vengono quasi ogni giorno pubblicamente interrogati su molti problemi e eventi più o meno drammatici (dal conflitto ceceno alle manifestazioni sindacali in Italia fino all'immigrazione passando per le questioni di fede). Che è un paradosso non da poco, quello di "delinquenti" che diventano "maestri" di morale, di coerenza, di verità, di critica.
5. Mentre si sta costituendo l'Europa, il "caso Sofri" approda al Parlamento di Strasburgo, dove molti si interrogano su quale diritto sia quello che, sulla base di una chiamata di correo, una ed una sola, e dopo una serie di processi contraddittori, condanna a ventidue anni di carcere tre persone venticinque anni dopo il delitto di cui sono accusati.
6. Infine - forse è la cosa meno importante - con Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani è stata messa in ceppi anche la giovinezza di molti, se non tutti, che alle vicende politiche del '68 e seguenti presero attivamente parte, innocenti. E, francamente, è assai difficile sopportare che il proprio passato sia rinchiuso tra le pareti di una cella e le montagne di carte processuali.
Allora, se queste lacerazioni sono reali, va trovato un terreno di pace, per sanarle e ricomporle. Un terreno di pace che non può essere altro dalla libertà per i tre detenuti sequestrati nel carcere di Pisa. Il che non implica un riconoscimento da parte di tutti della loro innocenza - la discussione, giuridica ma anche storico-politica, è destinata a continuare; però la loro messa in libertà in tempi brevi, brevissimi, la renderebbe più serena e limpida; più vera, perché libera.
Sarebbe una discussione forse aspra ma in pace - nella convivenza civile e non uno scontro in cui può prodursi in una situazione drammatica, forse estrema. Con la coscienza che gli effetti non si fermerebbero alle porte del carcere ma sarebbero, inevitabilmente, destinati a pervadere l'intera società civile e il rapporto tra i cittadini e lo stato. Uno stato che, se dovesse lasciarli in carcere troppo a lungo, direbbe - suo malgrado - di non essere poi troppo dissimile o almeno di non voler rompere la continuità con quell'altro stato, quello della "strage di Stato", per l'appunto.
* Liberi Liberi di Milano